Fontana di aga dal me país.
A no è aga pí fres-cia che tal me país.
Fontana di rustic amòur.
Dedica, da Poesie a Casarsa (1941– 1943), in La meglio gioventù
Fontana di aga di un país no me.
A no è aga pí vecia che tal che país.
Fontana di amòur par nissùn.
Dedica, da Poesie a Casarsa, in Seconda forma de «La meglio gioventù» (1975)
Solo il marxismo salva la tradizione. Oh, ma capiscimi bene! Per tradizione intendo la grande tradizione: la storia degli stili. Per amare questa tradizione occorre un grande amore per la vita. La borghesia non ama la vita: la possiede. E ciò implica cinismo, volgarità, mancanza di reale di rispetto per una tradizione intesa come tradizione di privilegio e come blasone. Il marxismo, nel fatto stesso di essere critico e rivoluzionario, implica l’amore per la vita, e, con questo, la visione rigenerante, energica, amorosa della storia dell’uomo, del suo passato. […] Come vedi, parlo di «passato» come storia nei suoi prodotti irripetibili e sublimi: anche i più umili. Se tu questi prodotti li ricordi e li ammiri senza amarli, sei in colpa: verso il futuro.
Da Vie Nuove, n. 47 a. XVII, 22 novembre 1962[1]
Introduzione
La proposta di una poesia giovanile di Pier Paolo Pasolini come traccia all’Esame di Stato per la prova di italiano ha sollevato, nei giorni immediatamente successivi, diverse critiche. La poesia è tratta dalla raccolta Dal diario (1945-1947), pubblicata presso Salvatore Sciascia Editore nel maggio 1954:
Mi ritrovo in questa stanza
col volto di ragazzo, e adolescente,
e ora uomo. Ma intorno a me non muta
il silenzio e il biancore sopra i muri
e l´acque; annotta da millenni
un medesimo mondo. Ma è mutato
il cuore; e dopo poche notti è stinta
tutta quella luce che dal cielo
riarde la campagna, e mille lune
non son bastate a illudermi di un tempo
che veramente fosse mio. Un breve arco
segna in cielo la luna. Volgo il capo
e la vedo discesa, e ferma, come
inesistente nella stanca luce.
E così la rispecchia la campagna
scura e serena. Credo tutto esausto
di quel perfetto inganno: ed ecco pare
farsi nuova la luna, e – all’improvviso –
cantare quieti i grilli il canto antico.

Molti hanno ravvisato in questa poesia una composizione acerba, insignificante dal punto di vista contenutistico, formale e stilistico, ma soprattutto apolitica, portatrice di una visione anestetizzata della realtà. Dunque, per chi la pensa in questo modo, la proposta di questa poesia è stata innanzitutto un’offesa, uno sfregio alla memoria di Pasolini. Ad esempio, la poetessa Maria Grazia Calandrone ha efficacemente riassunto questa posizione con un post pubblicato sulla sua bacheca Facebook, ricordando in Pasolini «lo spietato analista politico e sociale, Pasolini lo scandaloso, il pluriprocessato dai benpensanti, il cattivo ragazzo, l’amante delle crudeli borgate romane». Si è parlato, da più parti, di “arcadica melanconia di ventenne”, di disinnesco del potenziale rivoluzionario della sua opera e di manipolazione politica del lascito intellettuale di Pasolini. Dal dialogo tra visioni contrastanti è scaturito un interessante dibattito. Il tema è profondo e delicato, poiché dalla riflessione sulle varie fasi di un autore complesso e controverso come Pasolini il dibattito si è allargato alla questione se sia lecito o meno considerare validi, importanti, o quantomeno interessanti, i suoi primi tentativi artistici. Ma la domanda ultima di queste riflessioni interroga il senso del fare poesia e la funzione che ad essa, di volta in volta, si attribuisce.
…con il cuoredentro un soave bozzolo di luce[2]…
La mia personale posizione è completamente differente rispetto a quelle appena richiamate. Infatti, credo che esistano possibili interpretazioni di questa poesia – che effettivamente mostra un “Pasolini prima di Pasolini” – in grado di tendere un tranello a chi, faziosamente, vorrebbe leggerci solamente degli elementi elegiaci, reazionari, di destra, in ultima analisi. Ovviamente, senza forzare il testo. Oltre al fatto che l’immagine del cuore che, in quanto «mutato», persegue un tempo interiore diverso da quello esterno mi sembra molto moderna (e mi ricorda una pagina dai diari kafkiani in cui vengono tragicamente confrontati l’orologio interiore e quello esteriore, con tutt’altro lessico e stile), nella poesia scelta viene implicitamente evocato il mondo, appunto, elegiaco di Casarsa, emblema di quella civiltà pre-industriale destinata a sparire per sempre, non a caso accostata all’immagine del «perfetto inganno». Questa immagine poetica è, molto più indirettamente che in altre pagine, indissolubile dal pensiero politico di Pasolini, che più avanti parlerà, a tal proposito, di “mutazione antropologica”. D’altronde, cronologicamente e stilisticamente non siamo molto lontani da L’usignolo della chiesa cattolica (che raccoglie poesie scritte tra il ’43 e il ’49), raccolta fondamentale nella quale la disillusione rispetto ai temi cantati finora porta l’autore a una vera e propria crisi; così come non siamo lontani da La meglio gioventù (1941-1953), raccolta sulla quale, significativamente, ritornerà trent’anni dopo. Infatti, indice di quanto Pasolini stesso giudicasse importante la sua prima produzione poetica (quella a cui appartiene anche la poesia scelta per l’Esame di Stato, insieme alle poesie in friulano) è proprio il fatto che nel 1974 abbia realizzato «un vero e proprio caso letterario», come lo definì nella Presentazione dell’autore: la «ripetizione del libro» composto decenni prima, con la precisazione che «in realtà la ripetizione del libro è solo formale: metrica, prosodica, forse mimetica»[3]. Infatti, «in trent’anni si può veramente diventare un po’ diversi. D’altronde, spesso, oggetto del secondo libro è il primo, in senso proprio ideologico e quasi analitico. La follia ripetitiva, il terrore di non aver detto e non poter mai dire la parola ultima e definitiva, o almeno precisa, sull’unica cosa che mi sta a cuore»[4]. Ciò che separa la prima redazione dalla seconda, determinando una vera e propria frattura, è la presenza pervasiva, nella prima, del «chan plor[5] (spesso sinceramente felice) del narcisismo: cioè […] di un io del tutto rifatto di maniera, e cantato in falsetto, come diceva Franco Fortini. A questo io corrispondono false oggettivazioni in soggetti giovani contadini»[6]. Certamente Pasolini in questa nota vuole rendere esplicita la distanza dalla prima stesura de La meglio gioventù: la stessa operazione di riscrittura è innanzitutto una presa di distanza, un’elaborazione del lutto, forse. Ma la «follia ripetitiva» appena citata si configura, poche righe dopo, come una vera e propria «Ossessione»: se l’autore intende riprendere in mano queste poesie che fanno capo a un periodo della sua vita così lontano è perché «in qualche modo, dunque, continua l’Ossessione»[7]. La differenza è che nella seconda stesura il contenuto consiste in una «realtà oggettiva: una nuova pratica di irrisione della Storia (che esercitavo, ignaro, nei lontani anni dell’apprendistato), e, nel tempo stesso, contraddittoriamente, i problemi della Storia ufficiale attuale: privilegiando la fine del mondo contadino e il conseguente infrangersi […] dell’Uovo orfico. L’eterno ritorno è finito: l’umanità è partita per la tangente.»[8]. Il mito di Casarsa, nutrito da una vena simbolista-decadente da un lato, romantico-popolare dall’altra[9], si è spezzato, e, con lui, tutta la sua valenza simbolica ed emotiva. Tanto più forte, allora, sarà lo stridore tra la facies antica e soave del friulano e la scomparsa di quel mondo cantato trent’anni prima.
Dunque, il primo motivo di interesse (culturale, critico e didattico) della stagione giovanile pasoliniana è di ordine squisitamente letterario: ci troviamo davanti al poeta nel momento in cui prende in mano gli strumenti del mestiere per le prime volte. Inoltre, il lettore viene introdotto a quel mondo, popolato di figure ricorrenti, intriso di malinconia e struggente dolcezza, la cui perdita irreparabile segnerà l’inizio di una nuova era antropologica. Mondo che, beninteso, è restituito sotto forma artistica dopo essere stato filtrato dalla sensibilità umana e dall’immaginazione poetica di Pasolini mediante un’operazione che non esiterei a definire mitopoietica. Per quanto riguarda lo stile in cui questa prima mitopoiesi si concretizza, credo possa essere utile e interessante leggere alcune righe di Nico Naldini, cugino di Pasolini per parte di madre, in cui emergono pregi e limiti delle prime esperienze poetiche pasoliniane:
Nel crepuscolarismo – che è “incertezza, nebbia, torbida sfumatura” – l’io del poeta si chiude nell’ambiente e vi si umilia teneramente. Il contrario avviene nelle sue poesie, dove l’io è certo e la lingua poetica è distaccata dall’ambiente. I contenuti sono umili – la piccola vita di Casarsa, il mondo naturale dei contadini – ma il loro linguaggio non è mai dimesso, semmai pecca di ridondanza e di ricercata aulicità. […] Pur non potendo sradicare queste poesie del loro tempo, che è quello simbolistico della poesia pura, la loro originalità sta nell’affermare poeticamente quella realtà – di cose, di persone, di ore del giorno e della notte, di immagini trapassate che rivivono e di immagini che vivono per perdersi nello strazio della fine, tutte legate a un mondo reale, lontano e isolato nel grande mondo, ma vivo nella sua peculiarità – che affiora in questi versi con l’indicibile piacere di nominare scrivendo per la prima volta gli elementi della vita umana e naturale.[10]
Al piacere cui si riferisce Naldini si accompagna altresì lo sforzo espressivo di una ricerca verbale e stilistica il cui fine è la comprensione di sé e del mondo circostante. Usando parole dello stesso Pasolini, si delinea «un’esperienza estetica, che rappresenta una continua, estrema salvezza dal nulla»[11].
L’ambiguità del processo di costruzione di una coscienza poetica risulta centrale in questo passo in cui Pasolini s’interroga sulla possibilità di una compenetrazione tra il paesaggio e i suoi abitanti, tra la realtà umile delle campagne friulane e i poveri contadini:
Ma come esprimere l’inesprimibile? Esistono forse parole per comunicare un rapporto […] fra i colori dei muri affumicati e la radice dei capelli di un ragazzo di Runcis? Eppure questo rapporto esiste, è Amore. E, ad ogni modo, non ho detto che esisteva in me una gioia? Che c’era un pensiero nudo, spietato dietro le mie parole giocate?[12]
Dietro l’apparente levità di queste poesie, dietro le loro figure umane, poetiche e mitiche, si celano nudità e spietatezza certamente diverse da quelle cui ci abituerà il Pasolini maturo, con i suoi strali, la sua lucida preveggenza, ma cariche al tempo stesso di un’amarezza e di un joi di rara intensità. Forse, potrebbe valere per la raccolta Dal diario, come per le altre coeve, ciò che Pasolini stesso aveva scritto recensendo la raccolta di prose Un po’ di febbre di Sandro Penna: «la gioia vi è così grande da essere dolorosa. Un dolore sconfinato vi è a malapena contenuto come presentimento di perdere quella gioia»[13].
Ma non è finita qui: nel caso di Pasolini, l’orizzonte poetico è presupposto di quello politico, risultando evidente «la continuità tra la sua esperienza poetica e il suo impegno politico»[14]. Infatti, risale agli stessi anni in cui lavorava a queste prime poesie la vocazione politica e sociale che agirà in lui con la forza di una rivelazione. Rivelazione nata soggettivamente all’interno delle strutture della poesia, “all’ombra” della lingua materna per eccellenza, il friulano, e trasferita poi sul piano oggettivo delle condizioni sociali dei braccianti e contadini. Leggiamo questa testimonianza in cui il poeta torna con la mente al 1948, anno dell’iscrizione al Partito comunista e della definitiva adesione al marxismo, mentre a Casarsa si verificano diversi scontri tra braccianti friulani e proprietari terrieri:
Fu lì che diventai un marxista, in modo alquanto insolito. Come le ho detto, feci la scoperta oggettiva dei contadini friulani attraverso l’uso assolutamente soggettivo del loro dialetto. Nell’immediato dopoguerra i braccianti erano impegnati in una massiccia lotta contro i grandi proprietari terrieri del Friuli. Per la prima volta in vita mia, mi trovai, fisicamente, del tutto impreparato, e questo perché il mio antifascismo era puramente estetico e culturale, non politico. Per la prima volta mi trovai di fronte alla lotta di classe, e non ebbi esitazioni: mi schierai subito con i braccianti. I braccianti portavano sciarpe rosse al collo, e da quel momento abbracciai il comunismo, così, emotivamente. Poi lessi Marx e alcuni pensatori marxisti. Per questa ragione il Friuli ha avuto molta importanza per me[15].
Il nesso tra le prime prove poetiche e la scoperta del marxismo viene esplicitato in questi altri due passi, assai rilevanti per il nostro discorso:
Per me restare dalla parte dei braccianti significava restare nella scia della poesia di adolescente. La lotta dei braccianti è diventata il punto cruciale della mia storia, perché è lì che io ho intuito e subodorato prima, scoperto e studiato poi il marxismo.[16]
In quel periodo, in cui tornavo alle fonti di una lingua primitiva, per opposizione a quanto allora rifiutavo, i contadini del Friuli conducevano un’aspra lotta contro i grandi proprietari della regione. Lì ho fatto una prima esperienza della lotta di classe. La lotta dei lavoratori agricoli destava in me tutta una nostalgia della giustizia, al tempo stesso in cui soddisfaceva la mia inclinazione alla poesia. Quindi l’idea di comunismo è venuta naturalmente associandosi, fondendosi a quella delle lotte contadine, alle realtà della terra. Può darsi che persino la mia adesione al Pci sia stata sentimentalmente determinata da quell’esperienza.[17]
Le testimonianze riportate sopra provenivano da conversazioni, riflessioni successive. Vorrei ora accostarvi un passo tratto dal poemetto Poeta delle ceneri, della metà degli anni Sessanta, in cui troviamo espressa poeticamente la permanenza dell’Ossessione del passato casarsese:
Devo aggiungere, ancora, per finire questa storia –
molto irregolare nell’insieme del mio poema –
che quei miei versi friulani sono i miei più belli
(insieme a quelli scritti fino a ventitré, ventiquattro anni,
pubblicati più tardi col titolo «La meglio gioventù»,
e insieme anche ai coevi versi italiani,
nati da quella profonda elegia friulana
di autolesionista, esibizionista e masturbatore,
tra i gelsi e le vigne viste con l’occhio più puro del mondo;
si chiamano, quei versi, «L’Usignolo della Chiesa Cattolica»,
e il loro falsetto è ancora una musica atroce
e sottile che, da laggiù, mi affascina e mi attira indietro.
Elegiaco, ma anche «musica atroce e sottile»! Forse, le poesie giovanili di Pasolini, o almeno buona parte di esse, non sono così pascoliane come potrebbe sembrare, se è l’autore stesso a definirle con parole tanto forti, nel momento in cui torna ad essa con la mente, molti anni dopo. Certo, negli anni Sessanta Pasolini ha piena coscienza che quello di Casarsa è un mondo perduto per sempre, ma in fondo non lo ha mai rinnegato del tutto: «da laggiù, mi affascina e mi attira indietro», provocandogli una inquietudine che, come il canto delle sirene udito da Odisseo, ammalia e distrugge.
Dunque, Pasolini istituisce una fondamentale corrispondenza tra la sua inclinazione alla poesia e gli eventi interni alla lingua che ne conseguono, da un lato, e la realtà sociale da cui era circondato, dall’altro. Alla luce di questi dati, mi chiedo come si possano sottovalutare gli esordi letterari in cui hanno preso forma e vita quelle immagini poetiche che hanno dato avvio alla vocazione politica pasoliniana e che nutriranno, negli anni successivi, la sua vena polemica; come si possano trascurare gli anni in cui Pasolini scopre, nei corpi dei braccianti friulani, che amava e cantava elegiacamente, la propria tensione verso gli ultimi, premessa all’adesione al marxismo. A quegli anni appartengono anche versi come quelli della poesia scelta dal Ministero. Non basterebbe ciò a rendere estremamente interessante e significativo questo capitolo della vita di Pasolini? Nell’approccio critico a qualsiasi testo l’analisi del contesto è fondamentale, ma pretendere la conoscenza di questi dati in degli studenti dell’ultimo anno di liceo è, forse, purtroppo, utopico, dal momento che, molte volte, Pasolini a lezione viene a malapena citato. A stupirmi sono state le reazioni degli addetti al mestiere, dai quali, sì, ci si aspetterebbe un approccio critico e l’analisi del contesto di un testo, non la sua liquidazione determinata da ragioni ideologiche. In molti si sono vantati di aver tralasciato, non dico lo studio, ma anche solo la lettura della produzione poetica giovanile di Pasolini, ad esempio saltando a piè pari la sezione corrispondente nel “Meridiano” con tutte le poesie. Il che non credo faccia onore a chi ha voluto vantarsi della propria, più che legittima, ignoranza. Ma il nodo della questione, a mio vedere, sta proprio qui. La vocazione politica di Pasolini affonda le radici nella sua poetica degli anni ’40-‘50 che è stata minimizzata, denigrata, persino ridicolizzata dagli stessi che osannano il Pasolini eretico e corsaro, mostrando, così, di aver dato voce ad una lettura miope ed esclusivamente ideologica della poesia scelta, con l’esito di appiattire un intellettuale e poeta quantomai πολύτροπος ad un’unica dimensione, quella dell’eterno poeta scomodo e anticonformista, di bruciante attualità, intento a muovere critiche feroci alla società dei consumi, ai suoi dogmatismi, alla sua permissività totalitaristica. Il Pasolini di Casarsa, a mio avviso, è comunque anticonformista e scomodo, seppur in maniera diversa. La grazia, la dolcezza, l’incanto sono elementi eretici anch’essi, nella misura in cui disegnano (o disegneranno) il profilo di un’assenza e si configurano come traccia di una perdita. Inoltre, credo che il Pasolini ventenne getti un’ombra su quello futuro, non per edulcorarlo, ma per restituircene una visione senz’altro più sfuggente, talvolta contraddittoria, ma tridimensionale, approfondita e contestualizzata. La produzione dei decenni successivi risulterà essere ancora più radicale, conoscendo la misura e la portata, al tempo stesso, degli elementi di continuità e dello scarto tra momenti tanto diversi della sua carriera artistica e intellettuale.
Il presupposto delle critiche mosse alla scelta del Ministero dell’Istruzione mi sembra sia la convinzione che la poesia – segnatamente, quella di Pasolini – possa essere riconducibile ad un’unica dimensione. Senza dubbio, è quello eretico e corsaro l’aspetto più decisivo, quello che ha consegnato la memoria di Pasolini al futuro, agli studiosi, agli appassionati, ai conoscitori, ma anche ad una certa vulgata che, a mio parere, non rende giustizia alla complessità e alla stratificazione del suo pensiero, poiché tende, talvolta, a servirsi di facili slogan. Siamo abituati a vedere Pasolini esporsi nella maniera più incondizionata in ogni campo: poesia, letteratura, teatro, cinema, critica. Invece la poesia scelta ci propone un Pasolini ventenne che si ritrae e si fa piccolo davanti alla bellezza che lo sovrasta e lo ferisce. E questo infastidisce molti. Ma, mi chiedo io, sarebbe piaciuto a Pasolini sentirsi definire, come è stato fatto, “poeta tonto nella sua cameretta?” Il passo citato da Poeta delle ceneri, dal mio punto di vista lascia pochi dubbi. Potremmo notare, oltre alla grazia, quanto questi versi siano gravidi di futuro, invece di alimentare il livore; potremmo pensare, sorridendo, che nella camera di un ragazzo, di un ragazzo poeta, succedono strane alchimie: queste sono, per me, le risposte più fertili e in grado di “sabotare” una scelta che, ad una lettura superficiale e decontestualizzata, potrebbe sembrare molto comoda per la destra al potere. Chi, a destra, ha scelto questa poesia per la sua apparente innocuità evidentemente non conosce il fermento, anche politico, che iniziava a lacerare l’animo di Pasolini. Potremmo, almeno a sinistra, approfondire il contesto in cui è nata la poesia tratta da Dal diario, per collocare nel giusto spazio un’intera stagione creativa, per evidenziarne le giuste coordinate culturali, estetiche e politiche, invece di limitarci a gridare al complotto? Altrimenti, staremo assecondando il gioco della destra, che altro non è, in ultima analisi, se non il gioco dell’ignoranza, dell’assenza di disponibilità all’approfondimento, della chiusura. Tutti elementi che non potranno che dare una lettura decontestualizzata, acritica, ideologica e dunque distorta del testo. A tal proposito, lascerei la voce a Pasolini stesso, nelle vesti di didatta:
A noi sembra che almeno nelle medie inferiori (ma anche, così come stanno le cose, nei Licei) lo studio della poesia non viva che ai margini della cultura, documento ante litteram, strumento senza applicazione, testimonianza che non trova riscontro nei fatti, se fornito senza i suoi presupposti estetici, senza le sue impostazioni filologiche e prospettato molto vagamente nello spazio storico e ambientale. […] L’eco di un’umanità volta a interessi non pratici deve essere suggerita agli scolari proprio attraverso una interpretazione formale, cioè girando davanti i loro occhi, quasi con un rudimentale rallentatore, l’operazione poetica, che è sempre una metafora, un passaggio da un ordine sentimentale a un ordine verbale. […] Si vuol dare intanto allo studio della poesia un carattere critico, almeno in nuce.[18]
Lo scandalo della luna
Che fai tu, luna, in ciel? dimmi, che fai,
silenziosa luna?
La luna evocata al v. 12 ha fatto infuriare molti, suscitando scalpore. A tanto può portare lo scandalo insito in un’immagine tacciabile di intimismo, sentimentalismo, financo ottusità. Si è dato del “tonto” a Pasolini, per questo motivo, come accennavo sopra. Sarebbe stato, forse, un “Leopardi fuori tempo massimo”, come pure è stato scritto, se questo suo scrutare la luna fosse stato un gesto naïf, immediato. Invece, Pasolini aveva piena consapevolezza critica dello iato temporale tra sé e la greca Selene, o tra sé e Leopardi, come si evince dal breve scritto Da Udine a Casarsa:
Fu proprio per caso che mi voltai verso il finestrino, nel cui angolo a destra, intravidi una ben diversa compagna di viaggio: la luna. […] La luna nel disegno dei miei sentimenti sta entrando nel suo terzo stadio: il primo stadio fu quello decisamente pagano (che corrispose, o impenetrabile mistero dell’età, al periodo della mia vita più religioso: i quattordici anni). Allora la luna non era altro che Selene, e i suoi fatti erano quelli che riguardavano Endimione o Atteone: nel cielo assumeva pose statuarie, da manualetto di mitologia. L’umore che essa mi inoculava era rigido e insano, troppo caricato di seduzioni. Il secondo stadio fu leopardiano (occorre aggiungere altro?). Questo, il terzo, non ha ancora la sua definizione: ma posso senz’altro dichiararlo il più allegro di tutti. […] (In genere quando vedo la mia vecchia Selene o zitella recanatese, non mi riesce di risparmiarle uno sguardo un poco ironico. La godo ormai senza più bisogno del suo aiuto: è una gioia che io mi procuro gratuitamente, tanto più che galleggia su un humus tra esiodeo e romantico, con seduzioni di marmo neoclassico, rinnovando e lucidando alcuni periodi ben sistemati, quasi privi di temps perdu, della mia esistenza.)[19]
L’immagine della luna ricorre, infatti, in molti luoghi della prima produzione pasoliniana. Molti sono raccolti nel bellissimo libro Un paese di temporali e primule, curato dal cugino Nico Naldini, già citato più volte.

Con la luna si apre anche un altro breve scritto, dal titolo alquanto significativo: Topografia sentimentale del Friuli:
La luna non mi era mai parsa così raggiante come nel centro di quell’enorme zona di cielo e di pianura. […] Questo gareggiare tranquillo tra il chiarore interno della luna e quello disperso, irrequieto dei lumi, riempiva la notte di non so che drammatico e silenzioso affanno.[20]
Anche Nico Naldini, rievocando l’estate casarsese del 1941 trascorsa come di consueto nella casa della famiglia della madre, sembra ricordarsi dell’importanza che il fantasticare sulla luna ha rivestito in quegli anni per il poeta:
Esposto per due lati al mondo campestre, da questo poggiolo di legno si può assistere all’intera carriera del sole e della luna, oppure, allungando il collo, arrivare con la vista fino ai piedi del Monte Cavallo, risalire sulle creste che si saldano in una linea continua fino ai monti della Carnia, tingendosi di vari colori, dal blu intenso al rosa più diafano, a seconda delle ore e delle stagioni.[21]
La luna è dunque elemento centrale del mito, esclusivamente poetico prima, politicamente connotato poi, del mondo e della società pre-industriale. La luna scandisce i tempi del raccolto e i suoi raggi illuminano quella topografia sentimentale che, prima di spostarsi dalle campagne friulane ai sobborghi romani, ha lasciato in Pasolini un segno profondo e duraturo.
Anche l’ultimo passo che vorrei richiamare si trova in Da Udine a Casarsa:
Ecco che d’improvviso vidi la luna rapportarsi con l’orecchino della donna addormentata di fronte a me. Che scena! La donna era calmissima, dormiva senza il minimo disgusto: la palpebra abbassata, ecco il suo sonno. […] Teneva il capo contro il legno del sedile, leggermente inclinato, e tra il mattone cotto della pelle e il carbone dei capelli, pendeva un orecchino come la punta del sandalo di un microscopico ballerino d’argento. La luna lo aveva adocchiato e lo appostava, dal quadrato nero del finestrino, appena memore dei milioni di miglia… […] E proprio lei, quella povera massaia, la luna aveva scelto: e l’aveva scelta perché era la più indifesa, la più inerme, la più bambina.[22]
Tra i diversi motivi che Pasolini eredita o costruisce intorno alla luna, vi è anche questo del suo prediligere gli umili, i miti: la luna sceglie una donna su cui convergono, tra l’altro, alcuni tratti della madre Susanna Colussi. Anche da quest’ultimo passo, dunque, emerge il forte legame tra immaginazione poetica e tensione sociale verso gli ultimi. All’origine di entrambe c’è l’affetto di cui Pasolini investe i protagonisti di questo piccolo mondo rurale, la ciclicità delle loro gioie e dei loro dolori, che è un tutt’uno con la ciclicità della natura e delle stagioni. Ma questo investimento affettivo non è esente da fratture e disillusioni, che non tarderanno molto a venire. Nel primo passo citato Pasolini riflette sui tre stadi in cui si era finora articolato il suo rapporto con questa sua interlocutrice privilegiata. Di lì a pochi anni, precisamente tra il 1950 e il 1951, raggiungerà un quarto stadio, probabilmente l’ultimo, quello dell’assoluto disincanto:
La luna vòlta agli anni in cui da un cuore
nuovo traeva più bagliori che dai vetri,
nella violenza del silenzio, quasi
silente pel dolore di vedermi
arreso, guadagna con cieca lentezza
le vecchie strade. E, ancora, qualche vetro
quaggiù ne brucia, e qualche pista
fregata dal vento, di terra nuda.
Ma è nel cielo che si ammassa, come
– perché io son stanco – fosse stanca
e delusa tutta la terra, la gran luce;
E solo il cosmo n’è investito, non più
queste nostre contrade; se un riverbero
un misero riflesso ancora ha vita
e per significare che la luna
è vòlta verso dove non c’è vita.[23]
La luna non rischiara più le creature umane, rimane “arroccata” nel cielo, la simbiosi tra ritmo umano («queste nostre contrade») e ciclo naturale (il «cosmo») è spezzata, e con lei la sua mitologia intessuta di simboli e care memorie.
Con questa breve rassegna, intendevo dimostrare che la presenza della luna nella prime poesie e nelle prime prose pasoliniane non è un mero topos letterario, un’immagine sentimentale da scialbo poeta di provincia, o da Leopardi andato a male; bensì, un’immagine che ha una sua microstoria, interna a questa produzione, con un suo sviluppo e una sua significativa fine, in corrispondenza con il crollo delle prime illusioni del giovane intellettuale. E in quanto tale, credo vada rispettata.
Conclusione
Spinto da questo dibattito, ho avuto occasione di rileggere o scoprire alcune pagine del primo Pasolini. Chi lo farà con curiosità e senza pregiudizi vi troverà, oltre ai grandi temi della maturità colti nel loro sbocciare, una sorgente di grande bellezza: se i maturandi del 2025 non torneranno ai versi pasoliniani, non sarà certo perché disgustati dalla poesia proposta, come pure è stato scritto. Si tratta di poesie o brevi prose che spesso ci ricordano qualcosa che abbiamo definitivamente dimenticato, se non addirittura rimosso: la sacralità della vita, della povertà e della mitezza. Tema caro a Pasolini, se in un celebre articolo del 1975, problematizzando il tema dell’aborto, arrivava a riflettere sulla vita e sulla nuova ideologia del consumo, costitutivamente «irreligiosa e antisentimentale», in questi termini:
Dire che la vita non è sacra, e che il sentimento è stupido, è fare un immenso favore ai produttori. E del resto è ciò che si dice far piovere sul bagnato. I nuovi italiani non sanno che farsene della sacralità, sono tutti, pragmaticamente, se non ancora nella coscienza, modernissimi; e quanto a sentimento, tendono rapidamente a liberarsene.[24]
L’impostazione di molta produzione giovanile è certamente mitica, intrisa di cristianesimo contadino, (dunque fondamentalmente pagano), ma non per questo monocorde o totalmente idealizzata. Anzi, abbiamo visto come l’attenzione alle effettive condizioni dei braccianti friulani, prima esperienza che il giovane Pasolini fece della lotta di classe, abbia preso le mosse proprio dalla soggettivazione dell’atto poetico.
Non prestando a questa produzione la giusta attenzione, tralasceremmo, inoltre, un fertile periodo di ricerca espressiva e di sperimentalismo in grado di coinvolgere tutte le arti: poesia, musica e pittura. Ad esempio, al 19441945 risale la stesura di Studi sullo stile di Bach[25], uno scritto interessantissimo in cui emerge un tema che tanto peso avrà nella riflessione successiva, cioè il contrasto tra «carne» e «cielo», tra «sensualità» e «preghiera», tra «dolcezza carnale del canto amoroso» e «acerbo canto liturgico», tra «ricadute» e «liberazioni». Presenze che portano Pasolini a scorgere nella Siciliana della Sonata in sol minore per violino solo BWV 1001 di Johann Sebastian Bach «una contraddizione umanissima». Pensiamo a quanto peso avrà la musica di Bach nella sua produzione cinematografica: a titolo di esempio, la Passione secondo Matteo ne Il Vangelo secondo Matteo e in Accattone, e i primi due Concerti Brandeburghesi sempre in Accattone. Il che si ricollega al tema della sacralità della vita precedentemente evocato: la presenza del coro finale della Passione secondo Matteo di Bach durante la rissa nella borgata eleva Accattone alla dignità di Cristo.
Penso che una delle cause per cui molti hanno opposto resistenza alla poesia scelta per l’Esame di Stato sia la riluttanza ad accettare la tremenda innocenza di Pasolini, la castità della sua veemenza, la sua tagliente, irriducibile dolcezza. A volte ci farebbe bene ricordare cosa leggesse Pasolini negli occhi ridenti di Ninetto, o nell’umile selciato della stradina che sale verso la porta di San Cesareo di Orte. Ma per comprendere sino in fondo, per compiere questo atto d’amore verso la sua opera, bisognerebbe, credo, essere disponibili ad accettare le ambiguità e i chiaroscuri di Pasolini – come di qualsiasi altro autore – e non fargli dire quello che ci piacerebbe che dicesse. Altrimenti, così facendo prevale l’ego di chi vuole solamente ricevere conferme. Il rischio è di tornare a una nuova distinzione tra “poesia” e “non poesia”, di imporre alla poesia un “dover essere”, di appiattirla su un’unica dimensione. La poesia è invece emblema della pluralità, dal momento che la realtà può essere detta in tanti modi e non deve essere oggetto di una reductio ad unum, se si vuole che a parlare non sia l’ideologia del lettore, ma il testo.
Il testo è tutto il nostro bene; nessuna nostra escogitazione per quanto brillante o suggestiva può valere e significare di più del testo nella sua maestà. Questa maestà coincide con la verità, che è nostro dovere perseguire con impegno, nel testo e ovunque. Potrebbe essere questo il primo comandamento in una specie di giuramento di Ippocrate dei critici letterari. [26]
Bibliografia e sitografia
G. DISTEFANO, C. GEMEI, G. PISA, Cercando Pasolini…Trent’anni dopo, Napoli, La città del sole, 2006.
P. P. PASOLINI, La nuova gioventù. Poesie friulane 1941-1974, Milano, Garzanti, 2016.
P. P. PASOLINI, Le belle bandiere, Roma, Editori Riuniti, 1977.
P. P. PASOLINI, Le poesie, Milano, Garzanti, 1975.
P. P. PASOLINI, Saggi sulla letteratura e sull’arte, a cura di W. Siti e di S. De Laude, Mondadori, Milano 1999, 2 voll.
P. P. PASOLINI, Saggi sulla politica e sulla società, a cura di W. Siti e S. De Laude, Milano, Mondadori, 1999.
P. P. PASOLINI, Scritti corsari, Milano, Garzanti, 2019.
P. P. PASOLINI, Tutte le poesie, a cura di G. Chiarcossi e W. Siti, Milano, Garzanti, 1996, vol. 4, Poesie inedite.
P. P. PASOLINI, Un paese di temporali e di primule, a cura di N. Naldini, Parma, Teadue, 1995.
C. SEGRE, Ritorno alla critica, Torino, Einaudi, 2001.
https://www.italianisti.it/pubblicazioni/atti-di-congresso/natura-societa-letteratura
https://www.pasolinifriuli.it/opera/dal-diario-1945-1947
Note
[1]P. P. PASOLINI, Le belle bandiere, Roma, Editori Riuniti, 1977, pp. 207-208.
[2]Traggo questa espressione da A Casarsa nasceva, un giorno, il sole, poesia introduttiva alla raccolta Via degli amori, 1946, ora in Tutte le poesie di P. P. Pasolini, a cura di G. Chiarcossi e W. Siti, Milano, Garzanti, 1996, vol. 4, Poesie inedite.
[3]P. P. PASOLINI, La nuova gioventù. Poesie friulane 1941-1974, Milano, Garzanti, 2016, p. 283.
[4]Ibid.
[5]Locuzione provenzale con cui s’intende il lamento.
[6]P. P. PASOLINI, La nuova gioventù, cit., p. 283.
[7]Ibid.
[8]P. P. PASOLINI, La nuova gioventù, cit., pp. 283-284.
[9]Vedi A. VIOLA, Un topos militante: mondo contadino friulano e impegno politico nell’attività poetico-letteraria del primo Pasolini (1942-1950), in Natura Società Letteratura, Atti del XXII Congresso dell’ADI – Associazione degli Italianisti (Bologna, 13-15 settembre 2018), a cura di A. Campana e F. Giunta, Roma, Adi editore, 2020.
[10]P. P. PASOLINI, Un paese di temporali e di primule, a cura di N. Naldini, Parma, Teadue, 1995, p. 30, p. 34.
[11]Lettera citata in P. P. PASOLINI, Un paese di temporali e di primule, cit., p. 86.
[12]P. P. PASOLINI, Gli angeli distratti, in «Libertà», 19 aprile 1947, ora in P. P. PASOLINI, Un paese di temporali e di primule, cit., p. 125.
[13]P. P. PASOLINI, Sandro Penna: «Un po’ di febbre», «Tempo», 10 giugno 1973, ora in P. P. PASOLINI, Scritti corsari, Milano, Garzanti, 2019, p. 146.
[14]A. VIOLA, Un topos militante: mondo contadino friulano e impegno politico nell’attività poetico-letteraria del primo Pasolini (1942-1950), cit., p. 1.
[15]P.P. PASOLINI, Pasolini su Pasolini. Conversazioni con Jon Halliday (1969), in Saggi sulla politica e sulla società, a cura di W. Siti e S. De Laude, Milano, Mondadori, 1999, pp. 1291-2. Il grassetto è mio.
[16]P.P. PASOLINI, Saggi sulla politica e sulla società, cit., p. 1582, originariamente pubblicato in F. CAMON, Il mestiere di poeta, Milano, Garzanti, 1982. Il grassetto è mio.
[17]P.P. PASOLINI, Il sogno del centauro, ivi, 1416. Il grassetto è mio.
[18]P. P. PASOLINI, Poesia nella scuola, in «Il Mattino del Popolo», 4 luglio 1948, ora in P. P. PASOLINI, Un paese di temporali e di primule, cit., pp. 280-281.
[19]P. P. PASOLINI, Da Udine a Casarsa, in «Il Mattino del Popolo», 8 novembre 1947, ivi, pp. 137-138.
[20]P. P. PASOLINI, Topografia sentimentale del Friuli, in «Avanti col brun!», Udine, 1948, ivi, p. 155.
[21]P. P. PASOLINI, ivi, p. 29.
[22]P. P. PASOLINI, Da Udine a Casarsa, cit., p. 139.
[23]P. P. PASOLINI, Poesie inedite (1950-1951), n°6, in P. P. PASOLINI, Le poesie, Milano, Garzanti, 1975, p. 758.
[24]P. P. PASOLINI, Non aver paura di avere un cuore in Tribuna aperta, sul «Corriere della sera», sabato 1° marzo 1975, p.2, poi in Scritti corsari, Milano, Garzanti, 1975, p.127.
[25]P. P. PASOLINI, Studi sullo stile di Bach [1944-45], in Saggi sulla letteratura e sull’arte, a cura di W. Siti e di S. De Laude, Mondadori, Milano 1999, vol.I, pp.77-90.
[26] C. SEGRE, Ritorno alla critica, Torino, Einaudi, 2001, p. 99.