MENTI SOMMERSE 5: SFIORARE, SFIORIRE: LA POLVERE NELL’ACQUA DI MARIO DE SANTIS

Si propone la lettura critica di Massimo Del Prete a "La polvere nell'acqua" (Crocetti, 2012) di Mario de Santis, da una serie di articoli soppressi usciti originariamente su Menti Sommerse. [L'immagine è stata generata dal nostro AI di fiducia, Fractor Ignotus (intelligenza artificiale)].

La notte è un luogo di preparazione, la notte è luogo di attesa, di attesa del nulla persino. È un luogo di conoscenza quando è vissuta senza nessuno, quando i pensieri possono ritorcersi verso sé stessi e approdare a costruzioni nuove. Sembra che sia proprio in una di queste notti, in un tempo scordato tra altri tempi, che i versi di questo libro ci invitano ad avventurarci, con una specie di disillusione e allo stesso tempo con la serena rassegnazione di chi decide di affrontare il diluvio seppur privo di un ombrello.
Nella notte, quando la pioggia appiattisce i suoni in uno e tutte le luci ritornano allo stesso buio, la vita, la coscienza possono tentare una specie di ascensione, chiudersi in sé per arrivare a un’origine: non nell’interno ma su, sempre più su, dove la pioggia ha origine. Il luogo da cui l’acqua proviene, da cui la vita deriva in forma di polvere.

POLVERE/POLVERI

La polvere nell’acqua esce nel 2012 per l’editore Crocetti ed è la seconda raccolta poetica di Mario De Santis, conduttore di programmi radiofonici, curatore di un blog e personalità nota nel panorama poetico contemporaneo.
C’è un potere molto particolare in questi versi: è la visionarietà, la capacità cioè di abbracciare in un unico colpo d’occhio (anche se duraturo e sfaccettato) non solo le possibilità della vita di un uomo ma la vita come concetto astratto, e riportarlo alla sua primitività.
Per riuscirci, De Santis istruisce il suo percorso lirico su due filoni necessari e complementari: la vita dell’uomo nel suo esercizio in mezzo a tutte le altre vite e la vita dell’individuo come astrazione rispetto a un meccanismo da cui la vita in sé proviene.
Parliamo di un libro che ottiene la sua forza dal potere straordinario dell’analogia, dell’accostamento, cioè, tra immagini lontane che vengono sì richiamate ma occultandone il percorso che le unisce. Non si parla di accostamenti improbabili che cercano l’accoppiamento a colpi di forzature, che cercano di giustificare sé stesse giocando sul meraviglioso: qui c’è tutta l’intelligenza dell’immaginazione che traduce in salto a-logico un andamento raziocinante che a noi è precluso.

«[…] Due fiocchi
di viola nel cielo […] due lacrime dallo stesso occhio
che si baciano, due gocce
che non sanno di vivere la stessa pioggia
né di trattenere tanta polvere, che soffierà.»

Questi versi estratti dalla poesia che fa da esergo all’intera raccolta introducono la prima delle due metafore che reggono l’intera struttura del macrotesto. La polvere, che si deposita ovunque, spesso non vista, negli anfratti, negli angoli, dietro i mobili, in strade dimenticate, tra edifici abbandonati. Un’immagine che ricorda la prolificazione, l’idea del resistere, di trattenersi ovunque e di essere inestirpabile pur nella sua natura luttuosa, di tempo sorpassato o di scarto.
La polvere è la vita dell’uomo che sin dal suo originarsi si configura a livello di statuto come un “cancellandum”, come qualcosa che sorge col fine di svanire, che è polvere in potenza prima di divenirlo in atto.
Già in avvio infatti l’io lirico ammette: «è la polvere che vaga | dunque non c’è nient’altro dietro le nostre | vite: se non avessi l’ombra che si disegna sola, quella di un cane a cui somiglio, sarei davvero | anch’io una cosa, abbandonata tra gli agguati […]».
Così è dunque la vita autocosciente, la vita che sa di essere nel tempo, di divenire e dunque di protendere a una fine, la vita che non vorrebbe solo vivere ma piuttosto esistere. Ma è altro ciò che accade, è «il fruscìo che abita per poco | la vita in cui si fugge».
Ben diversa è infatti la vita degli animali, degli insetti che non sentono viversi e che«nella loro lontananza senza tempo | sanno l’essenziale […] noi vivi non partecipiamo al gioco».

RITORNARE ALLE NUVOLE

La seconda metafora è forse la colonna portante della raccolta: è l’acqua, declinata in tutte le sue svariate forme, come pioggia, diluvio, gora, acqua nera, canale. Tutte dense di una carica semantica ulteriore che si esprime nella prima sezione della raccolta «L’acqua non ha centro».
L’acqua è l’espressione più esatta del meccanismo che regge il mondo, una forza “de-mente” da cui tutto deriva («L’acqua | che non ha spessore, che non è diretta, | porta il suo ritmo verso il niente, | diviene danza ossessiva di pianeti»), compresa la vita dell’uomo.
Ciò che intravedo nel racconto dell’io lirico è l’idea di un’acqua come preesistenza, come oceano da cui le vite si sono staccate una ad una in forma di gocce per poi discendere e diventare polvere, lontane dal mezzo in cui erano immerse.E questo staccarsi presuppone l’individuarsi, il disegnare contorni esatti tanto da poter dire di essere una cosa e non un’altra («Siamo lontani con un silenzio a dire il diviso | di noi dai corpi»).
È difficile non pensare quindi alla vita come diminuzione continua, come un progressivo peggioramento di stati, ovvero «una caduta senza fine», come si legge nell’ultima poesia.
Accorgersi di questo, accorgersi che «L’essenza della vita | è un semplice lavoro, il vuoto d’energia che si dimentica | nell’attimo di un’alluvione» prefigura l’abbandono, oppure una lotta, una resistenza muta, la speranza di un rifugio.
A questo proposito ritorna talvolta l’idea della casa come luogo più forte del tempo e del meccanismo che lo genera. «Solo la casa | è onnipotente» si dice, non a caso connotata dal più classico degli attributi divini, o ancora «La casa è indifferente ai temporali | all’acqua che si divide dalle acque». Ma nemmeno la casa è salvezza, è un intervallo tra una fuga e l’altra: per l’uomo che è provvisorio anche il bastione più duraturo si fa temporaneo: «Adesso il tempo che trascorro | in questa casa, rifugio occasionale eppure casa, | non è tempo di pena, ma nemmeno tempo».
L’uomo dunque, una polvere che soffia sulla terra in larghi cumuli e si deposita sulla superficie terrestre dell’Acqua-Storia traendone una forma, la forma del sé per poi esserne inghiottito, nella fine.
Tutta la prima sezione trova però un’altra partitura ritmica in una specie di sogno perenne, espresso con quei segni che sono dei desideri impossibili, di quegli scarti che in un istante farebbero tutta la differenza e renderebbero possibile il miracolo. Visioni che superano la vista ma che traggono origine in luoghi precisi, in tempi esatti e che non sarebbero possibili se non nel contrasto con la realtà: forse per questo (oltre alla necessità di una auto-testimonianza) i testi sono collocati con esattezza nello spazio-tempo, il diario di un viaggio che si avvia sulla terra ma devia altrove.
È qui che la scrittura si complica, si deforma in senso profetico e assume l’oscurità tipica degli oracoli: ogni individuo, in quei brevi istanti, desidera tornare all’Uno da cui proveniva perdere la propria forma, il proprio destino: «Si rompono i flussi d’acqua | si perdono i destini. E che miracolo | ormai bere nel mondo e come poche le domande, | la sete».
Si canta il più puro desiderio di pace, sempre più lontani dall’ignoranza del male e delle sue ragioni, sempre più dal dolore di sapere che «Ogni persona naviga sé stessa, sepolta dalla luce |e si ferma a contemplare la sua ombra d’olio | avvelenato – e in tutti volti incrocio la persona | che non sono stato mai, nella finzione», come l’io fa dire allo spirito di Fernando Pessoa in una poesia scritta o pensata dalle parti di Belém a Lisbona, oppure che «È l’avaria, non l’avventura, | a fare calcolo straordinario nella vita».
Ma questa salvezza, vissuta o voluta in senso onirico, non desidera rifuggire la morte o sottrarsene: l’acqua che gonfia le nuvole, l’acqua per com’è prima di cadere in pioggia, contiene in sé già tutto: è prefigurazione della morte prima della vita e suo prefigurato durante essa. E se si potesse tornare lì, prima della fine, morire sarebbe un’altra cosa, noi saremmo sempre polvere ma essere sommersi non sarebbe svanire quanto piuttosto riunirsi, «raccogliere quest’acqua | perduta nella prigione della mani a cono» e abbandonarsi, accettare che «la festa non cancella la paura, ma il passato».

LA VITA CHE VIVE SÉ STESSA

Ma come si diceva in avvio, anche se questo sogno si rivelasse esatto, c’è la vita che ogni giorno si vive sulla terra e la realtà che ci avvolge impietosa.
La sezione Time out nella sua generale sensazione di fissità racconta della fuga di un io sempre più pellegrino, all’ombra di un’altra Genova («Porta qui a Genova il mio risveglio | direzioni interrotte, impossibile entrare»), in cui trovare un modo per non svanire, per attaccarsi a un pezzetto di realtà e potersi dire. Niente sembra andare in questa direzione se gli unici suoni sono «suoni già lontani che balzano sui muri. | Dicono di me di nuovo il no» oppure «Adesso non c’è più il mio nome | sulla porta di nessuna casa».
Assenti le tracce e forse assente il sé dell’uomo-cenere che cerca qualcosa che non si può trovare perché non esiste («Sono io, mi cerco per trovare | un punto di riposo»). Riposo, sonno, tregua: niente si concede a queste vite balbettanti che conduciamo, qui, in una solitudine che avrebbe potuto essere qualcosa ma si è subito ridotto al nulla: nello splendido testo (uno da due, vero da vero) si legge «Eravamo due e amando abbiamo visto | come si divide dentro noi l’amore stesso».
Eppure sullo sfondo di una Gerusalemme «che brucia, che santa e vuota, nella distanza, | è a tutte le ore una paralisi […] C’è qualcosa di più oscuro […] della vita stessa, | che non si scioglie qui: è la tua collera | che non crede in quello che hai fatto di noi».
Unico rimando diretto all’amore, subito negato e che forse ha condotto l’io all’estrema riduzione in sé, alla perenne tensione nell’esistere se «gli occhi non rispondono del sonno | tutto è fuori posto come questa casa di periferia | dove mi fermo, assente, dove non so dormire».
Non un caso se l’unica poesia della sezione Last Minute, dopo lo sconfortante affresco genovese, ci conduce sui passi precedenti, di nuovo contro l’individuazione, provando a reimmergersi nel tutto che precede il tutto: «Solo un desiderio rimane tra gli occhi | che si fanno più larghi e senza luce: | vivere spaesato in questo occidente d’altri […] e dissolvermi perfetto nella sabbia».

I FIUMI DELLA STORIA

Versi in cui il dettato si alterna tra la scrittura di un cammino privato e difficile da sondare e la voglia di abbracciare tutto in un quadro dalle ambizioni filosofiche. Il lettore (ed io per primo) si trova spaesato tra le numerose vie proposte e nello sceglierne una si esclude forse migliori chiavi di lettura, se ne esistono.
Eppure è proprio nell’ultima sezione che la poesia si sottrae alla sua ritrosia e si restituisce in una lingua che tutti intendiamo per il fatto di esserne protagonisti e burattini: la lingua della Storia.
La vita di un uomo in fuga si accumula disordinatamente con le vite altrui, dolore con dolore, tragedia fra altre tragedie e costruisce il ritratto di esseri pallidi, mai preparati, sempre vergini di fronte alla catastrofe. La storia che De Santis ci propone nel suo epilogo è quella dei disastri della natura sull’uomo (il terremoto in Iran, lo tsunami nell’oceano indiano) e dell’uomo contro l’uomo, come la strage di Bologna.
Messaggeri di questo disfacimento le figure di bambini che subiscono il male prima e più di noi nella loro inconsapevolezza, nella loro resistenza istintiva («Come fantasmi del futuro, ci guidano i bambini […] | verso la loro casa che rimane casa, dopo il crollo») mentre sui luoghi dei disastri restano immobili e non trovano ragioni.
Luoghi perduti che noi pensiamo come foto in cartolina, che noi crediamo immutabili nel tempo e invece vissuti, come tutti soggetti al male («Lì dove sei non c’è la storia, è solo un posto di vacanza | esotico ma senza nome; eppure niente fa più terrore | del futuro che si fa liquidi e buriana –»).
Quando si arriva all’ultima pagina, nonostante tutti i sistemi che ho creduto di individuare, l’unica sensazione è che questo libro non sia una visione della vita ma piuttosto una vita vissuta e raccontata con le uniche parole possibili: disincanto privo di ironia, dolore ma senza disperazione. Tutto ciò che potresti vedere negli occhi di moltissimi, nel sorriso indossato a metà, nello sguardo stanco che fatica a sostenere ancora un po’ di mondo. C’è troppa realtà là fuori per «l’ottica della coscienza», troppe incongruenze per pensare a noi come introdotti su un cammino, per pensare a noi come prodotti naturali e non come scarto dal percorso dell’evoluzione.
Non poter pensare: questo sarebbe riscrivere la Storia, questo sottrarla all’accumulo di catastrofi che piagano il mondo come cicatrici. Ma dalla mente non si può sfuggire e questo, se si può dirlo, è l’unico destino che portiamo inscritto:

«Tutti siamo costretti dentro luoghi senza prove
dell’esistenza, nuda, della morte.
Del resto io non vorrei nemmeno la condanna
che abbiamo imposto a Dio, cercandolo:
il suo esistere per sempre, avere sempre su di noi
aperti gli occhi vigili, vedere tutto, l’irreparabile,
sapere tutto del disastro che da qui va dentro,
nel suo cielo e non poterlo dire
è la sua prigione, senza fine mai.»

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Felicia Buonomo, sette domande con MediumPoesia,

Felicia Buonomo | Le sette domande di MediumPoesia

Con questa pubblicazione inauguriamo il nuovo format elaborato dalla redazione di MediumPoesia: 7 domande a cui i poeti contemporanei risponderanno, con la selezione di alcuni testi inediti, di un libro in uscita o appena pubblicato.

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