L’”organico corpo” della poesia. Per una lettura di “Ardore”, di Tommaso Di Dio

Si propone una lettura critica di Silvia Atzori a "Ardore" (Aragno 2023) di Tommaso Di Dio. In copertina: Giuseppe Segantini, "La natura"

Ardore, l’ultima raccolta poetica di Tommaso di Dio, edita nel 2023 per Nino Aragno, è un libro estremamente complesso e stratificato. È diviso in cinque sezioni, intitolate dal primo al quinto libro, e precedute da una Avvertenza, che funge da cornice narrativa, la cui importanza si ricostruisce gradualmente nel procedere della lettura, motivo per cui anche questo articolo non ne anticiperà la trattazione. Inoltre, l’ordito poetico risulta particolarmente polifonico e composito, poiché si ricrea la presenza di diverse fonti testuali, che comprendono i pensieri del protagonista eponimo, i suoi scritti e le sue lettere, le parole di altri personaggi, principalmente i suoi antagonisti, fino ad arrivare all’inserto di alcune immagini, che si collocano in rapporto dialogico e, talvolta, ecfrastico, rispetto ai componimenti. Tuttavia, questo aggregato proteiforme è tutt’altro che disomogeneo e i suoi elementi sono magistralmente orchestrati per produrre un insieme armonico e organico, i cui singoli elementi si interpretano gli uni in relazione agli altri, e non mancano forti isotopie che conducono, attraverso un suggestivo immaginario tematico, alla costruzione di un messaggio.
La prima isotopia che non può essere ignorata anche a una prima lettura è quella della luce. L’apparizione iniziale di Ardore, il cui nome stesso richiama il campo semantico della luminosità prodotta dal processo di combustione, avviene per interposta persona, attraverso l’intercessione di un personaggio, chiamato semplicemente La Signora, che si presenta alla comunità di amici del defunto protagonista mentre questi sono riuniti intorno a un fuoco. La presenza del fuoco, dalla suggestione immediatamente ritualistico-antropologica, e gli elementi connotativi del personaggio femminile impostano immediatamente l’isotopia della luce. La Signora, infatti, è inizialmente percepita dall’io narrante come «un luccicare» (p. 8), ed ella è caratterizzata da un aspetto luminoso e chiaro («vestita di raso bianco con mostre e ricami d’oro»), e infine pare «divenire più luminosa-ma di una luce terrea» (9). All’interno del libro, il lemma luce e i suoi derivati hanno numerosissime occorrenze che, oltretutto, inseriscono la raccolta all’interno di quella che si percepisce essere una riflessione poetica più ampia dell’autore (si veda il riferimento alla «luce che inizia fredda / e si farà glaciale», riferita alle stelle che «non hanno più nome», geroglifici quasi incomprensibili che rimandano alla raccolta Verso le stelle glaciali). Il valore costitutivo dell’elemento luminoso sembra essere quello di rivelare gli aspetti del reale, anche se non necessariamente secondo un criterio di verità («con il sole sporco di ottobre, questo / non credibile sole (…) in un’allucinata oziosa tarda / insensata primavera d’ottobre»). La luce diventa l’elemento fondamentale perché una visione del mondo si produca e l’immagine sembra essere, così, unica essenza possibile del reale.

E poi la luce, la luce. Come un’ossessione.
La luce ti investe
Dai finestrini, dai tram; da dove viene
Questa che sorge
E sorride
E chiama. È capacità
Altezza scoglio? Produce risvegli
Sana? (p. 23)

Dove si posa la luce, si materializza l’oggetto, si compone quasi come emergendo dalla sostanza magmatica del reale, assume le fattezze e gli spigoli dell’identità: in questo senso si può parlare di luce come funzione descrittiva. La luce è in grado di discernere, produrre un discretum all’interno del continuum del reale e, facendo ciò, è in grado di dare prova del proprio potenziale generativo: «[…] qui qualcosa / di bellissimo / tace e si sotterra, sui prati poi sbraccia / fuoriesce    fa luce» (p. 21).

Tali caratteristiche dell’elemento luminoso contribuiscono a costituire un nesso che sembra ritrovare la propria ragion d’essere nelle più profonde radici della nostra lingua: il nesso luce-parola. L’autore stesso specifica in nota che «ardore traduce in lingua italiana la parola sanscrita tapas», sostantivo che, citando le parole di Walter O. Kaelber, «si carica di vari significati convergenti e divergenti nella letteratura vedica. Al centro di tutti questi significati, tuttavia, c’è la nozione di “calore” o “tepore”» (p. 129). Ampliando la suggestione dell’analisi etimologica, sembra interessante prendere in considerazione l’elemento visivo che corrisponde al processo di combustione, cioè, appunto, la luce. Mayer Modena ha posto l’attenzione su come nel semitico comune esista una radice trilittera (‘mr) il cui significato principale è quello di vedere. Il suo significato in ebraico è, invece, quello di dire. Alla radice trilittera ‘mr corrisponderebbe l’allotropo ‘wr, che in ebraico biblico avrebbe il significato di ‘brillare’, ‘illuminare’. Tale allotropo ricomparirebbe nella parola latina verbum.  Le riflessioni di Mayer Modena sono riprese da Silvestri nell’ambito di uno studio sui processi sinestetici interni ai sistemi linguistici, rilevando, così, la sovrapposizione che si genera tra il senso dell’udito, associato alla parola detta, e quello della vista, che percepisce la luminosità. Suggerisce, infatti, Silvestri: «Se fosse così, il termine latino verbum […] costituirebbe un inconsapevole e sintomatico recupero di un’antichissima dimensione ottica attraverso una sua seriore conversione acustica»[1]. Silvestri argomenta poi rilevando una «conferma dell’antichissima equazione» all’interno del verbo greco phemì, il cui significato di dire nel senso di ‘dichiarare’ rimanda, ancora una volta, all’elemento della luce che rischiara. La medesima radice si ritrova nel verbo for (infinito fari) latino, a sua volta connesso con la luce. Inoltre, Silvestri ipotizza che anche il verbo dico (dicere) possa essere connesso con la radice sanscrita *dei- (brillare), in comune con il greco deiknumi (mostrare). Questa sovrapposizione sinestetica tra l’azione della parola e quella della luce sembra funzionale a comprendere il ruolo fondamentale dell’elemento luminoso, e dunque visivo, all’interno della raccolta di Di Dio. La luce, come la parola, fa emergere l’oggetto, lo crea.

Tuttavia, l’oggetto generato dalla luce-parola è tutt’altro che stabile, e la realtà che si delinea in corrispondenza del fascio luminoso è un oggetto caleidoscopico, con tante facce quanti sono i punti di vista, i riflettori da cui la luce può provenire. La parola, dunque, crea e insieme distrugge l’oggetto, lo frammenta, mettendo in dubbio perfino l’esistenza di una presunta unità alla base delle sfaccettature con cui le cose si presentano. Luce è azione disgregante, non unitaria nemmeno nella forma in cui si manifesta in «[…] un grappolo di luci a led» (p. 25). Perfino il buio risulta talvolta multiforme («le pupille sono in alto / nel cielo nero cielo. Vedono là / un’area grande; un nero / moltiplicato» – Corsivo mio.), concetto che sembra trovare un corrispettivo stilistico nella modalità elencativa di alcune descrizioni:

[…]

Poi il sole di marzo
Improvvisamente è sul tavolo. È fra le briciole
I tovagliolini, le posate. Fra le sedie
Sul bancone. Fra le mani, la birra, nel vetro la luce spazia
A cui gli umani credono
A cui gli umani cedono

(p. 30)

La luce sembra espandersi rivelando i diversi oggetti che compongono gradualmente una scena, ma la modalità asindetica li lascia sconnessi, un insieme granulare e proteico di cose che affollano lo sguardo, ma che restano piuttosto irrelate.

La luce-parola, dunque, determina un insieme di punti di messa a fuoco che generano un soggetto continuamente rifratto. Questo soggetto è in primis il protagonista della raccolta, Ardore, la cui fisionomia è da ricomporre proprio grazie a un complesso gioco di punti di vista diversi, documenti, testimonianze sue e sul suo conto. Infatti, la stessa struttura della raccolta delinea una successione di punti di vista e di fonti da cui è possibile ricavare come somma un ritratto, volutamente contraddittorio, dal momento che la somma dei singoli elementi non sembra poter dare veramente come risultato il totale. Se la prima sezione raccoglie le «parole esatte» di Ardore con cui egli si manifesta agli amici dopo la sua morte, la seconda sezione sembra raccogliere il punto di vista antitetico, quello della nemesi, cioè dei carnefici di Ardore. Il terzo libro produce una testimonianza mediata dall’artificio della scrittura, perché esso raccoglie dei documenti, fatti di fonti scritte e iconografiche. Il libro quarto fornisce quello che può considerarsi il presupposto dell’identità di Ardore, ossia il suo concepimento, mentre nel quinto sembra racchiusa una sorta di post-identità, quella acquisita con la resurrezione. Ardore è quindi un soggetto organico e sfaccettato, frutto del conflitto tra i punti di vista che si susseguono, e l’intera raccolta contiene numerose immagini di frantumazione («[…] Lì /dove i limiti s’infrangono. Si spappolano. / Si dividono s’immergono […]») e che sviluppano l’elemento del proteiforme:

[…]

Vedere
Dove qualcosa nasce mischiato
Dove qualcosa appare informe, stagliato
Senza nitore, confuso, organico corpo
Strano, ancora prossimo
All’otturo nulla vano
Lavoro delle materie invisibili. […]

Organico corpo è un sintagma che potrebbe effettivamente funzionare anche come descrizione del protagonista stesso, che si delinea come presenza organica, per l’appunto, una sintesi spesso non pacifica di elementi provenienti da punti di vista contrastanti. Ardore è dunque un incendio in cui ardono tutte le «possibili luminosità di vita umana e disumana» (p. 124), una unità composita e caleidoscopica all’interno della quale si percepisce l’incessante mutamento dell’essere («dentro di lui / tutto il movimento scava.» p. 124), immagine che lo avvicina all’archetipo di Proteo, il cui modello è suggerito anche dall’allusione alla bugonia («le apri scoprono grotte e le aprono / dentro dolcissimi figli»). È unità del molteplice e molteplicità che vivifica l’uno. Del resto, ci aveva avvertito l’autore stesso con parole oracolari nei primi componimenti della raccolta: «[…] non sia mai / l’unità la vostra / più amata menzogna».

Un ulteriore elemento degno di interesse è che l’identità di Ardore si costruisce anche grazie ai supporti digitali, ai quali viene dato ampio spazio nella costruzione dell’immaginario della raccolta: «Le cartellette // con le sue foto con gli indirizzi con le SIM / con i numeri di telefono i tabulati i dati GPS / i vestiti presi dalla lavanderia» (p. 47). Inoltre, la presenza del supporto digitale s’interseca con quello della luce, che è anche luce artificiale, quella che proviene dagli schermi dei computer e dei telefoni, produttori di contenuti granulari: numerosi ma spesso prive di una macro-organizzazione. Tale immagine sembra entrare in sintonia con la difficoltà che accompagna il tentativo di ricostruire un’identità coerente del protagonista. La presenza di documenti digitali, ma anche cartacei come le lettere attribuite da Ardore, e di immagini nella parte centrale della raccolta sembra ricollegarsi alla presenza dell’espediente retorico dell’ekphrasis, che ritrova grande fortuna in poeti dell’immediata contemporaneità (si pensi, a solo titolo esemplificativo, alla presenza massiccia di tale figura retorica in raccolte come La pura superficie di Mazzoni o Trasparenze di Borio). I processi ecfrastici presenti nella raccolta di Di Dio consentono, inoltre, di cogliere un ulteriore elemento di analisi: i supporti digitali e le fonti (scritte e iconografiche) non servono soltanto a ricostruire l’identità del protagonista, fornendo quindi un supporto alla memoria personale, ma sono, soprattutto, uno strumento compensativo per il mantenimento di una memoria collettiva e storica. Di questo procedimento è emblematico il testo intitolato Documento IV, uno dei più belli e intensi di tutta la raccolta, dedicato a Carlo Giuliani, il ragazzo diventato tristemente simbolo dei soprusi da parte delle forze di polizia durante la manifestazione del G8, evento storico a cui recentemente anche Massimo Palma ha dedicato un’interessantissima opera, dal titolo Movimento e stasi (Industria&Letteratura). Il testo ha un’impostazione allocutiva, riprende dunque lo stilema del dialogo con i morti, uno dei modelli antropologici più antichi a cui alcuni studiosi fanno risalire la poesia lirica[2]. L’io lirico si rivolge proprio a Carlo Giuliani, e nei versi centrali viene tematizzato proprio il ricorso al supporto digitale come fonte della memoria: «Te ne vai e mi lasci qui // A battere la testa su questa / Pagina di luce digitale». Il tema della memoria trova la propria entelechia pochi versi più avanti, dove l’autore fa ricorso all’immagine dell’aculeo, mutuata da una delle più importanti figure del panorama poetico del secondo 900, Vittorio Sereni, autore molto caro a Di Dio, che utilizza questa metafora proprio per parlare del ricordo come pungolo costante: «scaccia da me questo spino molesto, / la memoria: / non si sfama mai» (La malattia dell’olmo). Infatti è possibile forse rimuovere l’aculeo, ma non il dolore che esso lascia: «…Mi hai / tolto l’aculeo, non / il suo fuoco […]», scrive ancora Sereni. Di Dio paga il debito al proprio maestro luinese:

Come non credere che gli sconfitti
Non ritornino alla realtà
Come puntelli nella carne viva della vittoria
E ne deformino il corpo
Fino a farlo crescere forse
Immemorabilmente
memore
Dell’aculeo
Tanto più quanto l’aculeo stesso
Di sé non sa
(64)

Il tema della ricostruzione dell’identità, anche tramite documenti e supporti alla memoria, si estende, dunque, dall’identità personale a quella storica e collettiva, di cui Ardore, con le sue infinite possibilità, sembra essere figura: «Tutto si trova esposto / nel medesimo spazio […]». Ardore è le infinite possibilità dell’umano: «è senza fissa dimora. Sembra Orfeo. È un immigrato. È un imprenditore. Un mussulmano. Mangia maiale. È un cristiano, è un ebreo / mandato in croce un maledetto un impiegato […] è un uomo / ed è irraggiungibile».

Questa prospettiva permette di ritornare all’immagine introduttiva con maggiore consapevolezza: quella che ci viene offerta, sembrerebbe quindi un’umanità raccolta intorno alle possibilità della letteratura. In questo senso va considerata anche l’identità caleidoscopica di Ardore, fatta di punti di vista contrastanti, documenti, fatti della storia, ma anche istinti radicati nella sfera antropologica più profonda dell’uomo. E quale scena più archetipica di quella iniziale poteva fornire la chiave di lettura di tutto ciò? L’immagine degli uomini intorno al fuoco sacro della letteratura, come in un rituale, alla presenza della misteriosa donna, officiante della cerimonia e sacerdotessa di Ardore, una figura quasi dantesca (non proietta alcuna ombra). Ella sembra riunire gli uomini presenti sulla scena e chiedere loro di unirsi in preghiera, sembra ricomporre una comunità, secondo leggi antropologiche che sembravano dimenticate. Ritornando all’immagine iniziale con questa consapevolezza costruita nel percorso della raccolta essa ci appare più chiara. L’umanità, la communitas, altro concetto sereniano, degli uomini si riunisce in un contesto rituale per attingere alla sintesi dell’umano e del disumano, entrambe racchiuse nel caleidoscopico potenziale di Ardore. L’umanità sta intorno al fuoco e al linguaggio, i due elementi attorno a cui sembra potersi delineare l’evoluzione dell’uomo, la sua stessa genesi a partire dalla differenziazione dagli animali, e legati reciprocamente, come suggerito nel saggio di Barenghi Cosa possiamo fare con il fuoco?[3]. E dunque, forse, le infinite possibilità dell’uomo e dell’uomo della Storia sono attingibili proprio attraverso la poesia, o per lo meno, sembra essere la «disperanza» di quest’ultima.

*

[1] Silvestri D., “Lo splendore eloquente, la parola luminosa e la (con)fusione dei sensi” in Catricalà M. (a cura di), Sinestesie e Monoestesie, Milano, 2012, p.63

[2] Nencioni G., “Antropologia poetica”, in Id, Tra grammatica e retorica. Da Dante e Pirandello, Torino, 1983 

[3] Barenghi parla del ruolo evolutivo del linguaggio nella specie umana, paragonando il linguaggio a una strategia di adattamento e connettendola proprio all’uso del fuoco per cuocere i cibi. La condizione di maggior benessere dovuta alla scoperta del fuoco permette all’uomo primitivo di dedicare le proprie energie ad attività ulteriori rispetto alla sopravvivenza, come quelle che gli consentono di sviluppare il linguaggio.

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