1. Tra i libri usciti nel primo ventennio degli anni 2000, ne trovi almeno 5 che per te siano fondamentali?
Da sempre, alterno tempi di lettura disordinati, promiscui, non cumulativi ma fortemente rigeneranti, a tempi di studio totalizzanti, ma altrettanto ristoratori, e potenzianti. Allora, in questo senso, il mio approccio all’opera di Franco Buffoni può dirsi duplice. Desidero sottoporre all’attenzione delle lettrici e dei lettori di MediumPoesia la produzione poetica di Buffoni in cinque passaggi, dal 2000 a oggi, e che, a mio avviso, meritano tutto il nostro interesse, il nostro affetto. Comincerei con Il profilo del rosa (2000), passando per Guerra (2005), Jucci (2014), Personae (2017), fino al magistrale La linea del cielo (2018). Anche in questo caso, abbiamo a che fare con una profezia che si autoavvera: a volte per conoscere un autore, per trasformarlo in un amico, è necessario attraversare una fase di esclusività.
2. Se incontro un poeta, possibilmente, non lo riconosco subito. C’è un modo per riconoscere un poeta? Nella tua esperienza, il fatto di scrivere poesia si riflette nella vita quotidiana?
Eluderei discretamente la prima domanda, per passare alla seconda, che mi pare possa dispiegarsi in almeno due sensi: mi chiedi se il fatto di scrivere poesia, dunque di porsi in qualità di autore e poeta, possa modificare la percezione sociale attorno alla persona. Sicuramente la percezione di una postura intellettuale particolare, così legata alla tradizione romantica, incide e modifica lo sguardo di chi sta attorno – elevando l’osservato o degradandolo, dipende dal contesto, dall’ambiente. Se invece pensiamo alla consapevolezza dello scrivente in relazione all’umanità circostante, anche qui la casistica potrebbe sconfessare ogni teoria. In generale, il sapermi interessato al tentativo di trascrivere o potenziare la mia percezione del reale implica non tanto una tensione interiore impellente, del tipo agostiniano, quanto una stanchezza mentale, e morale, costante. La poesia è una emicrania persistente, e scrivere significa assumere un antidolorifico e alleviarne la sintomatologia, almeno per po’. Poesia, in realtà, è posologia.
3. Come è il tuo rapporto, in quanto autore, con i lettori e con i colleghi? Senti di fare parte di una comunità, a cui aderisci?
Lo sradicamento è la condizione epistemologica del mio lavoro di scrittura, e fatico a vedere lettori e colleghi dove ancora scorgo individui complessi, e atomizzati. Tra lettori e colleghi viene istituito un rapporto funzionale, invece tra amici il rapporto può corroborarsi anche senza riferimenti alla posizione. Se c’è una comunità alla quale sento di appartenere, è la comunità del provvisorio. Tuttavia, se lettori e colleghi apprezzano il lavoro, non posso che gioirne, e ringraziare per l’atto di fiducia – l’acquisto –, l’investimento intellettuale, la sottrazione del tempo, e il tentativo di comunicare la qualità – qualora ce ne fosse – dell’esperienza letteraria.
4. Che rapporto hai con la poesia straniera?
Mi limito a indicare nella ricerca letteraria – e poetica – palestinese delle linee di sviluppo interessantissime, legate a un affastellamento di questioni politiche (in senso ampio) che riescono a coniugare il «molecolare» con l’«universale». E sono soprattutto giovani donne. Consiglierei di scorrere i preziosi archivi digitali (e multimediali) del Palestine Festival of Literature.
5. Nel tuo processo di scrittura, ti capita di raccogliere stimoli da altre forme artistiche o da discipline scientifiche?
Naturalmente il lavoro della poesia, e della scrittura, vive delle condizioni del fuori. Attingo specialmente dallo studio e dalle letture filosofiche e scientifiche, quindi da Pascal alle interpretazioni contemporanee della teoria dell’evoluzione, dalla narrazione giornalistica e di approfondimento, dalle inchieste alla cronaca; dagli studi sul linguaggio e le strutture cognitive a quelli sulle arti performative. E tutto in funzione di una costruzione dell’umano in poesia niente affatto edificante.
6. Che rapporto hai con la rima?
Involontario, ma del tutto libero. Qui potremmo riferirci alla risposta precedente, per ciò che concerne un certo tipo di campo semantico, una fraseologia particolare, la relazione con saperi e linguaggi differenti, da quello filosofico a quello scientifico, caratterizzati da un lessico fortemente ostensivo. Non rifiuto la rima aprioristicamente, ma non la ricerco neppure. Considerando che il mio lavoro si realizza attraverso moduli di testo, con grande attenzione alla risoluzione grafica della pagina, la questione della rima è marginale.
7. Ci sono 3 poeti delle nuove generazioni che ritieni particolarmente interessanti o a cui pensi sarebbe interessante porre queste domande?
Sarebbe interessante rivolgerle a Rimbaud, al giovanissimo Leopardi, al Goethe di Strasburgo. I colleghi correnti rispondono già alle stesse domande, su Facebook. E lo fanno pure bene.
Due testi di Samir Galal Mohamed tratti da Damnatio memoriae, Interlinea Edizioni, Collana “Lyra Giovani” a cura di F. Buffoni, Novara 2020.
Le regole di ingaggio non sono mai chiare
Le regole di ingaggio non sono mai chiare
Un tradimento, un abuso, un pestaggio…
Un focolaio di essere umani – rilevati dai radar.
L’incendio di una tendopoli – rivela il nome comune
di un luogo. Se le regole di ingaggio non ci sono mai
chiare, queste, al contrario, risultano arcinote.
Un silenzio, un sequestro, uno sgombero…
L’infinito movimento di un corpo-lince che si smarca,
che è complementare a un movimento finito e “segugio”.
Quando stringo fra le braccia questo torace, tanto minuto
quanto vulnerabile, cerco di non guardarlo negli occhi.
Non voglio che veda il mio male, che vi riconosca
delle prove, che ne intuisca alcuna profondità.
Non perché il mio male sia speciale o abbia qualcosa in più
di un altro. Semplicemente, non voglio che ne veda ancora.
Dovrà fare i conti con vecchie e nuove regole di ingaggio.
Con l’abisso della non decisione per eccellenza.
Con la possibilità di divenire umano, di venire meno
all’umanità, di divenire qualcosa in meno dell’umano.
Occorrerà il rischio di divenire altro: altro per cui
sarà valsa la pena lasciarsi guardare, negli occhi,
da tutto quel male.
*
Complementarità del dolore
Ripulire casa, rimuovere ogni prova, ripetere l’operazione.
Ribadire uno stato di cose che è andato perduto.
Ciò che è inosservabile, persiste – appare sotto ai lampioni,
nella camera a nebbia.
Il bello e l’orrore tendono spontaneamente alla reiterazione.
Militari e detenuti detengono il primato dei suicidi. Sul web,
i jihadisti esultano per l’incendio a Notre Dame.
In questo strano gioco delle parti inverse, muore soprattutto
chi piantona, gode soprattutto chi muore.
Passo in rassegna ogni interstizio del pavimento. Un capello
equivale a un teste inconfutabile, figurarsi una sindrome da burnout…
Spesso omicidi e infedeli condividono la stessa ossessione per l’igiene,
ma, i pensieri, nella camera a nebbia, non si possono vedere.
Si può, soltanto, constatarne gli effetti.
Confinati, processati in contumacia, obliati gli uni sugli altri, i pensieri,
come corpi bruschi di lavoro o rovine indifese, persistono. Ribadiscono
che uno stato di cose è andato perduto.
Idealizzare il dolore, ovvero conviverci e attenersi alle sue disposizioni:
questo lo capiscono tutti o, almeno, credono.
Difficile, è riconoscerne la complementarità: o il mio o il tuo.
Questo, non lo capisce nessuno.
Samir Galal Mohamed