Quanto ci costano gli esordi in poesia

Un intervento di Antonio Merola in relazione al "Progetto Esordi" e in risposto all'articolo di Pietro Polverini, "Per una precaria storiografia degli esordi in poesia (2016-2021)". Precede l'articolo di Merola una nota introduttiva redazionale. Copertina: Carlo Saraceni, "Paesaggio con sepoltura di Icaro".

Ospitiamo, in coerenza con lo spirito dialettico e improntato all’apertura verso l’altro, che ha contraddistinto dalle origini e contraddistingue tuttora MediumPoesia, un contributo che ci è pervenuto e su cui noi della redazione non ci troviamo molto d’accordo, nonostante il riscontro di uno stile di scrittura accattivante e senza dubbio pungente.

Innanzi tutto, ci sentiamo di squalificare le allusioni, a tratti un po’ astiose, che dipingono un “personaggio Polverini” alquanto distante da quello reale, oltre che le questioni sul reperimento dei materiali e su una strumentazione di ricerca pronta e servita, sottolineata «nelle parti giuste, per non perdere tempo a cercare» di cui parla Antonio Merola. Non spetta certamente a noi una difesa dell’operato di Pietro Polverini, dato che non agiamo in quanto gruppo corporativo e poiché non pensiamo ce ne sia alcun bisogno, visti gli interventi a firma Polverini che usciranno nei prossimi mesi e che avranno modo di riprendere varie polemiche suscitate.

Come redazione possiamo dire che Per una precaria storiografia degli esordi in poesia (2016 – 2021) ha voluto favorire, sin dalle sue premesse, l’apertura di uno spazio di dialogo incentrato sulla questione degli esordi, con uno sguardo focalizzato su una generazione che difficilmente trova spazio nei luoghi editoriali privilegiati, in una società italiana che, come sappiamo, si impone gerarchicamente e gerontocraticamente.

L’operazione che abbiamo inteso portare avanti è a nostro avviso utile per suggerire delle possibili tracce per ulteriori scavi da compiere nella precarietà del presente e nell’incertezza del futuro, con la volontà di lasciare anche ai posteri una serie di interventi che rendano testimonianza della nostra generazione. Parliamo volutamente di «posteri», dal momento che lo fa Merola nel suo articolo immaginando un «lettore del futuro» lasciato solo (non si sa perché) a scavare in un auspicato vuoto critico. Merola sembra poi imbastire un binarismo a cui non aderiamo: da una parte il “lettore di poesia” in senso spregiativo, dall’altra il “lettore-poeta” che ama assaporare l’ebbrezza di un verso; da un lato il “mare” e la “vitalità” e, dall’altro, lo studioso meticoloso (e per questo sterile?). Come se chi facesse anche critica non fosse in grado di sentire la poesia. Rassicuriamo anche di frequentare il mare e che riflettere sulla letteratura non esclude né la poesia né tantomeno la vita pulsante.

Premesso ciò, auspichiamo che possano seguire altri contributi di taglio sinottico o monografico, come già specificato. E concludiamo ricordando come solo con vari sguardi, non votati all’autocelebrazione e a una definizione assolutizzante, si possano ammirare le immagini di un mosaico con coerenza di unitaria bellezza.

Diego Ghisleni, Giulio Medaglini, Mario Soldaini

Scrivo poesie al computer e faccio calcoli a mano. Certo posso sbagliarmi. Spesso anzi. Ma anche il calcolo in colonna è un modo per amare la verticalità della pagina – e per affrontarla. Come per alcune poesie, decide tutto l’ultima riga. Il risultato. L’esattezza. Che si ha in matematica e si può avere in poesia. Suppergiù, il calcolo è questo: 585 euro. 

Facciamo un esperimento poetico. Convertiamo il calcolo in una poesia. 
Potremmo scrivere così: 

Ho speso 585 euro 
per leggere

Con il verso «per leggere» che messo lì, in chiusa, nobilita il viscido atto dell’acquisto. Arriva inaspettato. Ora immaginate un lettore forte che si scandalizza. Ma come?! Così tanti soldi per leggere? Fanno quasi quaranta libri. E ce lo dice lui, che legge almeno un libro al mese. È un lettore forte. 

Massì, gli rispondiamo. 
Tutti soldi spesi in letture. 
Diciamo, in media, quindici euro a volume. 
Siccome siamo poeti affiliamo anche un’altra arma: l’enjambement

Ho speso 585 euro 
per leggere
poesia. 

Da matti, dice il lettore forte. Eppure, è quanto ha speso – suppergiù, suppergiù – Pietro Polverini per comprare tutti i libri citati in Per una precaria storiografia degli esordi in poesia (2016 – 2021). O meglio, solo per acquistare gli esordi. Poi ci sono gli strumenti dello studioso – i classici, i saggi. I libri da spulciare quando necessario. È bene possedere anche quelli, diluiti nel tempo. Come una collezione della saggezza. Pronti sulla mensola. Sottolineati nelle parti giuste, per non perdere tempo a cercare. Rileggere è ottimizzare. 

Ecco qua i lettori di poesia. A noi basta rileggere un verso per migliorarci la giornata. 

Dobbiamo però essere giusti. La cifra fa riferimento agli esordi distribuiti in un arco temporale preciso: 2016 – 2021. Quindi ora, su un foglio bianco, possiamo operare una divisione in colonna. Ecco il testo del problema: se Pietro Polverini ha speso 585 euro per compare libri di poesia di autori esordienti tra il 2016 e il 2021, quanto ha speso in un solo anno? Il calcolo sarà per forza di cose approssimativo. Non possiamo infatti sapere esattamente quanti libri Polverini ha comprato ogni anno. Gli esordi non sono sempre uguali. Dipendono da tante cose. La pioggia, il sole. Le urgenze. Il mercato editoriale. La sensazione della fine del mondo. Vanno ad annate. 

Certo, la somma media spesa in un anno è ridimensionata – ma resta una buona somma. Ce ne fossero, di lettori tanto spendaccioni. Così facendo il mercato si bilancia: a leggere poesia siamo rimasti in pochi, ma fagocitiamo. 

Si potrebbe obiettare che lo studioso – qualsiasi studioso – i libri può andarseli a cercare in biblioteca. Che il ricercatore non debba acquistare ciò che cerca. Semmai trovarlo. In questo caso, dal momento che gli esordi citati sfiorano la quarantina, Polverini deve aver fatto molte volte avanti e indietro per visionare tutti quei libri. Su e giù, su e giù. Quanti libri posso portare a casa? Ha detto cinque? Va bene, ne prendo cinque. E così di nuovo. Fino a studiarli tutti. 

A questo punto però è bene compiere un atto di sincerità. A meno che non si abiti a Terzo, è difficile che le cose siano andate davvero così. Come la poesia manca dagli scaffali delle librerie – si dice così, perché lo scaffale dedicato alla poesia in confronto agli scaffali dedicati alla narrativa risulta minuscolo, ma provate a confrontare lo scaffale della poesia con lo scaffale del teatro, lo scaffale dei classici antichi, lo scaffale delle biografie, della storia, della psicologia, della sociologia, della scienza – così la poesia contemporanea spesso manca nelle biblioteche. Questo atto di sincerità non riguarda più solo Polverini, ma riguarda tutti coloro che scrivono intorno alla poesia: la verità è che una buona parte dei libri che leggiamo, li leggiamo gratuitamente. Digitalmente, spesso. Poche volte cartacei. Ma tra segnalazioni, articoli, recensioni e doni, prima o poi siamo sicuri che almeno una parte di quei libri che vogliamo leggere – e anche di quelli che non vorremmo leggere – passerà per la nostra casella e-mail. La casella e-mail redazionale. 

È il minimo. È il minimo che noi che scriviamo gratuitamente nei nostri siti, nei nostri lit-blog, nelle nostre fanzine, nelle nostre riviste non dobbiamo anche metterci a pagare i libri. Giusto? C’è poco da obiettare, ma bisognerebbe porsi allora una domanda: che cosa ci viene chiesto in cambio da chi ci manda il libro? In superficie un giudizio critico. Se immaginiamo il libro di poesia come un mare, il critico sarà il vento che forma le onde. Che sposta il mare da qualche parte. Di solito, in direzione della spiaggia. Se però la spiaggia è stata abbandonata dalle persone per il mare mosso, allora alle nostre onde non resta che infrangersi sul bagnasciuga deserto. 

Si forma un circolo vizioso. Pochi lettori forti di poesia che sono gli stessi pochi che scrivono di poesia. Gratuitamente. O acquirenti o critici. Così la domanda rimane inerte: chi compra libri di poesia? Gli altri. Quelli che i giudizi critici dovrebbero in qualche modo smuovere alla curiosità. Un cerchio include. Un circolo vizioso invece no. Un circolo causa i tornado. Possiamo così dire addio alla presenza umana sulla spiaggia. 

Così ecco che rimasti soli chiusi in un circolo vizioso ci siamo trasformati in una tribù. L’esordio è allora, da un punto di vista antropologico, un «rito di iniziazione» e una «nascita sociale» che introduce il poeta esordiente in un mondo nuovo (Cfr. Francesco Remotti, Fare umanità. I drammi dell’antropo-poiesi, Laterza, 2013, pp. 35-36). O per usare la teoria delle reti: l’esordio si configura come un momento decisivo, perché prima di allora il poeta è ancora fuori dalla rete e deve trovare il modo di entrarci sfruttando un connettore. Una volta accolto nella tribù, si accorgerà di quanto sia difficile lasciarla per incontrare le altre persone del mondo. Siamo dentro l’occhio del ciclone. In trappola. 

La polemica più grande suscitata dall’articolo di Polverini si è aggirata finora intorno agli assenti. Polverini ha citato decine di esordi. Mancano degli altri, Gabriele Galloni, Arianna Vartolo, Mattia Tarantino (l’infante prodigio?), Paolo Pitorri (ah, pardon: è della redazione di Yawp). Attenzione perché alcune sentinelle hanno scoperto un intruso. È il lettore forte – il lettore forte normale – che coraggiosamente ci ha seguito fin qui. Era rimasto nascosto dietro una tenda. Ascoltava. Ha da dire qualcosa. Silenzio, noi della tribù. Facciamolo parlare. Chiede l’intruso: ma come degli altri? Quanti sono? Ha paura. 

Chi è rimasto in classe invece è ancora impegnato a trovare la soluzione del problema: quanto ha speso Polverini in un anno. Un alunno alza la mano. Il maestro gli dà la parola. L’alunno non capisce: che cosa significa esordio? È facile: vuol dire che qualcuno ha pubblicato il suo primo libro. Ora l’alunno sembra preoccupato. Il maestro alza la mano. L’alunno gli dà la parola. Il maestro non capisce: perché hai quella faccia? Sono tanti libri. Dovrà mica studiarli tutti tutti? Ha paura. Come il lettore forte. Come qualsiasi lettore. È a questo punto che il maestro di matematica tira fuori il latino: l’etimologia della parola. Esordire ha anche un altro significato e sono pochi che riescono a significarlo. Bisogna prendere una tela e strapparla per farci spazio. Come il costume di arlecchino. Il libro di un esordiente è un colore nuovo che cambierà l’arcobaleno della tela, senza però distruggerla. Il latino funziona meglio alla fine. 

Il bambino spaventato rischia di trasformarsi in un lettore forte spaventato. Se non credete a me, credete almeno a Daniel Pennac in Come un romanzo. È proprio questo il punto: che cosa smuove un articolo come quello di Polverini? Che cosa smuovono i nostri articoli? Teniamoci forte: la paura, per chi è fuori dalla tribù. Nessuno si avvicinerà mai ai nostri fuochi. Guarderanno da lontano i poeti come fuochi fatui. 

Dopotutto, hanno certamente ragione, 
poiché la nostra vita è per tre quarti spesa; 
sta a noi farci da parte e cedergli la casa
riservandoci il comignolo e il pennone. 
Alla giovinezza, ahimé! piace trionfare. 
Fummo un tempo altrettanto giovani e trionfanti, 
e non più inclini di loro a filosofare. 
Bah, s’abbiano la fame, noi avremo i digiuni. 
Che si tengano Ibsen! Per noi era Hugo. 
Siano tanto e di più, noi restiamo gli stessi, 
non troppo vecchi però, non tali da metterci 
dritti dritti a pensare ai tuffi supremi. 
Lasciamoli crescere. L’arte maturerà
anche per loro, entrati appena nel tempio, 
e la nostra morte compianta approverà
quelli a cui noi abbiamo dato l’esempio. 

È una poesia di Paul Verlaine (in Poesie, a cura di Luciana Frezza, Rizzoli, 1974). Bisognerebbe trasformare il senso dell’elitarismo, se non è possibile eliminarlo. C’è un modo: lasciamolo ai posteri. Lasciamo che siano loro a compiere una loro storiografia. Se un libro ci sembra abbia la grandezza di un dinosauro, sotterriamolo. Lasciamo al lettore del futuro degli indizi. Scava qui, più che lì. Ma non priviamolo della gioia di sporcarsi le mani scavando. E se vorrà scavare lì, più che qui, lasciamolo fare. Magari troverà schegge di meteorite che a noi erano sfuggite. 

E noi? Portiamo nuove persone a guardare il mare. È ciò che fece Verlaine con Rimbaud, che il mare non lo aveva mai visto, quando si misero in viaggio. Questa brutta copia non è una polemica contro Polverini, ma un appello. Prima di tutto ai nostri amanti: portateci a vedere il mare. Poi ai nostri maestri, che magari saranno gli stessi che dovranno decidere se pubblicare o meno i nostri libri di esordio: portateci a vedere il mare. Siate elitari in questo. Mostrate il mare a un piccolo libro d’acqua: se è un poeta capirà da solo se è pronto a sfociare. Se non è ancora pronto, farà in modo di esserlo. Se invece è una marana magari cercherà di raggiungere comunque il mare, ma poi ci si perderà dentro. Ci sarà poco da preoccuparsi. Questi possono rimanere in qualche modo affari della tribù. Ora però il compito difficile: popolare la spiaggia. Rileggere è ottimizzare. A noi basta rileggere un verso per migliorarci la giornata. «Quanto della Sorgente fugge lontano con te – » (in Silenzi, a cura di Barbara Lanati, Feltrinelli, 2004). Oggi ho già riletto tre volte questo verso di Emily Dickinson. E come continua? Indovinate chi ha parlato. 

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