Il 20 febbraio del 1943 l’Obersturmbannführer Adolf Eichmann, su una precedente sollecitazione di Hitler reiterata in un discorso del 7 febbraio dove chiedeva di “eliminare spietatamente l’ebraismo” dal territorio del Reich e dall’Europa, ordina l’evacuazione verso est degli ebrei impegnati come lavoratori forzati nelle fabbriche di Berlino e dintorni. In tutto 20.400 persone, che erano state risparmiate in quanto utilizzate in aziende del settore della difesa, da sostituirsi con operai polacchi non ebrei. Nel discorso del 18 febbraio allo Sportpalast, Goebbels aveva dichiarato che Berlino, grazie a quest’ultimo ciclo di deportazioni, sarebbe diventata “completamente libera dagli ebrei” entro la fine di marzo. Il piano, operato dalle SS e dalla Gestapo nel quadro della soluzione finale della questione ebraica, prende il nome di “Großaktion Juden”; in questo contesto è arrestata il 27 febbraio del 1943 la scrittrice tedesca di origine ebraica Gertrud Kolmar, dalla fine del 1942 ai lavori forzati in una fabbrica di imballaggi a Berlino-Charlottenburg. Trasferita in un campo di smistamento, partirà il 2 marzo con il 32⁰ trasporto all’est con destinazione Auschwitz-Birkenau. Di lei non si saprà più nulla, neanche la data della morte, inghiottita da quell’indicibile buco nero della storia dell’umanità che quel lager rappresenta. Si presume che circa due terzi dei deportati ebrei nel marzo del 1943 siano stati uccisi col gas e cremati subito dopo il loro arrivo ad Auschwitz.
Gertrud Kolmar, nome de plume di Gertrud Käthe Sara Chodziesner, dove Kolmar è la germanizzazione del polacco Chodziez, città di provenienza della famiglia paterna nella provincia di Poznan, nasce a Berlino nel 1894 da un’agiata famiglia alto-borghese, prima di quattro figli. La sorella Hilde la descrive assai poco interessata alla vita mondana, e dedita alle letture ed allo studio. Nel 1916 consegue un diploma per l’insegnamento del francese, inglese e russo. Tra il 1916 e il 1917 si innamora dell’ufficiale tedesco Karl Jodel, sposato, resta incinta e deve interrompere la gravidanza su pressione della famiglia. Questo episodio così dolorosamente traumatico, considerando anche che a quel tempo l’aborto era illegale in Germania, la porterà a tentare il suicidio e segnerà per sempre la sua vita riverberandosi nella attività letteraria dove i temi della donna senza figli e della maternità sono spesso presenti in filigrana. La vena poetica inizia a svilupparsi in completa solitudine, senza contatti col milieu culturale dell’epoca, quasi di nascosto. In una lettera al poeta e scrittore Jacob Picard, Gertrud si definisce “una persona semplice ed illetterata che non ha sperimentato le lotte artistiche degli altri poeti” ma è comunque saldamente determinata ad impegnarsi per crescere e migliorare le sue capacità. Il padre, forse come atto consolatorio per il forzato aborto, fa pubblicare nel 1917 dall’editore ebreo Egon Fleischel, le sue prime poesie in un libretto dal titolo “Gedichte” (Poesie) che offre a Natale alla figlia. Ma, data anche l’incombente fine della prima guerra mondiale, disastrosa per la Germania, il volumetto non riscuote alcun successo.
Alla fine del 1918, in seguito all’esplosione dell’inflazione nel primo dopoguerra, la famiglia Chodziesner deve affrontare un periodo di difficoltà finanziarie che si risolvono nel 1923 quando il padre è in grado di acquistare una bella villa con giardino a Finkenkrug, un sobborgo di Berlino. Nel 1927 Gertrud frequenta un corso estivo all’Università di Digione e visita varie città della Francia e Parigi. Ma nel 1928 deve rientrare a Berlino per prendersi cura della madre ammalata che viene a mancare nel 1930. Gertrud lavora come segretaria di suo padre, noto avvocato, ma continua la sua attività poetica pubblicando nel 1930 due poesie sull’Insel Almanach. Walter Benjamin, suo cugino e noto scrittore, critico e filosofo, suicidatosi nel 1940 in fuga dalla Francia occupata dai nazisti, le dedica una ammirata attenzione con articoli e recensioni su alcune riviste. Nel 1933, l’anno dell’ascesa di Hitler al potere e dell’apertura del primo konzentrazionlager a Dachau, scrive il ciclo “Das Wort der Stummem” (La parola dei muti), 22 poesie dove condanna la violenza in tutte le sue forme e manifestazioni, consapevole però che non sarà mai stampato. Comincia a prendere coscienza del suo essere ebrea e quindi “diversa”, mentre il padre non realizza la gravità della situazione che sta maturando, asserendo di sentirsi un “tedesco di Berlino” e quindi inattaccabile. Pubblica nel 1934 il suo secondo libro, dopo quello del 1917, dal titolo “Preussische Wappen” (Stemmi prussiani) scritto circa sei anni prima. Anche quest’opera passa pressoché inosservata. A Berlino partecipa a molti avvenimenti culturali anche se poco si sa delle sue frequentazioni. Conosce Hermann Hesse, Ina Seidel, Nelly Sachs, Jacob Picard, ma non si associa ad alcuna corrente letteraria. Rimane una voce isolata, ma attuale per la modernità dei temi trattati, e capace di trasfigurare le situazioni e gli oggetti di ogni giorno in immagini visionarie e mistiche che possono apparentarla alle ricerche sperimentali di altre poetesse ebree contemporanee come Nelly Sachs, ed alle opere di alcuni pittori espressionisti tedeschi come Otto Dix, Max Beckmann e Käthe Kollwitz. A partire dal 1936 la Lega della Cultura Ebraica (Judischer Kulturbund) programma serate in cui vengono recitate alcune sue poesie. Nel settembre del 1938 esce il terzo volume di poesie, “Die Frau und die Tiere” (La donna e gli animali) per i tipi dello Judischer Buchverlag di Berlino, firmato Gertrud Chodziesner in quanto vietato a lei ebrea di usare uno pseudonimo tedesco. Il libro sembra avere un certo successo ma agli inizi di novembre, nel quadro della Kristallnacht e dei provvedimenti correlati, i libri degli autori ebrei vengono condotti al macero. Intanto, con l’aumentare della pressione nazista su tutto il mondo della cultura tedesca, inizia l’esodo di molti scienziati, scrittori ed artisti ebrei. Il fratello di Gertrud emigra in Australia, la sorella Margot a New York e poi in Australia e l’amata sorellina Hilde ripara nel 1938 a Zurigo (morirà a Mendrisio nel 1972) con la figlia Sabine. Con Hilde e la nipotina Sabine, Gertrud inizierà nel 1938 una intensa corrispondenza epistolare proseguita fino a pochi giorni prima dell’arresto, che costituisce l’unico ritratto intimo ed autobiografico che la scrittrice, sempre più solitaria e sempre più “straniera” in patria, ci abbia lasciato. Nella poesia “Die Jüdin” (l’ebrea), pubblicata a Berlino nel 1936 sul Blätter der Jüdischen Buchverein, esprime il desiderio di riallacciarsi alla sue radici ebraiche che aveva trascurato: “Vorrei preparare un viaggio d’esplorazione/ nella mia terra dei primordi”, in quanto, scrive: “Sono straniera/ Perché gli uomini non s’azzardino a toccarmi,/ voglio essere cinta da torri,/che indossino berretti a punta grigi come la pietra/ lassù in mezzo alle nuvole// Voi non trovate la chiave di bronzo/ della cupa scala. S’arrotola verso l’alto,/ così come una vipera nella luce/ ha sollevato la testa piatta coperta di squame” (1). Eppure il suo discorso poetico supera l’angoscia del senso di estraneità, del risentimento e dell’impotenza per la persecuzione degli ebrei tedeschi durante la Shoah, facendo intravedere, malgrado l’orrore, una speranza per l’umanità. Gertrud, seguendo le pressioni dei suoi parenti, potrebbe fuggire dalla Germania nazista, ma quando si convince che l’esodo era l’unica speranza di sopravvivenza, non si sente di abbandonare il padre vecchio e malato. La situazione precipita: a fine novembre del 1939 la famiglia Chodziesner è obbligata a vendere la casa di Finkenkrug ed a trasferirsi in una cosiddetta “casa per ebrei” a Berlino-Schöneberg, in un piccolo appartamento dove in seguito deve accogliere altri inquilini ebrei estromessi dalle proprie abitazioni. Nell’aprile del 1940 Gertrud studia l’ebraico arrivando a scrivere alcune poesie in questa lingua che non sono mai state ritrovate; l’anno dopo è obbligata al lavoro forzato in una fabbrica nel quartiere berlinese di Lichtenberg per essere trasferita poi in un’altra fabbrica a Charlottenburg. Nel 1942 il padre è deportato nel campo di sterminio di Theresienstadt dove muore nel febbraio del 1943. Il 27 febbraio 1943 Gertrud Kolmar viene arrestata nel quadro dell’operazione “Großaktion Juden”, ed il 2 marzo è caricata su un treno piombato, destinazione Auschwitz.
Negli ultimi anni di vita Gertrud aveva consegnato ai parenti, ma soprattutto al cognato, il libraio ariano Peter Wenzel, marito della sorella Hilde ed a Hilde Benjamin, vedova del fratello di Walter Benjamin, Georg, arrestato nel 1933 e morto a Mathausen, gran parte dei suoi scritti. Finita la guerra, grazie all’impegno di questi depositari, è stato possibile ricostruire la maggior parte della sua opera che comprende 445 poesie suddivise in dieci cicli l’ultimo dei quali, “Welten” (mondi), scritto in versi liberi, è datato sul manoscritto 17/08/1937 – 20/12/1937. All’opera poetica si aggiungono un unico romanzo “Eine Jüdische Mutter” (una madre ebrea) del 1930/31, un saggio su Robespierre del 1933, due drammi ed infine un racconto, Susanna, datato 29/12/1939 – 13/02/1940. Wenzel si impegna per pubblicare tutto il materiale, ma nel 1947 riesce a fare stampare solo l’ultimo ciclo di poesie “Welten”. Molto lentamente verranno pubblicati gli altri scritti, ma il nome di Gertrud Kolmar resterà per parecchi decenni praticamente ignorato in Germania e totalmente sconosciuto altrove malgrado Jacob Picard, già nel 1955, nella postfazione al libro “Gertrud Kolmar. Das Lyrische Werk” la definisse la più grande poetessa ebrea tedesca. “Eine Jüdische Mutter” uscirà nel 1965 col titolo “Eine Mutter” ed poi nel 1978 col suo titolo originale ed il racconto “Susanna”, in edizione definitiva, solo nel 1993. In Italia la prima traduzione di poesie e prose della Kolmar si deve al fiuto ed all’impegno di Giuliana Pistoso che, come racconta nei Quaderni di Germanistica del 1999 (2), proponendosi di aggiungere alla collana di scrittura femminile della Essedue edizioni che dirige, un’autrice tedesca, si imbatte nella Kolmar e ne resta ammirata. Nel 1990 esce “Il canto del gallo nero”(3), un’antologia di poesie e di lettere alla sorella Hilde con una esaustiva introduzione della germanista Marina Zancan. Dopo il successo di questa edizione, recensita positivamente su tutti i giornali italiani ed in particolare nel 1990 su Repubblica da Italo Alighiero Chiusano, la Pistoso ha pubblicato altre opere della scrittrice tedesca. In Gran Bretagna un primo libro di “Selected Poems” è uscito a Londra nel 1970, mentre una analoga raccolta è stata pubblicata in America nel 1975.
Un’analisi profonda e dettagliata della scrittura di Getrud Kolmar, è apparsa nel Quaderno di Germanistica del 1999 già citato (2), che contiene undici interventi di critici e studiosi italiani e tedeschi che ne coprono quasi tutta la produzione in versi ed in prosa. Nel saggio introduttivo all’antologia “Il canto del gallo nero” (3), Marina Zancan definisce l’opera di Gertrud Kolmar “un colloquio continuo con l’altro da sé, in una espressione fantastica che, mentre esclude la confessione autobiografica, realizza invece un processo creativo che procede mediante meccanismi di sdoppiamento ed identificazione. In uno spazio interno che non ha confini, e nel tempo eterno della natura e dell’amore, le donne, gli animali, gli elementi della natura o le figure eroiche della storia danno voce ad una realtà umana rigenerata, in cui assumono valore la libertà, l’amore, la dignità, la coscienza di sé, l’assunzione del proprio destino”. Qui accenneremo soltanto a tre sue poesie, la prima, dal titolo “Im Lager” (Nel Lager) scritta nel 1933, tratta dal ciclo “La parola dei muti”, è incredibilmente presaga della situazione disumana dei deportati nei campi di sterminio in cui lei stessa si verrà a trovare nella primavera del 1943 (3):
Quelli che s’aggirano qui sono corpi soltanto,
non hanno più anima,
soltanto nomi nel registro dello scrivano,
carcerati: uomini, ragazzi, donne,
e i loro occhi fissano vuoti
con lo sguardo sbriciolato, distrutto
per ore in una fossa buia,
soffocati, calpestati, picchiati alla cieca.
Il loro gemito tormentoso, il loro pazzo terrore,
una bestia, sulle mani e sui piedi, carponi /…/
Si affaticano come dementi, grigi, devastati,
separati dall’umanità variopinta,
irrigiditi, timbrati e marcati,
come bestiame da macello che aspetta il beccaio
e non conosce che il fetido truogolo e il recinto.
Solo paura, solo orrore nei volti
quando, di notte, uno sparo afferra la vittima…
e nessuno ha veduto l’uomo
che silenzioso in mezzo a loro
trascina la croce nuda verso il supplizio.
Un’altra poesia, del 15 settembre dello stesso anno, “Wir Juden” (Noi Ebrei), si conclude con questa invocazione di amore e di speranza:
Solo la notte è in ascolto: ti amo popolo mio vestito di stracci:
come il figlio di Gea, terra dei pagani, si trascina spossato verso la madre,
tu ora buttati in basso, sii debole, abbraccia il dolore,
un giorno il tuo piede di viandante, stanco, calpesterà il capo dei potenti!
La poesia che segue, di cui si riportano le strofe iniziali e quelle finali, appartiene al ciclo “Ritratto di donna”(3) scritte tra il 1923 ed il 1926, e si intitola “Die Dichterin” (La poetessa). E’ una richiesta quasi sentimentale ma ferma, a rispettare e comprendere quel piccolo cuore, come quello dell’uccellino dei primi versi, che è Gertrud stessa, che si offre con la sua opera all’attenzione del lettore distratto affinché afferri il messaggio profondo che si cela dietro quei fogli di carta inchiostrata:
Mi tieni completamente nelle tue mani.
Come quello di un minuscolo uccello, batte il mio cuore
nel tuo pugno. Tu che leggi, stai attento
perché, vedi, stai sfogliando una creatura.
Ma se per te è fatta solo di cartone,
fogli stampati e colla, allora resta muta,
non ti colpisce col suo grande sguardo
che dai neri occhi guarda cercando;
allora è solo una cosa con il destino di una cosa.
Pure s’era cinta di veli come una sposa,
s’era adornata perché tu la potessi amare
ed, esitante, prega che, per una volta,
tu cacci via la pigra indifferenza /…./
Questo libro è un vestito di ragazza,
può essere bello e rosso o poveramente sbiadito
e sempre soltanto da dita amate
si lascerà gualcire, qualche volta macchiare.
Perciò sono qui a mostrare quello che mi è accaduto;
quello che un forte candeggio ha sbiadito
senza poter del tutto cancellare.
Perciò ti chiamo. Il mio richiamo è leggero e sottile.
Tu senti quello che dice, ma comprendi quello che sente?
Nell’ultima lettera alla sorella Hilde, datata 21 febbraio 1943, sei giorni prima dell’arresto, aveva descritto, quasi presentendo che dopo non ne avrebbe più avuto il tempo, lo stato d’animo che le necessitava per scrivere poesia: “Se mi capita di mettermi alla scrivania, trascinata da un’ispirazione improvvisa, da un impulso creativo, di solito non combino niente: il fuoco si estingue, la fonte si esaurisce e la poesia rimane frammento. Se invece comincio il nuovo lavoro in preda ad una sensazione d’impotenza, di disperazione totale, mi sento come una che si avvia dal basso, dal profondo per arrampicarsi fino alla cima; all’inizio la meta è ancora lontana, gli occhi non riescono a vedere niente, però, proseguendo, il panorama diventa sempre più bello e più vasto” (3).
Articolo a cura di Francesco Cappellani
(1) Gertrud Kolmar “Metamorfosi e altre liriche” a cura di Stefania Stefani. Edizioni Via del Vento, 2008
(2) Giuliana Pistoso “Il mio incontro con Gertrud” in: “Gertrud Kolmar”, Pro Forma – Quaderni di Germanistica. Bulzoni editore, 1999
(3) Gertrud Kolmar “Il canto del gallo nero”. Essedue edizioni 1990