«Spifferi in carta» da rive opposte. Il carteggio tra Franco Fortini e Vittorio Sereni

Il Carteggio 1946-1982 tra Franco Fortini e Vittorio Sereni, uscito per Quodlibet a novembre 2024, mette finalmente a disposizione la corposa produzione epistolare (142 in tutto le lettere trascritte) di due letterati e intellettuali tra i più influenti del secolo scorso. Viene in soccorso, il carteggio, a studiosi e appassionati che finora avevano avuto accesso solamente a stralci di questo fecondo scambio, attraverso edizioni parziali: alcune missive erano infatti state anticipate nelle sereniane Scritture private con Fortini e Giudici (Capannina 1995), oltre che in sedi critiche sparse.

La pubblicazione del carteggio, effettivamente, completa il trittico epistolare suggerito dal volume del 1995 che vede protagonista l’amico comune Giovanni Giudici: nel 2018 il Carteggio 1959-1993 con Fortini, a cura di Riccardo Corcione per Olschki; nel 2021 quello con Sereni a cura di Laura Massari: Quei versi che restano sempre in noi. Lettere 1955-1982, uscito per Archinto. Strumenti critici che rendono questa triangolazione di riferimenti ancora più proficua.

«Due destini» oltre l’«esile mito»

Qualcosa dello scambio, dunque, si sapeva già, ma il volume – grazie alla meticolosa curatela di Luca Daino – fornisce una panoramica più ampia e più profonda dei rapporti che intercorrevano tra Fortini e Sereni.

È noto il legame di stima e rispetto reciproci tra i due autori, e insieme il travagliato percorso fatto di incomprensioni per le rispettive posizioni ideologiche e modalità di intervento nel discorso pubblico. Un tormentone che ha toccato anche l’opera in versi e che trova il suo culmine in Un posto di vacanza («Venivano spifferi in carta dall’altra riva: / Sereni esile mito / filo di fedeltà non sempre giovinezza è verità / ………. / Strappalo quel foglio bianco che tieni in mano»), celebre poemetto sereniano su Bocca di Magra, luogo fisico e testuale di scontro tra intellettuali arginati su «rive» opposte. Nelle lettere il tema è oggetto di botta e risposta approfonditi, ripresi anche attraverso gli anni:

Che tu sfugga a chi ti chiede le scelte, sul ponte […]; che tu ci sfugga in versi, transeat: è un autoritratto. Ma tu come tu, privato, non puoi sfuggire o puoi farlo a tue – gravi – spese. (FF)

Le missive sono anche veicolo di componimenti poetici, come il fortiniano A Vittorio Sereni, inviato il 14 dicembre 1970:

Come ci siamo allontanati.
Che cosa tetra e bella.
Una volta mi dicesti che ero un destino.
Ma siamo due destini.
Uno condanna l’altro.
Ma chi sarà a condannare
o giustificare
noi due?

Le riflessioni, le discussioni, i battibecchi a distanza – spesso colmati a voce, nella vita vera: non pochi sono i salti e i sottintesi nei loro discorsi epistolari – percorrono le lettere di seguito, spesso anche nella stessa missiva, come scomparti paralleli che corrono insieme; così i malumori non inficiano gli attestati di stima per i rispettivi lavori poetici, né ostacolano il disbrigo delle incombenze professionali.

Rispetto ad altri carteggi che li vedono protagonisti, nel loro dialogo serrato traspare più chiaramente il rapporto umano che li lega («È solo per dirti che ieri è stata una bella giornata per me, dopo che mi hai telefonato», vs), una giocosità che – ad esempio – Sereni non si permetterebbe con altri («Rallegramenti (come si dice nella buona società) vivissimi e buon lavoro») e, soprattutto da parte di Fortini, lucide analisi sulle rispettive psicologie e punte di dolceamara confidenza («Allora, se non puoi volermi bene, almeno fa’ uno sforzo»).

Poeti e di poeti funzionari

Insieme al lato umano, le lettere portano testimonianza di quello professionale. Innanzitutto con i rispettivi feedback e consigli sull’opera poetica: possiamo infatti seguire la genesi di raccolte come Strumenti umani e Stella variabile, e Una volta per sempre. Specialmente da parte di Fortini – che frequentemente parla per citazioni del suo interlocutore – risalta l’ammirazione, mai nascosta, per i versi del poeta luinese.

Lo scrittore toscano aveva coniato per Sereni, direttore editoriale in Mondadori, la definizione di «poeta e di poeti funzionario». Una felice invenzione che potrebbe adeguatamente applicarsi anche al lavoro editoriale fortiniano di consulente per la poesia mondadoriana, alla quale sovrintendeva proprio l’amico. Emergono scambi in cui si mescolano la pressione del lavoro quotidiano, di routine, e considerazioni più ampie sull’industria nella quale operano:

Quando mi lamento del lavoro mi lamento soprattutto di questo: dello stato di atonia intellettuale in cui inevitabilmente si cade, dell’ottundimento feroce delle facoltà più personali. (VS)

Sono gli anni del miracolo economico e iniziano a emergere forti interrogativi sulla cultura all’epoca del neocapitalismo, opinioni che vengono veicolate su riviste come Questo e altro, alla quale insieme contribuivano, e che trovano eco anche nel carteggio privato.

[…] E il bello è che gli editori si scannano tra loro per un libro di versi, ormai. Senza accorgersi che quelli che tirano i fili sono invece d’accordo tra loro. Ma perché prendersela? (VS)

Ma capiranno mai che il “discorso umanistico” è oggi, purché cosciente e non ebete, l’unica testimonianza possibile della facticité e del mondo cosale? (FF)

Testimonianza preziosa, in appendice vengono inoltre presentate le schede editoriali di Fortini per Mondadori, che vanno a collocarsi a fianco dei suoi Pareri editoriali per Einaudi, pubblicati sempre da Quodlibet nel 2023. Fortini si misura su raccolte di poesia anche distanti dal proprio gusto: scavalcando la loro funzione strettamente burocratico-tecnica, le schede prendono la forma di saggi critici in miniatura, non scevri di commenti personali che contrastano con l’impostazione istituzionale tipica della casa editrice («Per intendersi, si legga subito quella che io considero tra le più belle, la seconda (pg. 4): cristo, e sembra nulla e quanto invece è complessa!» [su Guido Ceronetti]). Fortini lascia indicazioni, suggerisce selezioni, mostra di essere consapevole che il proprio ruolo di lettore editoriale deve essere staccato dal suo gusto personale («“Ritiene che […] il valore delle poesie di Dell’Arco giustifichi un concreto interessamento da parte nostra?” | Rispondo epigrammaticamente: da parte vostra, sì; da parte mia, no»).

Scrittori anche nel privato

Dalla lettura dei testi appare chiaro come questi – vale certamente per le lettere, ma anche per le schede editoriali – assumano un valore che va oltre quello testimoniale: è semmai specificamente letterario, che ricalca lo stile delle loro opere prima ancora di riflettere le personalità degli scriventi: esplosiva e schietta quella di Fortini, urbana e schiva quella di Sereni (che nota: «tu tendi a parlare, io tendo a chiudermi»). Una difficoltà nell’allineamento dei loro caratteri che non ha impedito ai due scrittori di interloquire con intelligenza e tantomeno di volersi bene. Fortini descrive i suoi epigrammi verso Sereni come «gemiti di affetto deluso»:

Siamo condannati a stimarci (io, ad ammirarti), spesso a volerci bene; senza poter superare però malintesi, errori e pregiudizi.

Oggi forse ci si sorprende del misurato decoro con cui erano capaci di affrontare con precisione e distendere a viso aperto i loro problemi, sintomo di un’intesa possibile solo in una vera amicizia. Così come dell’intelligenza che impiegano nel condurre i loro discorsi: ad esempio, in riferimento alla Guerra dei sei giorni tra Israele e i paesi arabi, Sereni dichiara: «[…] è inevitabile approfondire, è doveroso, ma io non ne ho il tempo – dunque è meglio tacere (e, quando è il caso, ascoltare)». Un bel scrivere che non è fine a sé stesso, e che mostra una capacità di argomentazione e di ragionamento da fare invidia ai cosiddetti intellettuali da salotto degli odierni talk show televisivi.




Poesie da Gaza – Venite a vedere il sangue per le strade

Sotto il cielo muto d’Europa, la Storia ha gli occhi puntati su Gaza. Stona il silenzio nudo e risuona il fragore dei razzi. In quel contesto, dedicarsi alla poesia non sembra un’attività possibile. Non è una guerra di trincea, dove, per la maggior parte del tempo, l’aria immobile permette il condensarsi dei pensieri in poesia. Non è neanche una guerra frenetica tra due eserciti, ma un puro assedio. Lì, chi si dedica alla poesia (e c’è chi lo fa), è costretto a guardare alle cose che stanno nelle immediate vicinanze, ma queste cose non sono che ašlaʾ (أشلاء), ovvero ‘pezzi’.

صورنا العائلية، كيس من الأشلاء، كومة من الرماد

Ṣuwaranā al-ʿāʾiliyyati, kīsun mina al-ašlāʾi, kawmatun mina ar-ramādi.

«Le nostre foto di famiglia: un sacco di brandelli, un mucchio di cenere.»

(Heba Abu Nada, uccisa nel 2023)

Eppure, è possibile fare poesia con quegli ašlaʾ. Sono pezzi fisici, materici, oppure sono i suoni pungenti e penetranti delle voci dei bambini e delle sirene delle ambulanze. In arabo, ṣawt – presente anche nel frontespizio del libro, nella frase che traduce Il loro grido è la mia voce – è tipicamente usato per indicare la voce umana, ma in Cosa può una poesia? di Yousef Elqedra è usato per indicare sia le sirene delle ambulanze sia la voce del bambino Anas: allora prende forma un paesaggio desolato fatto di macerie e bambini schiacciati, e ambulanze in cerca di salvare qualcuno. Anche questi sono ašlaʾ, pezzi di vita quotidiana che si stagliano sopra ogni altro aspetto della vita perché testimoniano la presenza di una vita – e allora si può scrivere una poesia.

بصراخ النساء والأطفال
بصوت الإسعافات بحطام شجرة أحبها
بكل هذه الوجوه التي تتفقد مفقو ديها
بصوت الطفل أنس تحت الركام أنا لسه عايش

Bi-ṣurāẖi al-nisāʾi wa-al-ʾaṭfāli
bi-ṣawti ạl-ʾisʿāfāti, bi-ḥuṭāmi sẖajaratin ʾaḥaba-hā 
bi-kulli haḏihi al-wujūhi alatī tatafaqadu mafqū dīa-hā
bi-ṣawti ạl-ṭifli ʾansa taḥta ạl-rukāmi ʾanā lishu ʿāyaša

Con le urla delle donne e dei bambini,
con il suono delle ambulanze, con i resti di un albero che amo
con tutti questi volti che cercano i loro dispersi
con la voce del bambino Anas sotto le macerie che dice: «Sono ancora vivo

(Yousef Elqedra)

Nella burrasca di Gaza un poeta non può fermare la guerra. Tuttavia, la poesia testimonia e alimenta la memoria. Una delle cifre del nostro tempo è la circolazione di ingenti quantità di informazioni – chi ha vissuto per metà dello scorso secolo tende a ricordare un mondo più pacifico, ma questo è falso. È solo che ora risulta molto più semplice venire a sapere di certi accadimenti. Ma le notizie non sono che vuoti, aridi resti. Per questo serve la poesia: perché dentro alle foto dei bombardamenti e al sangue nelle strade ci ricordiamo che «il vento scuote la tenda, la tenda abbraccia la pioggia, la pioggia lava via tutto, ma non la memoria di chi ci vive. Così la tenda rimane in piedi, a testimoniare che la fragilità è l’altro volto del Sumūd» (Yousef Elqedra).

Il traduttore dall’arabo di Poesie da Gaza Nabil Bey Salameh (Ginevra Bompiani ed Enrico Terrinoni si sono occupati delle traduzioni dall’inglese) ha scelto di non tradurre l’ultima parola della seconda poesia di Elqedra, aggiungendo una nota che ci dice che «Sumūd (صمود)significa ‘fermezza’ o ‘perseveranza incrollabile’ e incarna una combinazione di resilienza, resistenza e determinazione di fronte alle avversità». La sua radice (ṣ m d – le radici arabe sono generalmente composte da triadi di consonanti su cui si applicano degli schemi vocalici) evoca proprio l’idea della resistenza. Ma questa – che è ciò che appare da fuori Gaza, dalle notizie, insieme ai muti corpi – tende a farsi da parte nelle poesie dei gazawi, che lasciano spazio a una hašāša (هشاشة), ‘fragilità’, quella che causa gli ašlaʾ.

هكذا تظل الخيمة قائمة
كأنها شهاده على أن الهشاشة
هي الوجه الآخر الصمود

Hakaḏā taẓullu al-ẖaymatu qāʾymatan
kāʾnnahā šuhāduhu ʿalā ʾanna al-hašāšata
hiya al-wajhu al-āẖar liṣ-ṣumūdi.

Così la tenda rimane in piedi,
a testimoniare che la fragilità
è l’altro volto del Sumūd.

(Yousef Elqedra)

Per un poeta, in ogni caso, è impossibile trattenere la penna. Non può, è contro la sua natura. Neanche sotto il fragore dei razzi può fermarsi, come il pianista sull’Oceano. L’argomento, tuttavia, è dettato dalle condizioni materiali. Gli ašlaʾ, la hašāša. Non può far diversamente, è quello che ha attorno. «Per scrivere una poesia non politica, devo ascoltare gli uccelli, e per sentire gli uccelli, bisogna far tacere gli aerei da caccia» (Marwan Makhoul). Aerei e razzi: il paradosso è che il rumore dei razzi è ciò che permette la poesia. Per scrivere bisogna innanzitutto essere vivi, e «chi sente il suono del razzo sopravvive» (Heba Abu Nada). Quando il razzo colpisce, non rimangono che loro:

والوجع أيضا
لا يترك جائعا
يلملم حبات الأرز
من الأرض
تذكر كيف جمع أشلاء ابنه الجائع
في حقيبة

Wa-l-wajaʿu ʾayḍan
lā yatruku jāʾiʿan,
yulammilimu ḥabbāta al-ʾuruzzi
mina al-arḍi,
tadhakkara kayfa jamaʿa ašlāʾa ibnihi al-jāʾiʿi
fī ḥaqībatin.

E il dolore
non lascia un affamato
che raccoglie chicchi di riso
dalla terra.
Ricorda come ha raccolto i resti di suo figlio affamato
in una borsa.

(Haidar al-Ghazali)

E ancora:

في الحظة التي
سيضع فيها الطفل
قطعة البازل الأخيرة
لتكتمل اللوحة
حينها فقط
سيدرك كيف كان
ابوه أشلاء

Fī al-laḥẓati allatī
sayaḍaʿu fīhā al-ṭiflu
qiṭʿata al-bāzil al-ʾakhīrah
litaktamila al-lawḥa,
ḥīnahā faqaṭ
sayudriku kayfa kāna
abūhu ašlāʾan.

«Nel momento in cui
il bambino
metterà il pezzo finale del puzzle
per completare il quadro,
solo allora
capirà come era ridotto in brandelli
suo padre.»

(Haidar Al-Ghazali)

È quel che resta. Anche queste stesse poesie non sono che macerie. Come ci dicono i curatori nella nota finale, queste poesie «costituiscono solo una piccola parte del materiale che gli autori continuano a scrivere e pubblicare nei limiti e nelle possibilità a loro consentite». E questa raccolta funge quindi da simbolo delle macerie di Gaza. La sua stessa esistenza ‘in questa forma’ – una raccolta, come si raccolgono gli ašlāʾ – indipendentemente dalla qualità della scrittura, testimonia la difficoltà di entrare e uscire da quella prigione a cielo aperto.

Sotto il cielo muto d’Europa, riecheggiano i versi di Neruda dedicati all’orrore della guerra civile spagnola, di ormai quasi un secolo fa:

Chiedete perché la sua poesia
non ci parla del sogno, delle foglie,
dei grandi vulcani del suo paese natio?
Venite a vedere il sangue per le strade,
venite a vedere
il sangue per le strade,
venite a vedere il sangue
per le strade!

(Pablo Neruda, La Spagna nel cuore, tr. di Giovanni Bellini, Passigli, Firenze 2006, ed or. España en el corazón, 1937)

Che possa quindi valere l’invito del ventenne Haidar al-Ghazali a ricostruire dalle fondamenta:

تعالي كي نرتب أبجديه الأكوان

Taʿālī kay nuratib abjadiyyat al-akwān

Vieni che sistemiamo l’alfabeto degli universi.




Menti sommerse 10. “Con amore, vita”: “Stanze di città e altri viaggi” di Valentina Colonna

La poesia è un oggetto complesso perché il suo funzionamento e la sua fruizione avvengono sulla base delle connessioni. In questo senso, è difficile che un singolo testo poetico possa bastare a sé stesso o che, almeno, possa considerarsi davvero autoconclusivo.
Per quanto siamo abituati fin dalla scuola a considerare “la poesia” nella sua materialità di testo a sé stante – sperabilmente breve – da dissezionare e analizzare, un testo al di fuori del suo libro (della sua raccolta) risulterà necessariamente monco nel suo messaggio e privo di prospettiva nei suoi strumenti tecnici. Un unicum, cioè, di discreto interesse nel migliore dei casi, a cui è stato estorto il grosso della sua capacità di significare: il rapporto, qui davvero necessario, con gli altri testi del suo libro.

Nell’occasione di mettermi finalmente a leggere l’ultimo libro di Valentina Colonna, mi sono trovato di fronte proprio a questo: l’identità non scindibile del macrotesto, l’amalgama non più separabile tra sezioni e testi, tutti privi di titolo perché tutti in realtà facenti parte di un flusso che non ha inizio né fine ma è sempre continuamente sé stesso, nella revisione perenne dei concetti.

Valentina Colonna ha un curriculum personale e poetico ai vertici (qui il suo sito per saperne qualcosa di più) e non potevo aspettarmi una cura minore del testo da un’autrice che, peraltro, è anche compositrice di musica. Sezione per sezione cercherò di seguire il suo moto, come si trattasse di un romanzo in versi per cui ogni parte è imprescindibile.
Tra i tanti viaggi della sua raccolta, iniziamo il nostro.

FINESTRE, QUASI TUTTO 

«[…] Lo svestirsi delle case è un riempirsi d’aria,
stagione di visioni prima di spegnere la radio.
Si ritorna più viventi nei vani di gioia.»

Stanze di città e altri viaggi è la terza raccolta di Valentina Colonna, poeta, ricercatrice accademica e musicista, e la seconda con l’editore Nino Aragno che, ancora una volta, ha realizzato un oggetto materialmente prezioso, straordinario nel suo essere un prodotto o una merce rivolto alle coscienze.

La prima sezione, Finestre, quasi tuttoè un tessuto cangiante di memoria che riaffiora incontrollata (proustianamente quasi) in un presente non proprio fisico, non proprio reale ma al limite dell’immaginario. Se tutta la poesia è evocazione e rappresentazione, il presente di cui qui si legge ha una consistenza labile, solo parzialmente definito e dai contorno fumosi.
È tutto un incredibile effetto di stile e sensibilità: mi ricorda tanto la luce incandescente del sole d’agosto sui muri bianchissimi di questo sud che in vario modo io e Colonna abbiamo in comune: solo le cose esatte, compiute, latinamente perfette, si stagliano sulle pareti «dei muri | bianchi, della luce nei soffitti a cielo aperto | con gli odori, che diffondono di pranzo».
Avete mai visto il colore profondissimo delle bouganville a mezzogiorno a Ostuni? Uno di quei «paesi bianchi appesi alla collina […]»…

Ma cosa c’è di più nebuloso della memoria o del desiderio, di un ricordo che non trova il suo doppio in un presente veramente vissuto? Si guarda allora dalle finestre come in certi comparti della mente o della coscienza. Ancora una volta, leggendo, e di certo in una sovrapposizione indebita, ricordo la mia infanzia passata nella campagna pugliese: l’attesa del temporale che nei paesi vicini già crollava («Il temporale quando arriva piano | si annuncia da lontano nei paesi a fianco | con la tromba nera del cappello.»), il rito dell’irrigazione dell’orto e dei fiori, la terra che profuma di pioggia, l’autunno che cambia davvero i colori. Sapendo, sperando che tutto sarebbe tornato voltato l’angolo dell’anno.

Ogni memoria porta il suo velo bianco di malinconia perché anche la felicità avuta («La felicità cammina per strada | con una bici scrostata e un vestito | azzurro.») è sempre felicità di un altro tempo: leggere questa sezione mi ha dato la sensazione di scorrere sullo spartito di un’antica evocazione, un’esecuzione pianistica che in sé è sempre unica e che la ripetizione può soltanto approssimare.

Ma la verità è che quella dell’io è o è stata felicità vera e in questi primi testi accade un piccolo miracolo: la gioia e il bene sono stati conservati e protetti dal tempo, non pianti ma ricordati nelle forme più vicine al vero. Proprio all’avvio del suo libro Colonna non squaderna solo la sua bravura come poeta (che è sottilissima ed esaltante) ma anche la sua onestà come intellettuale, il suo valore come essere umano. Come gli esseri umani dovrebbero, infatti, anche la poesia ha il compito di proteggere ciò che è debole.

VISIONI DALLA NEBBIA O DALLE NUVOLE BASSE 

«[…] Noi due
in casa che rientriamo e questa stanza
così piena, così allegra che mi annienta.
Mi spaventa. Forse il niente che mi prefiguravo
– anche lui – andandosene dilegua in profondità.
Oltre, là… dove oltre in terra non c’è…»

L’esergo di Caproni è solo l’avvio di una sezione che rimanda di continuo, e sotterraneamente, al Caproni de Il terzo libro e altre cose. La ricorrenza continua di parole-chiave come nebbia, latte, il rimando alle carrozze (ma non dei tram) e le atmosfere in generale sono un tributo, quasi fuoriuscito per memoria poetica, al grande poeta livornese.

Si distende qui l’aria eterea e onirica della prima sezione, che anzi acuisce la perdita di riferimenti topografici. L’io sembra parlare come in spirito, come in voce disancorata dalla carne (o precedente a essa), a cercare il suo pendant negli elementi naturali, declinati in assenza di luce, in acqua, vento, neve, pioggia, nebbia, nuvole. Su tutto, piove il silenzio dell’assenza umana («il silenzio che è tutto | ciò che ancora di vivo abbiamo»), un fruscio di piante e animali selvatici.

In questo lo spirito-io si muove viaggiando, ponendo cioè tra sé e le cose distanza o separazione, in un distacco quasi necessario per lo statuto che slega le cose materiali dalle “pure coscienze”. Tutto il paesaggio è quindi correlato da un sentimento di distanziamento, attraverso il buio dei cieli aperti o le promesse di tempesta dalle nuvole basse. Nonostante l’ombra però risulta quasi necessario un qualche rapporto tra il paesaggio stesso e la voce-io: in essa un desiderio di trasformazione e cioè incarnazione, una fusione dal sapore panico che rimanda all’intimità dello scontro tra io e natura di Andrea Zanzotto (Dietro il paesaggio o La beltà basterebbero ad esemplificare).

Ma l’io che si fa pianta non fa che riprenderne in metafora i tratti più connotanti: non foglia ma pelle diventa il suo contorno e con l’umanità sopraggiunge anche la forza e il desiderio più fondante: l’amore.
Vissuto all’inizio come «angoscia nella felicità nera», inatteso, impensato, persino immeritato tanto lungo è stato il tempo della «nullità». Ma se il viaggio è sempre stato moto e separazione, negazione di stanziarsi, di abitare, appartenere, ora l’amore è potenza ordinatrice, capace di ridefinire i confini del mondo in un andare che non è più fuga, ma costruzione di una meta.

Compare il sole finalmente nei versi («Nel vaso di fiori per il mio onomastico le orchidee | si macchiano e il sole annida nelle rose intatte») e l’aria si fa «ossigeno», cioè chimica necessaria a una vita biologia, reale: riprende il viaggio della memoria che legge a ritroso e ricodifica «questi anni passati ad aspettarci».
Amore delicatamente anelato, vissuto ai bordi di boschi e fiumi sotto gli occhi di creature che scrutano dall’alto. Forza ordinatrice ma labile che sembra evaporare negli ultimi due testi come la bruma di settembre che l’aveva originata: «[…] Ma, mio amore, | non hai nome se non ritorno – ricordo? – e viaggio | di sospiri trattenuti, sguardi evitati per paura di perire».

STANZE DELLA LONTANANZA

«[…] A ripensarla, la vita, ti avrei tenuto
ininterrottamente la mano sotto le viole
senza guardare le lontananze,
col peso di una colpa remota.
Il peso nero della perdita tutta.»

Nonostante il passaggio di sezione, il romanzo di Colonna continua a fluire sui suoi temi (sintomatico il ritorno di Caproni in esergo). Così, l’amore che sembrava concluso qui appare effettivamente estinto («I grandi amori, infelici. Non reggono | il non finire o soltanto esistere»): l’indagine sul sé si apre con grande minuziosità, come se l’io anatomizzasse il dolore a beneficio della propria coscienza, realizzando di fatto l’equazione per cui scrivere significa conoscere. Subito il ricordo del gesto minimo nella quotidianità dell’amore, la nebbia interiore per questa “morte”, il silenzio o lo spazio vuoto pieno di un ronzio ineliminabile («Il rumore di fondo mi attraversa e mi sconfigge. | Non resta più alcuno spazio vuoto.»).

La lontananza d’amore è solo il punto di avvio per distanze diverse e ben più grandi che, in questa sezione centrale, giungono a connotare il libro nella sua identità: il viaggio, come già suggerito, è sempre separazione, un vuoto tra un pieno e un altro (sperabilmente) pieno. La vita all’interno di questo segmento assume la forma dell’onda, dell’oscillazione che, muovendo prova a riempire.
Le stanze sono i vani della nomenclatura tecnica, cioè i vuoti che possono/devono essere occupati per significare e diventare abitazione. L’amore, che solo parzialmente è quello per l’amante, si riflette sugli amici e sule figure genitoriali, rimarcando il distacco ma ancora il potere di riempire, di fare e dire a fronte di una vita annebbiata in ottusa ciclicitàIl vuoto ogni anno, lo sfinimento dei passi nella pioggia | dei baci non dati negli aloni di nebbia dalle bocche. | […] Ma se affondo e mi innamoro | per un momento trovo la spinta esatta a non cadere e amo […]»).

Una possibilità di speranza che prova a stagliarsi sull’orma di un dolore antico, la morsa della mancanza che non molla mai la presa, nei troppi “cosa sarebbe stato se”, di un amore come forza negata per disattenzione o destino, nella rassegnazione (nei treni che di continuo bisogna prendere quando il tuo luogo non c’è o non è uno).
L’io ci dice che bisognerebbe amare «senza guardare le lontananze», puntellandosi sul pieno che c’è e non sul vuoto che potrebbe esserci. Tuttavia, la considerazione amara che viene dal fondo della sezione è che il dolore talvolta è il miglior maestro e (ri)nascere significa attraversarlo, lasciar andare anche il meglio di sé e ritrovarlo dopo un lunghissimo cammino.

STANZE DI SALENTO, TERRA MIA E NON MIA

«[…] I fiori d’aria tra cachi e melograni senza frutti
io amo riconoscerli passando
piano – piano – da lontano.»

Mi sorprende qui una volta di più la sapienza con cui Colonna riesce a costruire pezzo per pezzo un’immagine, con deliberata lentezza e precisione, col fine di offrire un mosaico o un affresco. Questa breve sezione mi colpisce specialmente, e di nuovo, per le mie origini pugliesi, ma credo che renda prontamente la forma di un luogo anche per chi il Salento non lo ha mai visitato.

Si susseguono infatti delicati idilli fatti di ulivi, terre, pianura, mare, insetti impastati nella calce bianca delle chianche. Ma l’assenza che in-forma questi dolcissimi quadretti è di nuovo fatto di Tempo e Amore. Un tempo «lento di secoli» che esiste da sempre e per sempre, ma scorre a una velocità diversa che determina un’esteriorità precisa dei luoghi: la rugosità degli ulivi, il calore dell’afa punteggiata di cicale.

In tutto, l’amore e «la processione degli amanti» dispersi o nascosti tra rocce e coste, come fosse questo il luogo migliore per fare dell’amore quella forza portentosa capace di significare davvero la vita.

Ma tempo e amore in questo romanzo in versi si fondono sempre nel ricordo della cosa perduta, in una terra così distanziata dagli anni che l’io dice: «Non ho | appartenenza. L’allegra sofferenza di abitare ovunque»Quando il tempo era una stagione della coscienza e quando le stagioni forgiavano la consistenza dei luoghi, guidati dalle mani sicure degli antenati. Chi, come me, ha passato l’infanzia tra le campagne lontane dalle città, tra frutteti e pinete, ricorderà sé stesso nel tempo immobile di questi versi: «[…] La mia stanza | non aveva nome era il maturare svelto delle prugne | tra i vuoti della scala e la paura di cadere, gioia di staccare. | Mani forti degli anziani a reggermi – porte aperte di casa.»

STANZE DI CITTÀ E ALTRI VIAGGI

«[…] Trattenere tutto è la promessa e prego
di rivederli. Ripeto “Tornate!”
prima della partenza, dell’evasione. Come a
immobilizzarlo, il vento si cattura nel barattolo, si posa
sul tavolo a illudersi ancora di sentirlo odorare.
[…] Questa è la mia stanza, che non ferma e ti risuona.»

Forse la sezione più complessa, nella misura in cui i temi cardine della raccolta arrivano a compimento e cercano una composizione. L’avvio conduce una riflessione sulla precarietà direi biologica della vita, tracciando il ricordo di attentati e stragi del recente passato, dimostrando impietosamente del disprezzo dell’uomo verso l’esistenza.

La vita appare allora come una fragilità, una cosa che esiste per caso o per fortunaSiamo salvi | per miracolo») e che possiamo tenere insieme aggrappandoci alle nostre speranze di amore e felicità («sopravviviamo di felicità»). Quasi sintomaticamente, dunque, si moltiplicano le invocazioni divine, come di disperazione («amaci tutti»; «accoglici tutti» si dice in due testi vicini), che tanto possono avere di una religiosità “canonica” quanto piuttosto di un richiamo panteistico o immanente (la Madre si alterna al Signore), come a cercare la ragione del male e del bene in uno Spirito che regge i destiniCome fai, Signore, a tenere tutti i destini?»).

Nulla di consolatorio, comunque: anche il potere di una felicità terrena è comparato al massimo a una tregua («qua è solo una tregua», parafrasando la Anedda di Notti di pace occidentale): essere felici corrisponde a essere in quiete ma lo sconvolgimento non finisce mai, appare come codificato nella sorgente della terra.

Dopo la generalità del destino umano, l’io torna su di sé, in un desiderio di salvezza che è ripiegamento “uterino” alla Madre, in uno scampare alla morte che corrisponde a rinunciare alla vita («ritorno | al varco della Madre – suono di pura salvezza.»).
Riprendono, cioè, dopo la tregua e le quieti, i viaggi sempre più pieni di stanchezza, sempre più motivo di separazione forzata o fuga nel tema onnipresente del treno che divide («mentre sparirci ci costa | anni lunghi di viaggi mai arrivati»), negli spazi di città conosciute e amate come Torino o Barcellona, ma subito ridotte ai loro vuoti che si allargano a dismisura causando la dispersione dell’io e di ogni tuandarsene di spalle nel buio | in un parco vuoto che porta il mio nome. | […] Mi giro e ti chiamo. | E sei già dileguato»).

Il viaggio, da occasione di crescita, arriva in questi testi a uno stato di consunzione, di esasperazione e la vita, già di per sé prostrata da fatiche e promesse disattese dal destino è svuotata e senza forze, è incapace di decorare pareti e dare forma agli spazi mai toccati.
Viaggi come corse disperate, città che non accolgono più, mete ormai perse di vista. Anche lo stimolo di infinite strade aperte («amore stasera aveva più nomi») si scontra contro uno spirito esausto e il veto posto dai “ma” («Ma | […] il vuoto è piombato delle parole, del sole»). Nulla si può raggiungere perché «l’attesa di tutto – ancora l’assenza. | Un domani che si perde nella stanza»).

Il libro, questo libro, così incredibilmente denso si chiude con un unico verso che campeggia solitario sulla pagina bianca, come soglia raggiunta e nuovo punto di partenza.

Occorrerebbe forse smettere di correre una buona volta, oppressi da una forza centripeta che crediamo connaturata alla nostra stessa esistenza. Non più tragitti ma appartenenze, non più stanze ma casa. E come per certi sogni bisogna svegliarsi, così per vivere davvero bisogna lasciar andare ciò che è perduto, per fare della felicità una quiete aperta:

 

/poi mi sono svegliata per non morire/




Riflessioni intorno al giovane Pasolini

Fontana di aga dal me país.
A no è aga pí fres-cia che tal me país.
Fontana di rustic amòur.

Dedica, da Poesie a Casarsa (1941– 1943), in La meglio gioventù

 

Fontana di aga di un país no me.
A no è aga pí vecia che tal che país.
Fontana di amòur par nissùn.

Dedica, da Poesie a Casarsa, in Seconda forma de «La meglio gioventù» (1975)

 

Solo il marxismo salva la tradizione. Oh, ma capiscimi bene! Per tradizione intendo la grande tradizione: la storia degli stili. Per amare questa tradizione occorre un grande amore per la vita. La borghesia non ama la vita: la possiede. E ciò implica cinismo, volgarità, mancanza di reale di rispetto per una tradizione intesa come tradizione di privilegio e come blasone. Il marxismo, nel fatto stesso di essere critico e rivoluzionario, implica l’amore per la vita, e, con questo, la visione rigenerante, energica, amorosa della storia dell’uomo, del suo passato. […] Come vedi, parlo di «passato» come storia nei suoi prodotti irripetibili e sublimi: anche i più umili. Se tu questi prodotti li ricordi e li ammiri senza amarli, sei in colpa: verso il futuro.

Da Vie Nuove, n. 47 a. XVII, 22 novembre 1962[1]

Introduzione

La proposta di una poesia giovanile di Pier Paolo Pasolini come traccia all’Esame di Stato per la prova di italiano ha sollevato, nei giorni immediatamente successivi, diverse critiche. La poesia è tratta dalla raccolta Dal diario (1945-1947), pubblicata presso Salvatore Sciascia Editore nel maggio 1954:

Mi ritrovo in questa stanza
col volto di ragazzo, e adolescente,
e ora uomo. Ma intorno a me non muta
il silenzio e il biancore sopra i muri
e l´acque; annotta da millenni
un medesimo mondo. Ma è mutato
il cuore; e dopo poche notti è stinta
tutta quella luce che dal cielo
riarde la campagna, e mille lune
non son bastate a illudermi di un tempo
che veramente fosse mio. Un breve arco
segna in cielo la luna. Volgo il capo
e la vedo discesa, e ferma, come
inesistente nella stanca luce.
E così la rispecchia la campagna
scura e serena. Credo tutto esausto
di quel perfetto inganno: ed ecco pare
farsi nuova la luna, e – all’improvviso –
cantare quieti i grilli il canto antico.

Riflessioni intorno al giovane Pasolini - MediumPoesia

Molti hanno ravvisato in questa poesia una composizione acerba, insignificante dal punto di vista contenutistico, formale e stilistico, ma soprattutto apolitica, portatrice di una visione anestetizzata della realtà. Dunque, per chi la pensa in questo modo, la proposta di questa poesia è stata innanzitutto un’offesa, uno sfregio alla memoria di Pasolini. Ad esempio, la poetessa Maria Grazia Calandrone ha efficacemente riassunto questa posizione con un post pubblicato sulla sua bacheca Facebook, ricordando in Pasolini «lo spietato analista politico e sociale, Pasolini lo scandaloso, il pluriprocessato dai benpensanti, il cattivo ragazzo, l’amante delle crudeli borgate romane». Si è parlato, da più parti, di “arcadica melanconia di ventenne”, di disinnesco del potenziale rivoluzionario della sua opera e di manipolazione politica del lascito intellettuale di Pasolini. Dal dialogo tra visioni contrastanti è scaturito un interessante dibattito. Il tema è profondo e delicato, poiché dalla riflessione sulle varie fasi di un autore complesso e controverso come Pasolini il dibattito si è allargato alla questione se sia lecito o meno considerare validi, importanti, o quantomeno interessanti, i suoi primi tentativi artistici. Ma la domanda ultima di queste riflessioni interroga il senso del fare poesia e la funzione che ad essa, di volta in volta, si attribuisce.

…con il cuoredentro un soave bozzolo di luce[2]

La mia personale posizione è completamente differente rispetto a quelle appena richiamate. Infatti, credo che esistano possibili interpretazioni di questa poesia – che effettivamente mostra un “Pasolini prima di Pasolini” – in grado di tendere un tranello a chi, faziosamente, vorrebbe leggerci solamente degli elementi elegiaci, reazionari, di destra, in ultima analisi. Ovviamente, senza forzare il testo. Oltre al fatto che l’immagine del cuore che, in quanto «mutato», persegue un tempo interiore diverso da quello esterno mi sembra molto moderna (e mi ricorda una pagina dai diari kafkiani in cui vengono tragicamente confrontati l’orologio interiore e quello esteriore, con tutt’altro lessico e stile), nella poesia scelta viene implicitamente evocato il mondo, appunto, elegiaco di Casarsa, emblema di quella civiltà pre-industriale destinata a sparire per sempre, non a caso accostata all’immagine del «perfetto inganno». Questa immagine poetica è, molto più indirettamente che in altre pagine, indissolubile dal pensiero politico di Pasolini, che più avanti parlerà, a tal proposito, di “mutazione antropologica”. D’altronde, cronologicamente e stilisticamente non siamo molto lontani da L’usignolo della chiesa cattolica (che raccoglie poesie scritte tra il ’43 e il ’49), raccolta fondamentale nella quale la disillusione rispetto ai temi cantati finora porta l’autore a una vera e propria crisi; così come non siamo lontani da La meglio gioventù (1941-1953), raccolta sulla quale, significativamente, ritornerà trent’anni dopo. Infatti, indice di quanto Pasolini stesso giudicasse importante la sua prima produzione poetica (quella a cui appartiene anche la poesia scelta per l’Esame di Stato, insieme alle poesie in friulano) è proprio il fatto che nel 1974 abbia realizzato «un vero e proprio caso letterario», come lo definì nella Presentazione dell’autore: la «ripetizione del libro» composto decenni prima, con la precisazione che «in realtà la ripetizione del libro è solo formale: metrica, prosodica, forse mimetica»[3]. Infatti, «in trent’anni si può veramente diventare un po’ diversi. D’altronde, spesso, oggetto del secondo libro è il primo, in senso proprio ideologico e quasi analitico. La follia ripetitiva, il terrore di non aver detto e non poter mai dire la parola ultima e definitiva, o almeno precisa, sull’unica cosa che mi sta a cuore»[4]. Ciò che separa la prima redazione dalla seconda, determinando una vera e propria frattura, è la presenza pervasiva, nella prima, del «chan plor[5] (spesso sinceramente felice) del narcisismo: cioè […] di un io del tutto rifatto di maniera, e cantato in falsetto, come diceva Franco Fortini. A questo io corrispondono false oggettivazioni in soggetti giovani contadini»[6]. Certamente Pasolini in questa nota vuole rendere esplicita la distanza dalla prima stesura de La meglio gioventù: la stessa operazione di riscrittura è innanzitutto una presa di distanza, un’elaborazione del lutto, forse. Ma la «follia ripetitiva» appena citata si configura, poche righe dopo, come una vera e propria «Ossessione»: se l’autore intende riprendere in mano queste poesie che fanno capo a un periodo della sua vita così lontano è perché «in qualche modo, dunque, continua l’Ossessione»[7]. La differenza è che nella seconda stesura il contenuto consiste in una «realtà oggettiva: una nuova pratica di irrisione della Storia (che esercitavo, ignaro, nei lontani anni dell’apprendistato), e, nel tempo stesso, contraddittoriamente, i problemi della Storia ufficiale attuale: privilegiando la fine del mondo contadino e il conseguente infrangersi […] dell’Uovo orfico. L’eterno ritorno è finito: l’umanità è partita per la tangente.»[8]. Il mito di Casarsa, nutrito da una vena simbolista-decadente da un lato, romantico-popolare dall’altra[9], si è spezzato, e, con lui, tutta la sua valenza simbolica ed emotiva. Tanto più forte, allora, sarà lo stridore tra la facies antica e soave del friulano e la scomparsa di quel mondo cantato trent’anni prima.

Dunque, il primo motivo di interesse (culturale, critico e didattico) della stagione giovanile pasoliniana è di ordine squisitamente letterario: ci troviamo davanti al poeta nel momento in cui prende in mano gli strumenti del mestiere per le prime volte. Inoltre, il lettore viene introdotto a quel mondo, popolato di figure ricorrenti, intriso di malinconia e struggente dolcezza, la cui perdita irreparabile segnerà l’inizio di una nuova era antropologica. Mondo che, beninteso, è restituito sotto forma artistica dopo essere stato filtrato dalla sensibilità umana e dall’immaginazione poetica di Pasolini mediante un’operazione che non esiterei a definire mitopoietica. Per quanto riguarda lo stile in cui questa prima mitopoiesi si concretizza, credo possa essere utile e interessante leggere alcune righe di Nico Naldini, cugino di Pasolini per parte di madre, in cui emergono pregi e limiti delle prime esperienze poetiche pasoliniane:

Nel crepuscolarismo – che è “incertezza, nebbia, torbida sfumatura” – l’io del poeta si chiude nell’ambiente e vi si umilia teneramente. Il contrario avviene nelle sue poesie, dove l’io è certo e la lingua poetica è distaccata dall’ambiente. I contenuti sono umili – la piccola vita di Casarsa, il mondo naturale dei contadini – ma il loro linguaggio non è mai dimesso, semmai pecca di ridondanza e di ricercata aulicità. […] Pur non potendo sradicare queste poesie del loro tempo, che è quello simbolistico della poesia pura, la loro originalità sta nell’affermare poeticamente quella realtà – di cose,  di persone, di ore del giorno e della notte, di immagini trapassate che rivivono e di immagini che vivono per perdersi nello strazio della fine, tutte legate a un mondo reale, lontano e isolato nel grande mondo, ma vivo nella sua peculiarità – che affiora in questi versi con l’indicibile piacere di nominare scrivendo per la prima volta gli elementi della vita umana e naturale.[10]

Al piacere cui si riferisce Naldini si accompagna altresì lo sforzo espressivo di una ricerca verbale e stilistica il cui fine è la comprensione di sé e del mondo circostante. Usando parole dello stesso Pasolini, si delinea «un’esperienza estetica, che rappresenta una continua, estrema salvezza dal nulla»[11].

L’ambiguità del processo di costruzione di una coscienza poetica risulta centrale in questo passo in cui Pasolini s’interroga sulla possibilità di una compenetrazione tra il paesaggio e i suoi abitanti, tra la realtà umile delle campagne friulane e i poveri contadini:

Ma come esprimere l’inesprimibile? Esistono forse parole per comunicare un rapporto […] fra i colori dei muri affumicati e la radice dei capelli di un ragazzo di Runcis? Eppure questo rapporto esiste, è Amore. E, ad ogni modo, non ho detto che esisteva in me una gioia? Che c’era un pensiero nudo, spietato dietro le mie parole giocate?[12]

Dietro l’apparente levità di queste poesie, dietro le loro figure umane, poetiche e mitiche, si celano nudità e spietatezza certamente diverse da quelle cui ci abituerà il Pasolini maturo, con i suoi strali, la sua lucida preveggenza, ma cariche al tempo stesso di un’amarezza e di un joi di rara intensità. Forse, potrebbe valere per la raccolta Dal diario, come per le altre coeve, ciò che Pasolini stesso aveva scritto recensendo la raccolta di prose Un po’ di febbre di Sandro Penna: «la gioia vi è così grande da essere dolorosa. Un dolore sconfinato vi è a malapena contenuto come presentimento di perdere quella gioia»[13].

Ma non è finita qui: nel caso di Pasolini, l’orizzonte poetico è presupposto di quello politico, risultando evidente «la continuità tra la sua esperienza poetica e il suo impegno politico»[14]. Infatti, risale agli stessi anni in cui lavorava a queste prime poesie la vocazione politica e sociale che agirà in lui con la forza di una rivelazione. Rivelazione nata soggettivamente all’interno delle strutture della poesia, “all’ombra” della lingua materna per eccellenza, il friulano, e trasferita poi sul piano oggettivo delle condizioni sociali dei braccianti e contadini. Leggiamo questa testimonianza in cui il poeta torna con la mente al 1948, anno dell’iscrizione al Partito comunista e della definitiva adesione al marxismo, mentre a Casarsa si verificano diversi scontri tra braccianti friulani e proprietari terrieri:

Fu lì che diventai un marxista, in modo alquanto insolito. Come le ho detto, feci la scoperta oggettiva dei contadini friulani attraverso l’uso assolutamente soggettivo del loro dialetto. Nell’immediato dopoguerra i braccianti erano impegnati in una massiccia lotta contro i grandi proprietari terrieri del Friuli. Per la prima volta in vita mia, mi trovai, fisicamente, del tutto impreparato, e questo perché il mio antifascismo era puramente estetico e culturale, non politico. Per la prima volta mi trovai di fronte alla lotta di classe, e non ebbi esitazioni: mi schierai subito con i braccianti. I braccianti portavano sciarpe rosse al collo, e da quel momento abbracciai il comunismo, così, emotivamente. Poi lessi Marx e alcuni pensatori marxisti. Per questa ragione il Friuli ha avuto molta importanza per me[15].

Il nesso tra le prime prove poetiche e la scoperta del marxismo viene esplicitato in questi altri due passi, assai rilevanti per il nostro discorso:

Per me restare dalla parte dei braccianti significava restare nella scia della poesia di adolescente. La lotta dei braccianti è diventata il punto cruciale della mia storia, perché è lì che io ho intuito e subodorato prima, scoperto e studiato poi il marxismo.[16]

In quel periodo, in cui tornavo alle fonti di una lingua primitiva, per opposizione a quanto allora rifiutavo, i contadini del Friuli conducevano un’aspra lotta contro i grandi proprietari della regione. Lì ho fatto una prima esperienza della lotta di classe. La lotta dei lavoratori agricoli destava in me tutta una nostalgia della giustizia, al tempo stesso in cui soddisfaceva la mia inclinazione alla poesia. Quindi l’idea di comunismo è venuta naturalmente associandosi, fondendosi a quella delle lotte contadine, alle realtà della terra. Può darsi che persino la mia adesione al Pci sia stata sentimentalmente determinata da quell’esperienza.[17]

Le testimonianze riportate sopra provenivano da conversazioni, riflessioni successive. Vorrei ora accostarvi un passo tratto dal poemetto Poeta delle ceneri, della metà degli anni Sessanta, in cui troviamo espressa poeticamente la permanenza dell’Ossessione del passato casarsese:

Devo aggiungere, ancora, per finire questa storia –
molto irregolare nell’insieme del mio poema –
che quei miei versi friulani sono i miei più belli
(insieme a quelli scritti fino a ventitré, ventiquattro anni,
pubblicati più tardi col titolo «La meglio gioventù»,
e insieme anche ai coevi versi italiani,
nati da quella profonda elegia friulana
di autolesionista, esibizionista e masturbatore,
tra i gelsi e le vigne viste con l’occhio più puro del mondo;
si chiamano, quei versi, «L’Usignolo della Chiesa Cattolica»,
e il loro falsetto è ancora una musica atroce
e sottile che, da laggiù, mi affascina e mi attira indietro.

Elegiaco, ma anche «musica atroce e sottile»! Forse, le poesie giovanili di Pasolini, o almeno buona parte di esse, non sono così pascoliane come potrebbe sembrare, se è l’autore stesso a definirle con parole tanto forti, nel momento in cui torna ad essa con la mente, molti anni dopo. Certo, negli anni Sessanta Pasolini ha piena coscienza che quello di Casarsa è un mondo perduto per sempre, ma in fondo non lo ha mai rinnegato del tutto: «da laggiù, mi affascina e mi attira indietro», provocandogli una inquietudine che, come il canto delle sirene udito da Odisseo, ammalia e distrugge.

Dunque, Pasolini istituisce una fondamentale corrispondenza tra la sua inclinazione alla poesia e gli eventi interni alla lingua che ne conseguono, da un lato, e la realtà sociale da cui era circondato, dall’altro. Alla luce di questi dati, mi chiedo come si possano sottovalutare gli esordi letterari in cui hanno preso forma e vita quelle immagini poetiche che hanno dato avvio alla vocazione politica pasoliniana e che nutriranno, negli anni successivi, la sua vena polemica; come si possano trascurare gli anni in cui Pasolini scopre, nei corpi dei braccianti friulani, che amava e cantava elegiacamente, la propria tensione verso gli ultimi, premessa all’adesione al marxismo. A quegli anni appartengono anche versi come quelli della poesia scelta dal Ministero. Non basterebbe ciò a rendere estremamente interessante e significativo questo capitolo della vita di Pasolini? Nell’approccio critico a qualsiasi testo l’analisi del contesto è fondamentale, ma pretendere la conoscenza di questi dati in degli studenti dell’ultimo anno di liceo è, forse, purtroppo, utopico, dal momento che, molte volte, Pasolini a lezione viene a malapena citato. A stupirmi sono state le reazioni degli addetti al mestiere, dai quali, sì, ci si aspetterebbe un approccio critico e l’analisi del contesto di un testo, non la sua liquidazione determinata da ragioni ideologiche. In molti si sono vantati di aver tralasciato, non dico lo studio, ma anche solo la lettura della produzione poetica giovanile di Pasolini, ad esempio saltando a piè pari la sezione corrispondente nel “Meridiano” con tutte le poesie. Il che non credo faccia onore a chi ha voluto vantarsi della propria, più che legittima, ignoranza. Ma il nodo della questione, a mio vedere, sta proprio qui. La vocazione politica di Pasolini affonda le radici nella sua poetica degli anni ’40-‘50 che è stata minimizzata, denigrata, persino ridicolizzata dagli stessi che osannano il Pasolini eretico e corsaro, mostrando, così, di aver dato voce ad una lettura miope ed esclusivamente ideologica della poesia scelta, con l’esito di appiattire un intellettuale e poeta quantomai πολύτροπος ad un’unica dimensione, quella dell’eterno poeta scomodo e anticonformista, di bruciante attualità, intento a muovere critiche feroci alla società dei consumi, ai suoi dogmatismi, alla sua permissività totalitaristica. Il Pasolini di Casarsa, a mio avviso, è comunque anticonformista e scomodo, seppur in maniera diversa. La grazia, la dolcezza, l’incanto sono elementi eretici anch’essi, nella misura in cui disegnano (o disegneranno) il profilo di un’assenza e si configurano come traccia di una perdita. Inoltre, credo che il Pasolini ventenne getti un’ombra su quello futuro, non per edulcorarlo, ma per restituircene una visione senz’altro più sfuggente, talvolta contraddittoria, ma tridimensionale, approfondita e contestualizzata. La produzione dei decenni successivi risulterà essere ancora più radicale, conoscendo la misura e la portata, al tempo stesso, degli elementi di continuità e dello scarto tra momenti tanto diversi della sua carriera artistica e intellettuale.

Il presupposto delle critiche mosse alla scelta del Ministero dell’Istruzione mi sembra sia la convinzione che la poesia – segnatamente, quella di Pasolini – possa essere riconducibile ad un’unica dimensione. Senza dubbio, è quello eretico e corsaro l’aspetto più decisivo, quello che ha consegnato la memoria di Pasolini al futuro, agli studiosi, agli appassionati, ai conoscitori, ma anche ad una certa vulgata che, a mio parere, non rende giustizia alla complessità e alla stratificazione del suo pensiero, poiché tende, talvolta, a servirsi di facili slogan. Siamo abituati a vedere Pasolini esporsi nella maniera più incondizionata in ogni campo: poesia, letteratura, teatro, cinema, critica. Invece la poesia scelta ci propone un Pasolini ventenne che si ritrae e si fa piccolo davanti alla bellezza che lo sovrasta e lo ferisce. E questo infastidisce molti. Ma, mi chiedo io, sarebbe piaciuto a Pasolini sentirsi definire, come è stato fatto, “poeta tonto nella sua cameretta?” Il passo citato da Poeta delle ceneri, dal mio punto di vista lascia pochi dubbi. Potremmo notare, oltre alla grazia, quanto questi versi siano gravidi di futuro, invece di alimentare il livore; potremmo pensare, sorridendo, che nella camera di un ragazzo, di un ragazzo poeta, succedono strane alchimie: queste sono, per me, le risposte più fertili e in grado di “sabotare” una scelta che, ad una lettura superficiale e decontestualizzata, potrebbe sembrare molto comoda per la destra al potere. Chi, a destra, ha scelto questa poesia per la sua apparente innocuità evidentemente non conosce il fermento, anche politico, che iniziava a lacerare l’animo di Pasolini. Potremmo, almeno a sinistra, approfondire il contesto in cui è nata la poesia tratta da Dal diario, per collocare nel giusto spazio un’intera stagione creativa, per evidenziarne le giuste coordinate culturali, estetiche e politiche, invece di limitarci a gridare al complotto? Altrimenti, staremo assecondando il gioco della destra, che altro non è, in ultima analisi, se non il gioco dell’ignoranza, dell’assenza di disponibilità all’approfondimento, della chiusura. Tutti elementi che non potranno che dare una lettura decontestualizzata, acritica, ideologica e dunque distorta del testo. A tal proposito, lascerei la voce a Pasolini stesso, nelle vesti di didatta:

A noi sembra che almeno nelle medie inferiori (ma anche, così come stanno le cose, nei Licei) lo studio della poesia non viva che ai margini della cultura, documento ante litteram, strumento senza applicazione, testimonianza che non trova riscontro nei fatti, se fornito senza i suoi presupposti estetici, senza le sue impostazioni filologiche e prospettato molto vagamente nello spazio storico e ambientale. […] L’eco di un’umanità volta a interessi non pratici deve essere suggerita agli scolari proprio attraverso una interpretazione formale, cioè girando davanti i loro occhi, quasi con un rudimentale rallentatore, l’operazione poetica, che è sempre una metafora, un passaggio da un ordine sentimentale a un ordine verbale. […] Si vuol dare intanto allo studio della poesia un carattere critico, almeno in nuce.[18]

Lo scandalo della luna

Che fai tu, luna, in ciel? dimmi, che fai,
silenziosa luna?

La luna evocata al v. 12 ha fatto infuriare molti, suscitando scalpore. A tanto può portare lo scandalo insito in un’immagine tacciabile di intimismo, sentimentalismo, financo ottusità. Si è dato del “tonto” a Pasolini, per questo motivo, come accennavo sopra. Sarebbe stato, forse, un “Leopardi fuori tempo massimo”, come pure è stato scritto, se questo suo scrutare la luna fosse stato un gesto naïf, immediato. Invece, Pasolini aveva piena consapevolezza critica dello iato temporale tra sé e la greca Selene, o tra sé e Leopardi, come si evince dal breve scritto Da Udine a Casarsa:

Fu proprio per caso che mi voltai verso il finestrino, nel cui angolo a destra, intravidi una ben diversa compagna di viaggio: la luna. […] La luna nel disegno dei miei sentimenti sta entrando nel suo terzo stadio: il primo stadio fu quello decisamente pagano (che corrispose, o impenetrabile mistero dell’età, al periodo della mia vita più religioso: i quattordici anni). Allora la luna non era altro che Selene, e i suoi fatti erano quelli che riguardavano Endimione o Atteone: nel cielo assumeva pose statuarie, da manualetto di mitologia. L’umore che essa mi inoculava era rigido e insano, troppo caricato di seduzioni. Il secondo stadio fu leopardiano (occorre aggiungere altro?). Questo, il terzo, non ha ancora la sua definizione: ma posso senz’altro dichiararlo il più allegro di tutti. […] (In genere quando vedo la mia vecchia Selene o zitella recanatese, non mi riesce di risparmiarle uno sguardo un poco ironico. La godo ormai senza più bisogno del suo aiuto: è una gioia che io mi procuro gratuitamente, tanto più che galleggia su un humus tra esiodeo e romantico, con seduzioni di marmo neoclassico, rinnovando e lucidando alcuni periodi ben sistemati, quasi privi di temps perdu, della mia esistenza.)[19]

L’immagine della luna ricorre, infatti, in molti luoghi della prima produzione pasoliniana. Molti sono raccolti nel bellissimo libro Un paese di temporali e primule, curato dal cugino Nico Naldini, già citato più volte.

Riflessioni intorno al giovane Pasolini - MediumPoesia

Con la luna si apre anche un altro breve scritto, dal titolo alquanto significativo: Topografia sentimentale del Friuli:

La luna non mi era mai parsa così raggiante come nel centro di quell’enorme zona di cielo e di pianura. […] Questo gareggiare tranquillo tra il chiarore interno della luna e quello disperso, irrequieto dei lumi, riempiva la notte di non so che drammatico e silenzioso affanno.[20]

Anche Nico Naldini, rievocando l’estate casarsese del 1941 trascorsa come di consueto nella casa della famiglia della madre, sembra ricordarsi dell’importanza che il fantasticare sulla luna ha rivestito in quegli anni per il poeta:

Esposto per due lati al mondo campestre, da questo poggiolo di legno si può assistere all’intera carriera del sole e della luna, oppure, allungando il collo, arrivare con la vista fino ai piedi del Monte Cavallo, risalire sulle creste che si saldano in una linea continua fino ai monti della Carnia, tingendosi di vari colori, dal blu intenso al rosa più diafano, a seconda delle ore e delle stagioni.[21]

La luna è dunque elemento centrale del mito, esclusivamente poetico prima, politicamente connotato poi, del mondo e della società pre-industriale. La luna scandisce i tempi del raccolto e i suoi raggi illuminano quella topografia sentimentale che, prima di spostarsi dalle campagne friulane ai sobborghi romani, ha lasciato in Pasolini un segno profondo e duraturo.

Anche l’ultimo passo che vorrei richiamare si trova in Da Udine a Casarsa:

Ecco che d’improvviso vidi la luna rapportarsi con l’orecchino della donna addormentata di fronte a me. Che scena! La donna era calmissima, dormiva senza il minimo disgusto: la palpebra abbassata, ecco il suo sonno. […] Teneva il capo contro il legno del sedile, leggermente inclinato, e tra il mattone cotto della pelle e il carbone dei capelli, pendeva un orecchino come la punta del sandalo di un microscopico ballerino d’argento. La luna lo aveva adocchiato e lo appostava, dal quadrato nero del finestrino, appena memore dei milioni di miglia… […] E proprio lei, quella povera massaia, la luna aveva scelto: e l’aveva scelta perché era la più indifesa, la più inerme, la più bambina.[22]

Tra i diversi motivi che Pasolini eredita o costruisce intorno alla luna, vi è anche questo del suo prediligere gli umili, i miti: la luna sceglie una donna su cui convergono, tra l’altro, alcuni tratti della madre Susanna Colussi. Anche da quest’ultimo passo, dunque, emerge il forte legame tra immaginazione poetica e tensione sociale verso gli ultimi. All’origine di entrambe c’è l’affetto di cui Pasolini investe i protagonisti di questo piccolo mondo rurale, la ciclicità delle loro gioie e dei loro dolori, che è un tutt’uno con la ciclicità della natura e delle stagioni. Ma questo investimento affettivo non è esente da fratture e disillusioni, che non tarderanno molto a venire. Nel primo passo citato Pasolini riflette sui tre stadi in cui si era finora articolato il suo rapporto con questa sua interlocutrice privilegiata. Di lì a pochi anni, precisamente tra il 1950 e il 1951, raggiungerà un quarto stadio, probabilmente l’ultimo, quello dell’assoluto disincanto:

La luna vòlta agli anni in cui da un cuore
nuovo traeva più bagliori che dai vetri,
nella violenza del silenzio, quasi
silente pel dolore di vedermi
arreso, guadagna con cieca lentezza
le vecchie strade. E, ancora, qualche vetro
quaggiù ne brucia, e qualche pista
fregata dal vento, di terra nuda.
Ma è nel cielo che si ammassa, come
– perché io son stanco – fosse stanca
e delusa tutta la terra, la gran luce;
E solo il cosmo n’è investito, non più
queste nostre contrade; se un riverbero
un misero riflesso ancora ha vita
e per significare che la luna
è vòlta verso dove non c’è vita.[23]

La luna non rischiara più le creature umane, rimane “arroccata” nel cielo, la simbiosi tra ritmo umano («queste nostre contrade») e ciclo naturale (il «cosmo») è spezzata, e con lei la sua mitologia intessuta di simboli e care memorie.

Con questa breve rassegna, intendevo dimostrare che la presenza della luna nella prime poesie e nelle prime prose pasoliniane non è un mero topos letterario, un’immagine sentimentale da scialbo poeta di provincia, o da Leopardi andato a male; bensì, un’immagine che ha una sua microstoria, interna a questa produzione, con un suo sviluppo e una sua significativa fine, in corrispondenza con il crollo delle prime illusioni del giovane intellettuale. E in quanto tale, credo vada rispettata.

Conclusione

Spinto da questo dibattito, ho avuto occasione di rileggere o scoprire alcune pagine del primo Pasolini. Chi lo farà con curiosità e senza pregiudizi vi troverà, oltre ai grandi temi della maturità colti nel loro sbocciare, una sorgente di grande bellezza: se i maturandi del 2025 non torneranno ai versi pasoliniani, non sarà certo perché disgustati dalla poesia proposta, come pure è stato scritto. Si tratta di poesie o brevi prose che spesso ci ricordano qualcosa che abbiamo definitivamente dimenticato, se non addirittura rimosso: la sacralità della vita, della povertà e della mitezza. Tema caro a Pasolini, se in un celebre articolo del 1975, problematizzando il tema dell’aborto, arrivava a riflettere sulla vita e sulla nuova ideologia del consumo, costitutivamente «irreligiosa e antisentimentale», in questi termini:

Dire che la vita non è sacra, e che il sentimento è stupido, è fare un immenso favore ai produttori. E del resto è ciò che si dice far piovere sul bagnato. I nuovi italiani non sanno che farsene della sacralità, sono tutti, pragmaticamente, se non ancora nella coscienza, modernissimi; e quanto a sentimento, tendono rapidamente a liberarsene.[24]

L’impostazione di molta produzione giovanile è certamente mitica, intrisa di cristianesimo contadino, (dunque fondamentalmente pagano), ma non per questo monocorde o totalmente idealizzata. Anzi, abbiamo visto come l’attenzione alle effettive condizioni dei braccianti friulani, prima esperienza che il giovane Pasolini fece della lotta di classe, abbia preso le mosse proprio dalla soggettivazione dell’atto poetico.

Non prestando a questa produzione la giusta attenzione, tralasceremmo, inoltre, un fertile periodo di ricerca espressiva e di sperimentalismo in grado di coinvolgere tutte le arti: poesia, musica e pittura. Ad esempio, al 19441945 risale la stesura di Studi sullo stile di Bach[25], uno scritto interessantissimo in cui emerge un tema che tanto peso avrà nella riflessione successiva, cioè il contrasto tra «carne» e «cielo», tra «sensualità» e «preghiera», tra «dolcezza carnale del canto amoroso» e «acerbo canto liturgico», tra «ricadute» e «liberazioni». Presenze che portano Pasolini a scorgere nella Siciliana della Sonata in sol minore per violino solo BWV 1001 di Johann Sebastian Bach «una contraddizione umanissima». Pensiamo a quanto peso avrà la musica di Bach nella sua produzione cinematografica: a titolo di esempio, la Passione secondo Matteo ne Il Vangelo secondo Matteo e in Accattone, e i primi due Concerti Brandeburghesi sempre in Accattone. Il che si ricollega al tema della sacralità della vita precedentemente evocato: la presenza del coro finale della Passione secondo Matteo di Bach durante la rissa nella borgata eleva Accattone alla dignità di Cristo.

Penso che una delle cause per cui molti hanno opposto resistenza alla poesia scelta per l’Esame di Stato sia la riluttanza ad accettare la tremenda innocenza di Pasolini, la castità della sua veemenza, la sua tagliente, irriducibile dolcezza. A volte ci farebbe bene ricordare cosa leggesse Pasolini negli occhi ridenti di Ninetto, o nell’umile selciato della stradina che sale verso la porta di San Cesareo di Orte. Ma per comprendere sino in fondo, per compiere questo atto d’amore verso la sua opera, bisognerebbe, credo, essere disponibili ad accettare le ambiguità e i chiaroscuri di Pasolini – come di qualsiasi altro autore – e non fargli dire quello che ci piacerebbe che dicesse. Altrimenti, così facendo prevale l’ego di chi vuole solamente ricevere conferme. Il rischio è di tornare a una nuova distinzione tra “poesia” e “non poesia”, di imporre alla poesia un “dover essere”, di appiattirla su un’unica dimensione. La poesia è invece emblema della pluralità, dal momento che la realtà può essere detta in tanti modi e non deve essere oggetto di una reductio ad unum, se si vuole che a parlare non sia l’ideologia del lettore, ma il testo.

Il testo è tutto il nostro bene; nessuna nostra escogitazione per quanto brillante o suggestiva può valere e significare di più del testo nella sua maestà. Questa maestà coincide con la verità, che è nostro dovere perseguire con impegno, nel testo e ovunque. Potrebbe essere questo il primo comandamento in una specie di giuramento di Ippocrate dei critici letterari. [26]

Bibliografia e sitografia

G. DISTEFANO, C. GEMEI, G. PISA, Cercando Pasolini…Trent’anni dopo, Napoli, La città del sole, 2006.
P. P. PASOLINI, La nuova gioventù. Poesie friulane 1941-1974, Milano, Garzanti, 2016.
P. P. PASOLINI, Le belle bandiere, Roma, Editori Riuniti, 1977.
P. P. PASOLINI, Le poesie, Milano, Garzanti, 1975.
P. P. PASOLINI, Saggi sulla letteratura e sull’arte, a cura di W. Siti e di S. De Laude, Mondadori, Milano 1999, 2 voll.
P. P. PASOLINI, Saggi sulla politica e sulla società, a cura di W. Siti e S. De Laude, Milano, Mondadori, 1999.
P. P. PASOLINI, Scritti corsari, Milano, Garzanti, 2019.
P. P. PASOLINI, Tutte le poesie, a cura di G. Chiarcossi e W. Siti, Milano, Garzanti, 1996, vol. 4, Poesie inedite.
P. P. PASOLINI, Un paese di temporali e di primule, a cura di N. Naldini, Parma, Teadue, 1995.
C. SEGRE, Ritorno alla critica, Torino, Einaudi, 2001.

https://www.italianisti.it/pubblicazioni/atti-di-congresso/natura-societa-letteratura

https://www.pasolinifriuli.it/opera/dal-diario-1945-1947

Note

[1]P. P. PASOLINI, Le belle bandiere, Roma, Editori Riuniti, 1977, pp. 207-208.

[2]Traggo questa espressione da A Casarsa nasceva, un giorno, il sole, poesia introduttiva alla raccolta Via degli amori, 1946, ora in Tutte le poesie di P. P. Pasolini, a cura di G. Chiarcossi e W. Siti, Milano, Garzanti, 1996, vol. 4, Poesie inedite.

[3]P. P. PASOLINI, La nuova gioventù. Poesie friulane 1941-1974, Milano, Garzanti, 2016, p. 283.

[4]Ibid.

[5]Locuzione provenzale con cui s’intende il lamento.

[6]P. P. PASOLINI, La nuova gioventù, cit., p. 283.

[7]Ibid.

[8]P. P. PASOLINI, La nuova gioventù, cit., pp. 283-284.

[9]Vedi A. VIOLA, Un topos militante: mondo contadino friulano e impegno politico nell’attività poetico-letteraria del primo Pasolini (1942-1950), in Natura Società Letteratura, Atti del XXII Congresso dell’ADI – Associazione degli Italianisti (Bologna, 13-15 settembre 2018), a cura di A. Campana e F. Giunta, Roma, Adi editore, 2020.

[10]P. P. PASOLINI, Un paese di temporali e di primule, a cura di N. Naldini, Parma, Teadue, 1995, p. 30, p. 34.

[11]Lettera citata in P. P. PASOLINI, Un paese di temporali e di primule, cit., p. 86.

[12]P. P. PASOLINI, Gli angeli distratti, in «Libertà», 19 aprile 1947, ora in P. P. PASOLINI, Un paese di temporali e di primule, cit., p. 125.

[13]P. P. PASOLINI, Sandro Penna: «Un po’ di febbre», «Tempo», 10 giugno 1973, ora in P. P. PASOLINI, Scritti corsari, Milano, Garzanti, 2019, p. 146.

[14]A. VIOLA, Un topos militante: mondo contadino friulano e impegno politico nell’attività poetico-letteraria del primo Pasolini (1942-1950), cit., p. 1.

[15]P.P. PASOLINI, Pasolini su Pasolini. Conversazioni con Jon Halliday (1969), in Saggi sulla politica e sulla società, a cura di W. Siti e S. De Laude, Milano, Mondadori, 1999, pp. 1291-2. Il grassetto è mio.

[16]P.P. PASOLINI, Saggi sulla politica e sulla società, cit., p. 1582, originariamente pubblicato in F. CAMON, Il mestiere di poeta, Milano, Garzanti, 1982. Il grassetto è mio.

[17]P.P. PASOLINI, Il sogno del centauro, ivi, 1416. Il grassetto è mio.

[18]P. P. PASOLINI, Poesia nella scuola, in «Il Mattino del Popolo», 4 luglio 1948, ora in P. P. PASOLINI, Un paese di temporali e di primule, cit., pp. 280-281.

[19]P. P. PASOLINI, Da Udine a Casarsa, in «Il Mattino del Popolo», 8 novembre 1947, ivi, pp. 137-138.

[20]P. P. PASOLINI, Topografia sentimentale del Friuli, in «Avanti col brun!», Udine, 1948, ivi, p. 155.

[21]P. P. PASOLINI, ivi, p. 29.

[22]P. P. PASOLINI, Da Udine a Casarsa, cit., p. 139.

[23]P. P. PASOLINI, Poesie inedite (1950-1951), n°6, in P. P. PASOLINI, Le poesie, Milano, Garzanti, 1975, p. 758.

[24]P. P. PASOLINI, Non aver paura di avere un cuore in Tribuna aperta, sul «Corriere della sera», sabato 1° marzo 1975, p.2, poi in Scritti corsari, Milano, Garzanti, 1975, p.127.

[25]P. P. PASOLINI, Studi sullo stile di Bach [1944-45], in Saggi sulla letteratura e sull’arte, a cura di W. Siti e di S. De Laude, Mondadori, Milano 1999, vol.I, pp.77-90.

[26] C. SEGRE, Ritorno alla critica, Torino, Einaudi, 2001, p. 99.




La seconda metà del suo animale. Su “La coda del pavone” di Franco Buffoni

Tredici anni dopo il volume Poesie 1975-2012, ormai indisponibile, Mondadori pubblica una seconda edizione antologica della poesia di Franco Buffoni. Il volume è nuovamente aperto da uno scavo critico di Massimo Gezzi – che già nell’edizione del ’12 ricostruiva, segmento per segmento, il tragitto della sua opera. Quest’ultima è adesso ampliata da un corpo ulteriore: La coda del pavone.

L’azione di innesto inedito nel volume complessivo riporta inevitabilmente la memoria a La materia prima di Biancamaria Frabotta, apparsa nel solo Oscar Mondadori del 2018 e, poi, mai in volume proprio. Per Frabotta, come per Buffoni, questa operazione di aggiunta cadeva sotto il cono di luce del raggiungimento di una profonda organicità stilistica. Una conferma del cammino estetico, proprio nella sede in cui il corpo espanso della voce poetica si mostra più empiricamente (editorialmente) coeso.
Come per l’antecedente della poeta, Buffoni inserisce quindi in chiusura delle Poesie 1975-2025 un segmento che non sconvolge l’ordine prospettico già inaugurato dal precedente Betelgeuse e altre poesie scientifiche (Mondadori, 2021) – come rileva Gezzi.

Sin dal titolo, il libro inedito che chiude questo Specchio conferma che Buffoni negli ultimi anni ha aperto un nuovo ciclo che potremmo definire scientifico: «se […] in Betelgeuse mi sono annullato nell’infinitamente piccolo e nell’incommensurabilmente espanso», leggiamo nella nota finale, «qui […] mi sono concentrato sul mondo animale in prospettiva ‘cyborg’».
Un legame evidente – che tuttavia poggia su una virata sottocutanea significativa.
L’interesse per l’etologia, conquistato nel tempo, era già emerso in varie zone dell’opera di Buffoni […] Eppure, nella Coda del pavone gli animali sono anche e soprattutto vittime della crudeltà umana: che siano trote dalle fauci squarciate lasciate a boccheggiare nel retino da pesca, uccellini accecati da un mercante perché cantino più forte, la cagnetta Laika «Nata nel 54 e sparata in cielo viva dai sovietici nel 57», o ancora castori in fuga dall’essere umano «Pronto a infilargli un elettrodo nel culo / Per non sciupargli la pelliccia», i crimini verso gli animali compongono un elenco raccapricciante che getta una luce sinistra sulla «bestia d’uomo», ovvero sui sapiens sapiens.

Il dolore non è astratto da una parallasse morale. I fenomeni che screziano e massacrano gli orizzonti di vita animale e vegetale non sono ricordati (tradotti in verso) come parte di una casistica astratta, ma di un discorso civile. Non che Buffoni cerchi di attribuire loro un significato, o che li collochi nella traiettoria di un martirio – tendente alla trascendenza: essi non hanno alcun ‘Senso’.
Così come il topo kafkiano, divorato dal gatto nel pieno dell’elucubrazione isterica, il poeta presenta un baratro de-significato. Ne descrive i movimenti, le evoluzioni, lo contestualizza sul piano geografico, matematico, politico – storico perfino. Si pone, la voce di Buffoni, come camera d’eco: tiresiaco osservatore (cieco) dell’accadere fenomenico, il poeta è ai margini di un flusso materiale. Soprattutto, indugia sui corpi.

In basso sta la bestia terrorizzata,
Destinata a far girare la ruota,
In alto il principe di Biancaneve
Che mentre vola sul suo cavallo bianco
Non si accorge di affondare gli speroni.
Rossa di sangue infine giunge a meta
La seconda metà del suo animale.

Le figure antropologiche, culturalizzate da una tradizione occidentale specista e sessista, sono contestualizzate in una rete estesa alle relazioni con ciò che non è umano. La «bestia» della figurazione dantesca (Inf. VI) non latra ma trema. Il principe non salva ma uccide – animale anch’egli, per quanto inconsapevole. Il raggiungimento di Buffoni (siamo sulla Coda, d’altronde) è quindi privo di consolazione: la sostanza non reca alcun riscatto dalla sofferenza. In questo, ancora, colpisce il parallelo con Frabotta – che passava, nella raccolta aggiunta al proprio volume collettivo, da una mortalità portata da «mani» a una tragedia iscritta nelle molecole stesse dell’esistente. Leggiamo in Buffoni:

Chissà, se ridevano, come ridevano
E quando impararono a ridere,
Se lo chiedeva Bataille in Lascaux
Associando con certezza riso e arte.
In seguito fu Villa a dichiarare
Che l’esperienza assoluta
Del primo vivente è l’assassinio:
Uccidere come ferire
Entrare penetrare estrarre sviscerare espellere.

In principio non il riso – ma la morte: l’omicidio cainico, traslato come categoria antropologica. Per estensione, afferma implicitamente Buffoni, Abele non è quindi diverso da un alce irlandese estinto – da una «bestia» spezzata. I processi di morte sono iscritti nell’«esperienza assoluta», quella a cui Cioran dedicava un passaggio di straordinaria profondità in Al culmine della disperazione, nei termini di «lirismo assoluto»: momento in cui «l’espressione si confonde con la realtà, è tutto, diventa un’ipostasi dell’essere». Totalità incarnata nel gesto – tanto di morte, quanto di scrittura poetica, assoluto e privato insieme. È d’altronde proprio Bataille a ricordare che c’è un abisso tra un dato oggettivo che ci raffigura la necessità della morte connessa con la sovrabbondanza e il vertiginoso turbamento introdotto nell’uomo dalla conoscenza interiore della morte. Tale turbamento, legato alla pletora dell’attività sessuale, determina un profondo smarrimento.
L’assoluto della morte fenomenica (la particolarità della sua declinazione crudele, eteromaschile) si incarna nell’opera attraverso il canale del corpo. Soggettivo, biograficamente individuato: Buffoni basa la sua composizione sulla specificità di un vissuto. Nella raccolta si alternano così frammenti diaristici, riflessioni critiche, riferimenti alla storia e alle morti personali.

Le divinità indù
Volte a Kamadhenu
La vacca che realizza i desideri.
Come quella di Keats
Nell’ode sopra un’urna greca.
Me la chiese Raboni nell’ottanta
Mentre Jucci stava morendo:
Chi sono questi che vanno al sacrificio?















L’accordo stilistico abolisce la gerarchia tra l’universale e il particolare. Il processo di osservazione (con Gezzi, scientifica) focalizza orizzonti allargati e minimi: crea un contesto in cui l’incidenza emotiva è depotenziata su entrambi i fronti. La tragedia implicita all’esistenza fenomenica non è per il poeta motivo di sconvolgimento. E tuttavia, in linea con il suo cammino poetico, questo aspetto non spegne una silenziosa (assordante) condanna delle cause: delle azioni che stanno dietro la tragedia stessa. Lo sguardo del poeta è per Buffoni un atto di memoria – la stessa che nel precedente Betelgeuse accomunava il minerale della «crioconite» ai «polmoni degli ex fumatori» (ancora, nel sinolo, la materia e la persona).

Oltre che come motivo di organicità stilistica, che attraversa con forza evidente l’arco 1975-2025, questo aspetto pone Buffoni in linea con la tradizione (critica e intellettuale) della letteratura queer italiana – che proprio negli anni del suo esordio muoveva i primi significativi passi. Pensiamo in questo senso all’opera poetica di Dario Bellezza o all’azione politica del F. U. O. R. I. (Fronte Unitario Omosessuale Rivoluzionario Italiano), tra i tanti esempi possibili per collocare l’origine di una spinta prospettiva mai disattesa, dal poeta, negli ultimi cinquant’anni. Alla luce di questo cammino, e della progressiva conquista di immediatezza dichiarativa rispetto alle istanze dell’attivismo omosessuale degli anni Settanta, La coda del pavone appare come parte di un tracciato focale unico.
Non stupisce, per questo, come nella raccolta l’autore guardi tanto ai cambiamenti sociali del suo tempo, quanto alle ripetizioni infinite dei cicli animali e vegetali, come alla conferma di un unico principio di decostruzione.

E oggi che mi trovo a ragionare
Di machine learning e reti neurali
Provo adulte fitte di rimpianto
Per le certezze di mio padre:
Ciò che nell’uomo
Dell’animale è il segno
È la sua natura mortale.
Ciò che lo trascende è la parola.

A fronte della caducità ineliminabilmente (con Bataille) connaturata all’essere-in-vita, della ritrosia epocale della fiducia nel sacro, la parola poetica resta il solo punto di trascendenza possibile. Il declinare delle certezze (le stesse dell’omofobia e dell’oppressione delle minoranze sociali) è osservato da Buffoni come parte di una controprova naturale – ancora: quella della morte imperante. Già in Quaranta a quindici (1987) scriveva:

Schiavi da battere e impiccare
Terapie di confessioni
E varie opere minori della morte.
Il Signore aveva il volto medico
Il volto di mio padre.

Paradossalmente è proprio per questo che La coda del pavone, nelle parole di Gezzi, «si rifiuta di configurarsi come un approdo definitivo e come una tesi unilaterale». Il principio della poesia come argine trascendente della morte biologica ha infatti in sé un punto di auto-negazione – un cavallo di Troia che Buffoni inserisce nel suo stesso libro. Ogni cosa è materia, e nella materia è il crollo: la parola poetica non ne è esente.

Laddove anche le vie d’uscita offerte dalla mineralizzazione primonovecentesca sono ormai negate dalla corrosione antropologica (la «crioconite» permane radioattiva), e laddove quindi anche i tentativi di rendersi cosa tra le cose non sono più praticabili, cosa resta da fare? A fronte di questa domanda, sembra che nella raccolta Buffoni metta il lettore davanti a un bivio: da un lato il ritrarsi in un silenzio vegetale, transumano – spegnere la voce e la prospettiva; dall’altro, la rinascita di una tenerezza bambina. Davanti al bivio, il poeta lo lascia. Dichiara in chiusura che la «mise en abyme di questo libro» non è altro che una cognizione gaddiana: dopo il trauma «il vecchio corpo rimane com’era».




Maria Borio, “L’altro limite con inediti” – Introduzione di Stefano Bottero

Quasi novant’anni fa, André Breton definiva i parametri del processo creativo surrealista indicando la necessità di «prendere in considerazione» un certo oggetto «proprio a causa del dubbio che può sorgere sulla sua destinazione». Come appare chiaro ai critici e agli intellettuali d’avanguardia già negli anni Cinquanta, questo comporta in larga parte una deviazione: la ridefinizione valoriale del significante. Dando alle componenti dell’oggetto una designazione nuova, nel Novecento, gli artisti iniziano ad accettare il rogo della precedente. E questo perché, come ricorda Jean-Luc Nancy guardando – nello specifico – alla componente d’immagine dell’oggetto d’arte, essa è «un’evidenza»: è «l’evidenza del distinto, la sua stessa distinzione». L’immagine, scrive Nancy, esiste in quanto distinta: attraversando il processo di deviazione dei significati, l’oggetto d’arte afferma una differenza che lo distingue non solo dal resto sociale, ma da sé medesimo. Non propriamente da ciò che è stata, ma da ciò che poteva essere l’opera stessa.

Questo concetto si radica e agisce nel contesto della poesia contemporanea italiana su due livelli. Il primo riguarda una genealogia: innesca i processi di cambiamento che sconvolgono, a partire dagli anni Settanta, la prassi del dare posto alla voce del soggetto (dell’Io) nel testo. Quando Vittorio Reta scrive, nel 1977, che «il rapporto tra i due relata del segno è qualcosa che nega il numero» (riassumendo in un verso solo il suo stesso decennio – come si rende conto Sanguineti, dopo il suo suicidio), aggiunge due specificazioni: che avviene «ora», e che tale rapporto «si basa su notizie di seconda mano».

Perché quanto ha detto poc’anzi accada, specifica infatti il poeta, due funzioni rivoluzionarie si introducono nella composizione. La prima è totalmente deittica, riguarda l’hic et nunc, quello che siamo adesso nel rapportarci al testo – la nostra incapacità di riaffermare il senso numerico, valoriale, della sua significazione. La seconda funzione descrive, invece, questo ora come un tempo di mediazione: stringere un legame immediato con il segno, avviluppare ad esso la nostra disperazione demandandogli salvezza, è ormai diventato impossibile. Già cinquant’anni fa (quaranta dopo Breton), alcuni autori – De Angelis, Frabotta, Bellezza, Reta, Rosselli, Spatola – osservano questo fatto come la cifra del loro tempo.

Il secondo livello riguarda il presente – almeno, nel senso che si attribuisce a questa parola tra le sale di un osservatorio. Provando a tracciare una linea storiografica a proposito del progressivo ridursi della gravità sacerdotale del lessico poetico nel contemporaneo, e partendo dall’archetipo di Gozzano, si arriva in ultima battuta alla lezione di Guido Mazzoni ne La pura superficie: un libro che, in un certo senso, apre alla iper-contemporaneità poetica. I versi di Mazzoni portano le istanze stesse della riduzione a un grado ultimo: la ricerca di una parola aderente ai livelli minimi del dire, trasfigurata nell’asettico di una soggettività non annientata, ma colta nella propria deviazione, offre l’ansa formale in cui si posiziona un oggetto d’arte (verbale) privo di destinazione eteronormata. Libero, in altre parole, dalla significazione valoriale di sé. Questo comporta, così, la possibilità di dare una collocazione nuova alle componenti interne all’oggetto – non soppresse, ma ridestinate. Ancora con Reta: «non è una perversione dell’istinto / ma quella disperata affermazione».

Il caso della ripubblicazione de L’altro limite, rispetto a tutto questo, è emblematico. Ancora nel senso dell’osservatorio, il passaggio dalla prima edizione del 2017 a quella del 2024 risalta come cartina tornasole i processi di deviazione di cui sopra – per Borio: sempre più ingenti. Lo si osserva a partire dal primo verso (come sempre accade): a «Soppesi la mia vocazione» succede nella presente edizione «Mi sembra strano in questo giorno». La distanza verticale tra l’Io scrivente e l’Io scritto, tirannico, valutante, è tradotta nella dichiarazione dello sfasamento avvenuto: qui e ora, tutto questo (questo preciso questo) è strano. L’autoevidenza di Nancy viene così eletta a categoria fondante: lo scarto che accade nella distinzione – quello che realizza l’immagine come tale – prende il posto dell’afferenza di campo culturale. A un originale aggrapparsi all’altro, alla valutatività intrinseca al posizionarsi nella sequenza valoriale, Borio sostituisce un explicit.

Questo discorso, per l’autrice, riguarda in larga parte il dato della soggettività poetica. Quale posto occupa il proprio Io singolare, inquadrato identitariamente, quando la destinazione stessa dell’oggetto d’arte è quella della deviazione? Dove situare la propria voce nell’oggetto, se l’oggetto nega l’esistenza del proprio come categoria? Per quanto frutto di un’astrazione teorica, si tratta di una questione fondamentale per comprendere cosa e perché è cambiato in questo libro. Guardare all’opera intellettuale di Borio, oltre che poetica, può aiutare a identificare alcune delle ragioni che soggiacciono a tutto ciò.

Uno spunto arriva dalla sua focalizzazione sul tema della trasparenza – che avrebbe dato il titolo, un anno dopo la pubblicazione de L’altro limite, alla sua raccolta uscita per Interlinea. In un intervento su Ultima (pubblicazione d’arte a tiratura limitata, uscita due anni dopo), Borio torna sul concetto:

C’è una concezione storica e una antropologica del ritmo. Per la prima, esso rimanda a un’idea di rapporto tra una continuità rispetto a una discontinuità, come il ritmo del battito cardiaco o il movimento delle maree, che con Platone è stato codificato in un’unità di misurazione. Nella concezione antropologica, invece, il ritmo è il complesso armonico con cui il pensiero del soggetto articola il linguaggio. È la poesia dell’esperienza come attività conoscitiva che attraverso il ritmo del suo discorso unisce il senso – quello che dicono le parole – a una forza […]. Il soggetto della poesia unisce il linguaggio e la vita attraverso i rapporti di pensiero e emozione, collegando l’io e le cose, in un sistema ritmico; così trova la sua storicità e il suo essere sociale. Nel ritmo la conoscenza della poesia è empatia dell’esperienza… // …una scrittura che assomigli alla liquidità dell’acqua, dove un’onda si incastra con l’altra, dove un piano scorre nell’altro. Una scrittura come spazio fluido di relazioni, dove una piccola vita si immette in rapporto al mondo.

La trasparenza, in tutto questo, è il canale: l’argine che trafora la singolarità per condurla alle onde. Una sorta di salvacondotto – che, senza demandarci l’annichilimento, ci porta come spettatori al mare magnum della spersonalizzazione sociale. Non una condizione, ma una funzione. Tramite questa imboccatura le due dimensioni del ritmo trovano un punto di incontro, si annodano, si accordano. Il «soggetto della poesia», per Borio, reca in sé la possibilità del nodo: la trasmette all’opera, nella scelta di una scrittura non sbilanciata dall’una o dall’altra parte. Non nel soggetto, ma del soggetto. Non della vita, ma nella vita.

Il riferimento alla liquidità, in conclusione, costituisce la cifra estetica che rende conto di entrambi questi parametri. Da un lato forma un’immagine discorsiva rivolta a un’essenzialità primigenia, de-antropomorfizzata; dall’altro, si immerge nell’umano radicale, intercettando una tensione filosofica, sessuale, ideologica, sociale, culturale e morale centrale per il nostro tempo. Ancora, in essa, la trasparenza: la possibilità di un passaggio che restituisce il dato all’autentico, attraverso un processo di deformazione.

La distorsione che il liquido impone, nella sua paradossalità specchiale, incide a livello formale. Interessa i particolari, la metrica, il lessico, la verticalità perfino, dell’oggetto poetico. Secondo la lezione di Timothy Morton, si tratta del monito impresso negli specchietti retrovisori: «Gli oggetti nello specchio sono più vicini di quanto appaiano». Oltre la superficie, attraverso il passaggio di stato che si verifica nella scrittura poetica (dall’Io al testo), si osservano i segni di una deformazione inevitabile – nello specifico della scrittura di Borio: di duchampiana memoria. Così, in questo libro leggiamo:

In quel cosa forse niente di vero, le nostre idee
che lui ha spigolato, innocente per un peccato

senza rimorso. Riporta aria nei polmoni

– dove non sente non pensa.

Dove le coordinate del soggetto gli garantiscono uno spazio estetico, lì le possibilità di farsi liquido – distorto dalla deviazione – spalancano il testo al suo essere poesia. La condizione dell’Io determina la sua azione formale, nel solco di una nuova atarassia soggettiva: annullarsi, per non annullare la forma. Operare uno scarto tra la vitalità prima della disperazione singolare, per trovare un ritmo nuovo – una nuova innocenza, una nuova assenza di rimorso. Le espressioni apparentemente liriche di Borio sono quindi dotate di vita nuova, perché basate sul raccoglimento di due diversi ritmi. Così, non scompaiono l’Io e il tu, la ritrazione del dolore, il crollo dell’intimità ferita da un fenomeno estrinseco – come secondo la dimensione petrarchesca dello scrivere versi. Eppure, deformati, questi elementi non riguardano più il sé: non sono più parola, ma liquidità di parola.

I punti di variantistica tra l’edizione del 2017 de L’altro limite e la presente non sono difficili da individuare. Alla luce di tutto questo, tuttavia, la lettura comparata dei due testi pone una questione di non facile risoluzione – proprio perché affonda le sue radici nella concezione (extra-testuale) di soggetto (nel testo). In altre parole: il punto di svolta, in queste due lezioni, non è dato tanto dalla caratura formale, dalla capacità tagliare questo o quel legamento verbale, ma dalla ratio che ne muove l’inciso. L’integrazione di una numerazione poematica, che limita il protagonismo della soggettività parlante, quindi, non sorprende: non più un ‘qui dico’ / ‘qui dico’ / ‘qui dico’ – ma ‘è detto’. Ovunque, nello spazio liquido.

Ancora, non meraviglia la nuova attribuzione di centralità all’aspetto acquatico della focalizzazione estetica. Alla specificità materica (empirica) della versificazione, di sereniana memoria, Borio sostituisce adesso un contesto di mobilità organica: non un ‘io sono’, ma un ‘io siamo’.

Siamo a un filo dall’acqua
e lì scivolano le facce e le epoche,

la nostra è lo schermo bianco del telescopio Webb:
la fotografia della luce, la distanza

Coerente con tutto questo, in ultima battuta, risulta l’integrazione di un punto focale nuovo sul dato animale. Adottando un principio di delocalizzazione del soggetto, per una coordinazione nuova dell’atto verbale, il contesto ontologico è allargato a un’alterità ferina – vicina a una sensibilità (ancora) topicamente contemporanea. È questo il caso della volpe, che Borio immette nel cosmo de L’altro limite come una presenza spogliata dalle stratificazioni allegoriche. Un movimento, il suo, che non avviene per rappresentare – ma per una paradossale idiozia sensibile, più preziosa di tutto.

Questa è un’isola al centro di un piccolo lago al centro
di un paese affilato al centro chiuso di un mare:

sembra una testa vista di spalle o un pugno –
la volpe corre veloce dentro la luna

e altrove:

Fratello del lago, sperma nell’acqua.
Sorella dei lucci, unione di elementi.

Siamo fermi adesso, ipnotizzati dalla volpe,
dalla densità della luna, dalle rughe degli ulivi.

Qui non si conoscono limiti.

Senza malinconia, l’osservazione del comportamento misterico dell’ulteriorità animale è fonte, per il soggetto scrivente, di ritrazione nuova. Davanti alla volpe, un ulteriore invito alla delocalizzazione del sé – in funzione del fatto che i limiti, la gabbia, sono saltati.

Considerare nuovamente il versante intellettuale dell’attività letteraria di Borio fornisce, a questo proposito, uno spunto interpretativo. È infatti possibile guardare all’isola – così come alla situazione descritta – nel riflesso delle sue presenze come organizzatrice del festival internazionale Poesiaeuropa (annuale, alla sesta edizione), che offre oggi uno dei momenti di incontro più significativi per la comunità poetica italiana.

Il riferimento a queste connessioni extra-testuali non è tuttavia utile per interpretare il testo a livello del suo senso – dal momento che, come si è detto, questo è demandato a un processo di sfasatura. E che anzi: nella deviazione come principio collettivo-presente basa la sua ragione creativa. Al contrario, la presenza sfrangiata di coordinate empiricamente identificabili restituisce il senso di uno scarto avvenuto – laddove a differenza della prima edizione de L’altro limite, l’autrice tende adesso all’annegamento di queste ultime. Sfogliandone le pagine, incontriamo un poemetto che tematizza la labilità dell’essere corpo, soggetto, persona singolare. Il punto di vista è orientato dal «dubbio», già surrealista, sulla «destinazione» stessa dell’atto. Non è quindi un testo, quello di Borio, che restituisce uno sguardo sul mondo, ma la saturazione dello sguardo stesso – come secondo la conclusione: fino a «uscire dalla luce, rientrare in noi». Non più in un me, ormai.

Stefano Bottero

1. IDEE

Il maestro scriveva il compito e lo imparavamo:
molte idee, animali sulle mani –
poche idee, esercizi sempre uguali.
Le idee poi non c’erano più, ma nel voto stampato
tutto quello che pensavamo e sentivamo
– un colpo secco, automatico.
Le idee si vedono lontanissime: cosa sono diventate?
In quel cosa forse niente di vero, le nostre idee
che lui ha spigolato, innocente per un peccato
senza rimorso… Riporta aria nei polmoni
– dove non sente non pensa.

4. LA SCATOLA

Immaginami come un’idea primaria:
intus et in cute, interiormente e dentro la pelle
scriveva Persio – sottovoce “finalmente!”.
E non scommettere ancora
nel tizio o nel caio per cui il cuore batteva,
il geco intrappolato in una scatola.
La mia ha fori che ho fatto con i denti –
da lì spio le persone e mi dimentico di me.
Spesso il vento la fa tremare –
qualcuno potrebbe accorgersi
“finalmente!” – trascinarmi allo scoperto.

Maria Borio, L’altro limite con inediti (Pellegrini, 2024)




Abitare l’assenza. Su Animali selvatici vaganti di Lorenzo Chiereghin

Poco più di un anno fa, nel febbraio del 2023, se ne andava il grande poeta Giampiero Neri. Tra gli interlocutori dei suoi ultimi anni c’era anche Lorenzo Chiereghin, milanese classe 1974 che Neri apprezzava come «una delle voci più interessanti e riconoscibili della nuova poesia italiana». L’attestato di stima proviene dalla prefazione a Previsioni sull’arrivo del caos (Nulla Die 2021), che si trova a stretto contatto con la nuova raccolta Animali selvatici vaganti (Nulla Die 2024); Chiereghin, infatti, prosegue e muta di prospettiva la condizione di reclusione esistenziale attorno a cui si sviluppava lo scorso libro e il confronto tra le due sillogi permette di chiarire il valore del riconoscimento neriano.

Se nelle Previsioni regnava un pessimismo catastrofico, con la conseguente spinta all’evasione – «Questa deriva è una fortezza / invisibile che ci tiene ancora / prigionieri. Nessuna fuga / dal mondo ci è concessa / nessun ricovero dentro l’orbita / celeste di uno sguardo», p. 48 –, qui a prevalere sono l’indeterminatezza e l’assenza (delle quali la testimonianza più significativa viene dalla particella negativa «non», impiegata in abbondanza). Il pessimismo è dunque declinato in una dimensione nichilista («E io non sono più niente», p. 59), dove la catastrofe preventivata nel libro precedente si concretizza in uno scenario post-apocalittico in cui l’apocalissi non ha nulla di fantascientifico e partecipa piuttosto dell’avvilente banalità cittadina.

Solo adesso mi rendo conto
che ho sempre vissuto
in un mondo sommerso,
con l’imminenza della fuga
addosso, come un prigioniero
schivo e indolente, vestito
di stracci, che ignora persino
la colpa da cui sta fuggendo. (p. 28)

È nella natura che l’io poetico trova il motore per reagire a quella «condizione di inattualità» che già Neri rilevava come caratteristica dell’autore: un «segreto bisogno di altitudine» (p. 19) che eleva il paesaggio montano a oggetto dei suoi desideri: i crinali dei monti («unico azzardo che ora mi concedo», p. 25) rapiscono il suo sguardo facendosi orizzonte capace di procurare un temporaneo sollievo dalla quotidiana disperazione urbana. Il grigiore e la piattezza che permeano Animali selvatici vaganti, infatti, non sono meno insidiosi del pericolo catastrofico paventato in precedenza: la monotona stabilità che si viene a creare nella routine cittadina è ancora più diabolica dell’inferno temuto. E le bestie erranti del titolo – chiosa l’autore nell’avvertenza introduttiva – altro non sono che i poeti, in fuga da questo piattume vuoto e senza senso verso diversi orizzonti d’attesa.

Il ricorso alla natura, espresso in varie forme animali e vegetali, potrebbe indurre a pensare che Chiereghin faccia un utilizzo ingenuo di temi e codici iperinflazionati quali potrebbero essere quelli propri di un topos edenico. Tuttavia questa dimensione in potenza ancestrale è attraversata da lampi di quotidianità e riferimenti a una sfera più mondana che allontanano il discorso da un orizzonte anacronisticamente panico (distanza evidenziata inoltre dalla pronuncia ponderata, non urlata né entusiastica, della voce poetante). Può apparire contraddittoria la densità di occasioni e riferimenti concreti – pur carenti rispetto al passato – in un libro che tematizza l’assenza, ma è chiaro come questa si configuri come un’inconsistenza esistenziale più che fisica.

Si ha così un’assolutezza che non disdegna lo sporcarsi le mani col mondo concreto (la villeggiatura, le incombenze genitoriali, i propri affetti, le strade, il cortile domestico, i vicini sul balcone): stimoli provenienti da quello squallore provinciale che compone l’ambientazione tipica della produzione dell’autore. Questo alone di indefinitezza quasi astorica è quindi situato in un qui-e-ora determinato, che talvolta prende concreta fisionomia in figure e situazioni del mondo fenomenico: «È la tromba / di Chet Baker […]» (p. 60); «Alla fine, decidi di aprire l’antologia / di quel poeta irlandese a cui molti anni fa / assegnarono il premio Nobel» (p. 81). C’è, insomma, la tensione tra la spinta verso un altrove vagheggiato come salvifico e un inevitabile richiamo dal mondo empirico, che spesso danna e solo a volte lascia intravedere vie di fuga o di salvezza.

Finalmente decidi di perderti
nel frastuono che fanno le parole
troncate sul nascere e allora corri
verso l’assedio di tutti gli sguardi
possibili attratto dalla parvenza
di una voce remota e inviolabile
che rinsalda il tuo bisogno di rivolta
e ti fermi sotto le fragili arcate
della pioggia che scuote i portoni
delle case solo per qualche istante. (p. 83)

Nella riflessione di Chiereghin la caducità dell’uomo pare riscattabile solamente dal poeta, che si costruisce la speranza di «un risveglio / ancestrale, un ultimo slancio silente / che mi sveli le palpebre del mondo» (p. 56). Ma sono pochi gli impulsi compiutamente positivi che da questa derivano, accolti con disillusione e senza riserve ironiche («e questa lieve brezza / mi sussurra che il mattino radioso / è spuntato sul mondo», p. 17; «[…] un bozzolo disabitato / in cui per qualche istante / la vita ha irradiato il suo mistero», p. 24).

Quella del poeta «aggrappato a quell’ultimo / verso che ancora non c’è» (p. 161) è una fuga solitaria, che a prima vista può apparire connotata da un’altezzosità propria dell’intellettuale che si vuole distinguere; ma che in realtà è lo scarto di chi vuole andare oltre la superficialità, «Smetterla di addentrarsi nelle cose / ordinarie, nei loro futili labirinti / di felicità mercantile, tirarsi / fuori dai discorsi più arrendevoli, / dalle domande vuote […]» (p. 76). Non mancano riflessioni sullo statuto del poeta, anche se la metaletterarietà è meno autoriferita rispetto al passato: a differenza delle scorse raccolte, abolisce del tutto le prose esplicitamente autobiografiche che era solito intercalare ai testi in versi.

Vaga il poeta alla ricerca
di un appiglio, si ancora
alle fauci della notte
accettando il rischio di essere
divorato. Ne trae ancora
qualche parola acuminata
come il suo slancio. (p. 39)

C’è, di fondo, un’apertura verso il futuro fondamentale per sfuggire all’oblio, «convinti che in fondo / scrivere sia il più efficace rimedio / per illudersi di restare» (p. 91), insieme al recupero memoriale di un passato che lentamente scivola nella dimenticanza trascinando con sé il tempo e il poeta stesso. In quest’ottica la notte diventa il periodo riservato alla riflessione e all’azione, poiché capace di aprire nuove possibilità estendendo il tempo della vita autentica. L’autore è un attento osservatore della realtà circostante – lo sguardo e gli occhi sono altri elementi ricorrenti –, a partire dalla quale è capace di ricamare visioni che danno fondo ai suoi pensieri.

Considera che abitiamo la nostra
pagina con palpabile imbarazzo,
come dei reietti, come dei reclusi
senza vie di scampo, e tutto ciò
a cui non sappiamo dare un nome
ci sovrasta come l’erba grama.
Dopotutto i periodi in cui precipitiamo
sono incompiuti come le nostre
miserabili ambizioni. Sembriamo
animali selvatici vaganti per le strade
in cerca di un rifugio per morire. (p. 130)

Caratteristico di Chiereghin è lo stile volutamente piano – anche se mai dimesso; e comunque «Non sai cosa ha passato il poeta / per giungere a quella semplicità» (p. 148) –, estraneo a giochi intellettuali o stilistici (fatta eccezione per alcune costruzioni con rime o schemi metrici regolari, mai comunque banalizzate). Non ha paura di usare con frequenza paragoni e termini di comparazione espliciti («Come queste nuvole erranti / non hanno fissa dimora i miei affanni», p. 15) che non temono accuse di faciloneria. Che parta da uno spunto narrativo, riflessivo o descrittivo, la sintassi del dettato impiega le armi della logica per esporre il proprio pensiero, che di rado resta enigmatico.

La voce poetante si esprime prevalentemente in prima persona, imperniando tutto il discorso attorno alla propria condizione esistenziale. A volte la prima persona diventa plurale, con riferimento a un soggetto comunitario (i poeti? l’umanità?) che vive le medesime situazioni. Altre volte compare un tu altrettanto universale a cui indirizza suggerimenti, indicazioni, consigli, confessioni, presagi: questa seconda persona può essere riferita effettivamente a un altro, altre volte pare invece inscenare un dialogo allo specchio con sé stesso. E anche i rari casi in cui compare una terza persona o adotta degli infiniti riferiti a nessuno in particolare sembra essere sempre lui a osservarsi da fuori.

Ancorarsi a una sventura come
se fosse un talismano, un viatico
per aprirsi la strada, un sostegno
ineluttabile. Poi lasciarsi cadere
nel punto esatto in cui si sfiorano
gli opposti, il riso e il pianto,
uscire dal seminato ancora e ancora. (p. 59)

Nel descrivere la propria condizione interiore, anche attraverso il confronto con l’altro, la postura della dizione poetica favorisce in definitiva l’assimilazione della propria vicenda personale a un’esperienza universale: ne sono spia i toni che da disperati e quasi arresi per la «mancanza / di prospettive che reprime / ogni mio slancio» (p. 87) passano ad essere sapienziali («Non è ciò che non hai potuto avere / a tenere avvinti i tuoi pensieri / ma la quieta nostalgia che te ne rimane», p. 51).

Con Animali selvatici vaganti la sostanza del soggetto poetico che Chiereghin è venuto costruendo attraverso le sue raccolte non muta; e queste, accostate l’una alle altre, formano una narrazione coerente, seppure ognuna declini gli stessi temi e pensieri secondo focus e modalità proprie, che restano circoscritte al singolo libro. L’obiettivo, se obiettivo si vuole trovare a questa poesia, risponde al proposito di continuare a «Esserci ancora / nell’assenza che ci abita», nonostante e contro l’assenza:

Sempre al fianco del nulla che incombe
baluginando piano, di straforo,
sul tuo volto senza espressione
ti chiedi quale orma lasciare
sulla terra, a quale solco
affidarsi per sfuggire alle leggi
dell’oblio. Vivere quest’ora
fugace senza rimpianti
e – se ti riesce – fermarla sulla
pagina vuota. Esserci ancora
nell’assenza che ci abita. (p. 138)

Quella di Giampiero Neri, che ci ha lasciati prima di vedere conclusa questa raccolta, è solo una delle assenze che abitano sottotraccia Animali selvatici vaganti. Ribaltando la prospettiva, Chiereghin abita questa e tante altre assenze riempiendo i vuoti e le mancanze con la propria poesia.




Il respiro e la prossimità. Celan e Valente “lettori” di Couperin

Poesia: ciò può significare una svolta del respiro.

Paul Celan, Il meridiano

La poesia
è un respirare in pace
perché gli altri respirino.

Jorge Teillier, Poesia per René Guy Cadou

Paesaggio sommerso. Entrai in te. In te io lentamente. Entrai a piedi nudi senza trovarti. Tu, invece, c’eri. Non mi vedevi. Non avevamo più un codice per dirci la nostra reciproca presenza. Incrociarsi così, soli, senza vedersi. Giallastri uccelli. Trasparenza assoluta della prossimità.

José Ángel Valente, Paesaggio con uccelli gialli, da Non si desta il cantore

Con questo scritto vorrei dar vita a una piccola rubrica su un argomento tanto ricco e appassionante quanto complesso e talvolta sfuggente: il rapporto tra poesia e musica. Rapporto su cui moltissimo si è scritto e le cui origini si perdono nella notte dei tempi. Per circoscrivere il discorso alla cultura in cui sono nate le coordinate intellettuali all’origine del pensiero europeo, basterà ricordare che la poesia greca arcaica e classica, felicemente estranea alla nozione di letteratura, si costituisce come un’unione indissolubile di parole, musica e, per alcuni generi, danza: la μουσική τέχνη. Da questo momento in poi, con il mutare dei contesti storici, sociali e culturali, la storia del rapporto tra poesia e musica sarà quella del loro reciproco avvicinarsi e allontanarsi, del loro unirsi e scontrarsi. Di volta in volta musicisti, poeti, teorici, filosofi, intenderanno affermare la supremazia dell’una sull’altra, soprattutto in ambito teatrale. Non a caso – credo – i due generi storicamente più felici e fecondi in cui musica e poesia hanno saputo – e potuto – fondersi per dar vita a una forma d’arte nuova si siano originati e sviluppati a latere del turbolento mondo teatrale: penso al madrigale italiano (tra seconda metà del Cinquecento e prima metà del Seicento) e al lied romantico in Germania; due generi estremamente articolati e diversissimi per contesto storico – culturale, committenza, pubblico, intenzioni, forme e modalità espressive, ma che hanno in comune, oltre il rapporto indissolubile di parole e musica, il fatto che la musica nasca in seno alle parole. Come Michelangelo affermava che la forma della scultura si trovava già nel blocco di marmo e che il suo lavoro consisteva nell’eliminazione del superfluo, così il compositore scava nella pregnanza fonica e significativa della parola estraendone il materiale musicale.

In questa brevissima e sommaria ricognizione ho accennato al rapporto tra poesia e musica per come lo si è tradizionalmente sempre visto e interpretato: un compositore di musica sceglie, più o meno liberamente, un testo poetico e lo riveste di note, nei modi più diversi a seconda del periodo storico, della propria sensibilità, delle proprie coordinate espressive ed estetiche. Qualche esempio sparso: Claudio Monteverdi con i versi di Torquato Tasso e Giovan Battista Marino, Franz Schubert e Johannes Brahms con quelli di Goethe, Robert Schumann con quelli di Heine, oppure, abbandonando il campo della produzione vocale, Richard Strauss con i suoi poemi sinfonici ispirati a Cervantes e a Nietzsche.

Ma cosa accade quando, al contrario, è un poeta a “leggere” la musica? La storia di questo rapporto inverso è stata senz’altro meno indagata e risulta ancora più misteriosa e forse proprio per questo particolarmente fertile ed affascinante. Che la poesia abbia voluto elogiare la capacità connaturata alla musica di muovere gli affetti non è certo una novità. A sembrarmi degno di nota e indice di una sensibilità assolutamente nuova è che alcuni poeti, assai differenti tra di loro, soprattutto a partire dalla seconda metà del Novecento, si siano ispirati a composizioni musicali, molto spesso del Sei-Settecento, per creare testi in cui l’ascolto musicale informa di sé ogni livello (in particolar modo quello formale). A mio avviso il primo motivo d’interesse di questa operazione artistica risiede nella strutturazione, da parte del contesto culturale, di una coscienza storica criticamente fondata e stimolatrice di nuovi immaginari. Tale fu quindi il presupposto della creazione di nuove forme e sensibilità in grado di rivitalizzare, capovolgendolo, il rapporto tra musica e poesia.

La consapevolezza della distanza temporale che separa un poeta della metà del Novecento da un compositore del Seicento o del Settecento si carica così di significati inediti. La lontananza temporale suggestiona l’orecchio del poeta in grado di cogliere le più arcane risonanze del suono.

Negli accostamenti che vorrei proporre vedremo come le scelte e i gusti musicali di diversi poeti ricadano su composizioni che intendevano rappresentare o esprimere affetti (per usare il linguaggio tecnico di molta teoria musicale dei secoli XVII e XVIII) secondo modalità retoricamente connotate e ben riconoscibili. L’ipotesi che vorrei sostenere nel corso di questa rubrica è che certa musica altamente comunicativa, “parlante”, del Sei e del Settecento si presti particolarmente ad essere destinataria di sempre nuove attribuzioni di senso e possa maggiormente incontrare la sensibilità poetica di autori nati circa 250 anni dopo. Per noi, oggi, questo fatto ha profonde ripercussioni tanto sulla lettura della poesia quanto sull’ascolto della composizione musicale che l’ha originata: l’una si rispecchia nell’altra e i rispettivi significati si stratificano, creando connessioni e suggestioni. Forse questo è il risultato più ampio e misterioso al quale il dialogo tra le arti possa giungere: la contaminazione, cioè, di forme espressive, la costruzione di accostamenti e significati nuovi.

Il primo esempio che vorrei proporre riguarda due poeti, Paul Celan (1920-1970) e José Ángel Valente (1929-2000)[1], e un compositore a loro molto anteriore François Couperin (1668–1733). Entrambi i poeti sono stati profondamente suggestionati dall’ascolto delle sue Leçons de ténèbres, una composizione vocale sacra che lo vide impegnato presumibilmente tra il 1713 e il 1714. Le Leçons de ténèbres erano un genere destinato all’Ufficio delle Tenebre del Mercoledì, del Giovedì e del Venerdì Santo. Il testo è tratto dalle Lamentazioni di Geremia dell’Antico Testamento, nelle quali il profeta si dispera per la distruzione di Gerusalemme da parte dei Babilonesi (avvenuta nel 586 a.C.). In particolare, la devastazione del Tempio comportò una gravissima crisi dell’identità religiosa, politica e culturale del popolo ebraico. La solitudine di Gerusalemme, città un tempo domina gentium ormai quasi vidua, venne successivamente interpretata allegoricamente come figura della solitudine di Cristo tradito da Giuda e abbandonato dai discepoli, il che giustifica la tradizionale presenza di questi testi all’interno delle celebrazioni liturgiche della Settimana Santa. Anche il contesto in cui le lamentazioni erano eseguite rimanda alla sofferenza, al raccoglimento, alla meditazione piena di pentimento della comunità di fedeli che, dopo la crocifissione di Cristo, attende la sua resurrezione. Il riferimento alle tenebre[2] richiama ovviamente l’oscuramento del sole durante la crocifissione e veniva esplicitato “scenicamente” dallo spegnimento delle candele in chiesa (cerimonia che si ripete identica per ciascuno degli ultimi tre giorni della Settimana Santa).

Le Leçons di Couperin per il Mercoledì Santo per una e due voci e basso continuo sono caratterizzate da un’espressività costante, da un’ispirazione che commuove la mente e il cuore. Si tratta di musica che vuole parlare e lo fa con un recitativo appassionato, uno stile vocale, cioè, che vorrebbe avvicinarsi al linguaggio parlato, per quanto riguarda il testo del profeta Geremia. Le lettere dell’alfabeto ebraico che scandiscono il testo sono invece intonate con lunghi e statici melismi. Questa distinzione tra canto melismatico e recitativo avrà molta importanza nei versi di Valente, come vedremo.

Il 10 marzo 1957 Paul Celan compose la poesia Tenebrae, confluita nella raccolta Sprachgitter.

Nah sind wir, Herr,
nahe und greifbar.

Gegriffen schon, Herr,
ineinander verkrallt, als wär
der Leib eines jeden von uns
dein Leib, Herr.

Bete, Herr,
bete zu uns,
wir sind nah.

Windschief gingen wir hin,
gingen wir hin, uns zu bücken
nach Mulde und Maar.

Zur Tränke gingen wir, Herr.

Es war Blut, es war,
was du vergossen, Herr.

Es glänzte.

Es warf uns dein Bild in die Augen, Herr.
Augen und Mund stehn so offen und leer, Herr.
Wir haben getrunken, Herr.
Das Blut und das Bild, das im Blut war, Herr.

Bete, Herr.
Wir sind nah.

Vicini siamo, Signore,
vicini e afferrabili.

Afferrati già, Signore,
artigliati insieme, come se il corpo di ciascuno
di noi fosse
il tuo corpo, Signore.

Prega, Signore,
pregaci,
siamo vicini.

Sbilenchi andammo,
andammo a chinarci
su conca e cratere.

All’abbeveratoio andammo, Signore.

Era sangue, era,
quel che avevi versato, Signore.

Splendeva.

Ci gettò la tua immagine negli occhi, Signore.
Occhi e bocca stan così aperti e vuoti, Signore.
Abbiamo bevuto, Signore.
Il sangue e l’immagine ch’era nel sangue, Signore.

Prega, Signore.
Siamo vicini.

(trad. it. di Dario Borso)[3]

Questa poesia può essere una valida risposta, credo, alla questione sollevata da Theodor W. Adorno in Critica della cultura e della società (1949) secondo cui «scrivere una poesia dopo Auschwitz è un atto di barbarie». Ricordiamo che, prima ancora del verdetto adorniano, Celan aveva scritto Todesfuge (1944-1945), poco tempo dopo essere stato liberato dal campo di lavoro di Tabarasti (in Romania), poesia che nella lettera del 12 novembre 1959 a Ingeborg Bachmann definì «un’iscrizione tombale e una tomba», aggiungendo «anche mia madre ha solo questa tomba», e nella quale, al verso 6, compare per l’unica volta in tutto l’opus a stampa la parola Deutschland. Come ha scritto lo studioso Clemens-Carl Härle nell’articolo Auschwitz e i limiti della rappresentazione (2017), «il monito di Adorno ha sottovalutato la singolare capacità della poesia di decostruire e disarticolare la lingua mettendola in grado di dire l’orrore invece di ammutolire». Inoltre, è interessante notare come anche in questa poesia così importante, destinata a diventare la sua più celebre, composta 12-13 anni prima di Tenebrae, sia presente in maniera ancor più esplicita il riferimento a tecniche musicali: la fuga a cui rimanda il titolo è infatti un’importantissima forma contrappuntistica che attraversa la storia della musica dal Cinquecento a oggi. Sembrerebbe quasi che Celan ricorra all’elemento musicale come ad un incremento delle possibilità stilistiche, formali ed espressive per cercare di esprimere ciò che nessuna parola riesce a dire, ciò che nessuna immagine può rappresentare: l’orrore della macchina della morte, della Shoah.

In Tenebrae Celan dipinge l’umanità come vicina al Signore al punto tale da poter considerare il corpo di ognuno di noi il tuo corpo, Signore. Questa prossimità tra Dio e l’uomo è la condizione di un capovolgimento quasi blasfemo: è Dio a pregare gli uomini. In soccorso ci viene il discorso in occasione del conferimento del premio Georg Büchner tenuto a Darmstadt il 22 ottobre 1960, noto con il titolo Il meridiano. Qui Celan prospetta la possibilità che il poema diventi il luogo dell’«incontro […] con un altro non troppo lontano, anzi del tutto vicino»: il poema «si dirige imperterrito verso quell’altro che esso immaginava come raggiungibile, come suscettibile d’essere liberato». Forse questa stessa vicinanza tra l’io poetante e il tu cui si rivolge adombra la prossimità tra gli uomini e Dio, prossimità che Celan ricorda con grande intensità e che l’Olocausto potrebbe aver irrimediabilmente compromesso (pensiamo alle riflessioni del filosofo Hans Jonas nel suo Il concetto di Dio dopo Auschwitz). Quanto delicato sia l’equilibrio che regge tale prossimità si evince dalla tensione dialettica (evocata ne Il meridiano) tra la «lontananza dell’io» creata dall’arte e che rende l’io «dimentico di sé» e il poema, divenuto «nella sua più intima sostanza presenza e immanenza». Il poema è dunque il luogo in cui si realizza «il mistero dell’incontro»:

Il poema tende a un Altro, esso ne ha bisogno, esso ha bisogno di un interlocutore. Lo va cercando; e vi si dedica. Ogni oggetto, ogni essere umano, per il poema che è proteso verso l’Altro, è figura di questo Altro.[4]

Queste parole possono costituire un primo ponte verso la musica di Couperin. Come i versi di Celan, le Leçons cercano un tu cui rivolgersi con urgenza, con tono appassionato. La prossimità costitutiva del fare poetico, la vicinanza – somiglianza tra Dio e uomo, trova un possibile riscontro nella qualità di canto che Couperin affida alla voce, o alle due voci. Questo aspetto potrebbe aver suggestionato Celan, anche tenendo conto del valore che assume all’interno de Il Meridiano il respiro, concetto tra i più musicali in assoluto, intrinsecamente legato all’atto stesso di cantare e più in generale di far musica:

Poesia: ciò può significare una svolta del respiro.[5]

Come scrive Osvaldo Bevilacqua, «l’Atemwende è il momento, la pausa impercettibile in cui l’essere vivente passa dall’inspirazione o viceversa; […] ma cosa accade se l’aria ci viene sottratta o si fa irrespirabile? Il respiro diventa rantolo, esso basta ormai soltanto per un grido».[6] Il grido è innanzitutto quello della storia, dello scandalo della storia, in particolar modo di quel 20 gennaio 1942 (data cui si allude costantemente nel discorso Il meridiano), quando ebbe luogo la Conferenza di Wannsee con l’obiettivo di pianificare la Soluzione finale alla “Questione ebraica”.

Per Celan ascoltare le Lamentazioni di Couperin e fare poesia significa innanzitutto meditare sulla storia e precisamente su quel terribile 20 gennaio 1942. Il lamento per Gerusalemme distrutta diventa il lamento per l’Olocausto, la solitudine e le lacrime sono quelle di chi si è visto privare di tutto: proprietà, affetti, dignità, vita. E quanto più sognante e dolcemente malinconica potrà apparire la musica di Couperin, tanto più crudelmente in essa si specchierà la memoria storica – le lacrimae rerum – di cui è intessuta la poesia di Celan.

Una sensibilità molto diversa guida José Ángel Valente nell’istituire una correlazione tra le sue Tres lecciones de tinieblas (1980) e le Leçons couperiniane. Innanzitutto, il rapporto tra invenzione poetica e ascolto musicale è molto più stretto ed esplicito che non in Celan. Lo si evince dall’importante Autolectura che segue i versi:

I testi di “Tre lezioni di tenebre” traggono origine dalla musica. Innanzitutto, e prima che in qualsiasi altra, dalle lezioni di Couperin. Poi da quelle di Victoria, Thomas Tallis, Charpentier, Delalande. Dal lento stratificarsi di quelle composizioni è disceso o si è formato un unico principio d’avvio o movimento primario, quella sorta di movimento che è sotteso a ogni progressione armonica e che è detto propriamente “Ursatz”. […] Quello che in musica si chiama variazione in questa prospettiva sarebbe una modalità di meditazione creativa sul movimento primario, su di una forma universale. […] Tutte le lezioni di tenebre, genere sacro sperimentato da tanti grandi maestri, hanno la medesima struttura. In essi si canta una lettera dell’alfabeto ebraico e a seguire un frammento delle Lamentazioni del profeta Geremia. Se contemplate nel loro insieme, le lezioni presentano due assi principali. Uno verticale e uno orizzontale. L’asse verticale è quello delle lettere, che consentirebbero di leggere, come in un acrostico, tutto il linguaggio e in esso tutta l’infinita varietà della materia del mondo. L’asse orizzontale è l’asse della storia, l’asse della distruzione, della solitudine, del dolore, del pianto del profeta […].[7]

I due elementi individuati da Valente, quello orizzontale e quello verticale, creano una spazialità squisitamente musicale (oltre che ben evidente sulla pagina scritta): la verticalità dell’armonia è legata indissolubilmente all’orizzontalità della melodia; inoltre, immettono nell’orizzonte poetico il concetto di archetipo, dunque di sovra-storico e simbolico: le lettere ebraiche sono «le forme archetipiche dello spessore e della trasparenza della materia e della loro perpetua resurrezione»[8].

Questa è la prima grande differenza rispetto alla poesia di Celan: il tempo storico è il tempo della lacerazione, del caotico multiforme intriso di dolore, mentre il tempo della lettera è sovra-storico, unitario, originario e immutabile. Il rapporto tra uno e multiplo, tra l’espressione individuale del dolore e la sua oggettivazione in simbolo (la lettera), origina la forma del componimento poetico e tale forma – afferma Valente – non fa altro che tradurre quella musicale di Couperin:

Nella loro forma musicale, le lezioni riflettono la medesima struttura. Chiunque ascolti le lezioni di Couperin coglierà subito nel testo delle Lamentazioni un canto che discende da uno stile personale e da un’epoca. Inoltre, questo è un canto narrativo. Diversamente, il canto delle lettere non è soggetto alla contemporaneità e porta in sé forme molto più antiche, forse derivate dal canto sinagogale; per di più il canto delle lettere non possiede una storia, perché è un canto melismatico.[9]

A interessare Valente e soprattutto la forma musicale, tanto più che nel caso di Couperin la forma si origina proprio dall’alternanza stilistica e simbolica delle due modalità di canto, così diversamente e storicamente connotate: il recitativo tipico della musica francese della prima metà del 1700 da un lato, il canto melismatico di ascendenza sinagogale dall’altro.
Se per Celan il tempo era prima di tutto il tempo della storia, per Valente quest’ultimo è in costante dialogo con il «tempo delle lettere», il tempo dello stare, verbo caro a Valente, titolo di un’omonima poesia da Al dio del luogo (1989):

              No hacer.
En el espacio entero del estar
estar, estarse, irse
sin ir
a nada.
                A nadie.
                                  A nada.
                 Non fare.
Dentro lo spazio intero dello stare
stare, starsene, andare
senza dirigersi
a niente.
                 A nessuno.
                                     A niente.[7]

Il riferimento a questa condizione passiva compare anche in una breve prosa metapoetica all’interno della raccolta Mandorla (1982):

SCRIVERE è come la secrezione delle resine; non è un’azione, ma lenta formazione naturale. Muschio, umidità, argilla, fango, fenomeni del suolo, e non del sonno o dei sogni, ma della melma scura dove fermentano le figure dei sogni. Scrivere non è fare, ma prendere dimora, stare.[11]

Ascoltiamo ora l’intonazione che Couperin riserva ad una qualsiasi delle lettere ebraiche. Mentre il recitativo “storico” rientra nella sfera del fare, i melismi archetipici dimorano nella melma scura dove fermentano le figure dei sogni; e questo dimorare va interpretato soprattutto nella sua accezione latina (il verbo mŏror), strettamente legata alla dimensione temporale: attardarsi, sospendere, fermare, ma anche avvincere, accattivarsi.

Per Valente la dimora, la sospensione del tempo conducono a quell’idea di prossimità che era emersa nel caso di Celan e che Valente cita esplicitamente nella sua Autolectura quando definisce le Tres lecciones «canto della germinazione e dell’origine o della vita come imminenza e prossimità»[9]. «Lascia che arrivi a te ciò che non ha un nome» si legge alla lettera JHET: quando il tu farà esperienza di quella speciale condizione di dimora, l’anonimo, l’humus della terra, il lato più umbratile delle cose, immerse ancora in uno stadio pre-nominabile, si faranno avanti al suo cospetto

perché possa nascere così sopra l’ombra il segno: tracciare i segni: segni o lettere, numeri, la forma: dar nome a quello che ci è dato: cieco battesimo della luce: il raggio.[13]

Evidentemente i due poeti muovono da intenzioni espressive, comunicative e stilistiche lontane: la musica delle Leçons ha saputo diversamente risuonare in ognuno dei due, suscitando in Celan una straziante preghiera capovolta, in Valente una riflessione sulla «lenta formazione naturale» dell’antepalabra, la parola essenziale, archetipica, non contaminata dalla storia, ma che con la storia deve inevitabilmente rapportarsi e scontrarsi. Credo che un punto di incontro tra i due poeti consista proprio nella parabola tracciata dal respiro, alito di preghiera in Celan, seme nel quale discendere in Valente[14], alla prossimità, luogo misterioso in cui la creazione artistica, con tutta la sua valenza storica e simbolica, diventa segno per eccellenza: σημεῖον, traccia di memoria e indizio cifrato per tentare di orientarci nell’assenza di senso della storia e del dolore, nel viaggio verso l’Altro.

***

[1] Un nesso tra Celan e Valente esiste. Celan è presente in modo esplicito in almeno due componimenti di Valente: in Mandorla (dall’omonima raccolta del 1982) e in Ricordo di Paul Celan (da Frammenti di un libro futuro, 2000).

[2] Vedi il testo del celebre Responsorio Tenebrae factae sunt.

[3] Paul Celan. L’antologia italiana. A cura di Dario Borso. Nottetempo 2020.

[4] Paul Celan. La verità della poesia. “Il meridiano” e altre prose. A cura di Giuseppe Bevilacqua. Einaudi Torino 1993, pag. 16.

[5] Paul Celan, cit., pag. 13.

[6] Paul Celan, cit., pag. XVII.

[7] José Ángel Valente. Per isole remote. Poesie 1953-2000. A cura di Pietro Taravacci. Metauro 2022, pag. 275-277.

[8] J. A. Valente, cit., pag. 277.

[9] J. A. Valente, cit., pag. 277.

[10] J. A. Valente, cit., pag. 326-327.

[11] J. A. Valente, cit., pag. 293.

[12] J. A. Valente, cit., pag. 277.

[13] J. A. Valente, cit., pag. 273.

[14] J. A. Valente, cit., pag. 271: HE […] assieme a te son sceso al seme del respiro: al fondo: con la mia bocca ho bevuto il tuo respiro: non ho bevuto il visibile.




Matasse di umanità in deflagrazione. Su “Diabàllo” di Emanuele Franceschetti

Un «monodramma senza personaggio»: così l’autore, Emanuele Franceschetti, premonisce i lettori e le lettrici di Diabàllo (Edizioni Volatili, 2023), un’opera in tredici prose in cui dialogano tra loro una voce narrante immaginaria e un destinatario altrettanto aleatorio. Nel clima sinistro e infernale con cui il libro si apre sin dal titolo (diabàllo [διαβάλλω] è il verbo greco che indica “separare”, “ingannare”, da cui il diavolo e i suoi derivati), Franceschetti orchestra una serie di espedienti retorici che puntano l’attenzione sull’assenza, fil rouge di tutta l’opera. Barcamenandosi in un gioco tra il machiavellico e il piranesiano, l’autore fa un uso massiccio della litote attraverso cui fa apparire, come in un bassorilievo, le forme dell’interlocutore; a questa soluzione retorica alterna poi descrizioni “in positivo” che, in maniera uguale e contraria, pongono l’accento su connotati negativi.

«Non c’è più nulla. C’è un universo di parole che non riconosci. […] Tu stai nella fulminazione, nel trapasso, nel segreto. Non hai durata né sviluppo. Sei forma breve. Non hai il coraggio di Giuda: il tuo nodo è intonso, in bella vista. Sei memoria del non accaduto».

[…]

«Tu la vita invece non la ami nemmeno la conosci, tu la vita la puntelli la perimetri, e mentre lo scrivo al tuo posto tu odi la tua pelle malata e l’allegria degli altri».

[…]

«ripeti il mantra che ti ha condannato. Soltanto una parola. Gioca col ritmo interno delle frasi. Cerca un corpo, riempilo, costringilo. Resta mammifero senza speranza. La sua parola non ti ha mai salvato».

[…]

«Tu sei assenza, torace sfondato, sei altrove. Sei nella prigione. Sei i tuoi fluidi dispersi. Sei gola tagliata per favorire nessun vento nessuna nave».

[…]

«Non puoi più scriverlo perché sarebbe per consolazione, per essere altrove, fuoriuscito, libero senza organi. Non vuoi più scriverlo perché sarebbe tutto ciò che vuoi, l’apnea e la morte, restare intero dentro un altro corpo. Ed essere quel corpo, e non avere corpo».

Nel gioco antitetico e straniante di identificazioni e disidentificazioni, e ancor più nelle formule «sei memoria del non accaduto», «l’allegria degli altri», «la sua parola non ti ha mai salvato», la mia mente attracca al ‘porto’ della poetica ungarettiana, in cui l’autore-sommozzatore affonda negli abissi della lingua per portare alla luce la parola ultima, estrema, necessaria, definitiva, che nomina la vita e la riassume. Nella poesia In memoria, dapprima pubblicata in rivista su «Lacerba» (1915) e poi posta in overture nella prima edizione del Porto sepolto (1916), Ungaretti descrive, in negativo, Moammed Sceab, suo alterego di non-poeta, conosciuto a Parigi nell’albergo di rue des Carmes. Sceab morì suicida poiché rimase imprigionato nella sua contingenza, in un hic et nunc che non riuscì a trascendere: fu un non-francese e non parlante il francese pur essendo nato in Francia (emigrato in Egitto, cambiò il suo nome, Marcel, in Moammed); non fu in grado di recuperare il suo passato («e non sapeva più | vivere | nella tenda dei suoi») e non seppe aprirsi al mondo, «sciogliere | il canto | del suo abbandono» per entrare in armonia con se stesso e l’universo. Dunque, il destino che avrebbe atteso Ungaretti se nell’aura mortifera del fermento bellico non avesse scavato nelle profondità della lingua e della parola per riconoscersi «una docile fibra || dell’universo»[1]. Franceschetti, a differenza di Ungaretti, si serve della stessa strategia retorica ma negando ogni possibile finale positivo, ogni possibile ricongiungimento tra l’io (o il tu) e l’universo. Diabàllo è, e rimane, un «monodramma senza personaggio». Ancora più interessante è il fatto che il risvolto positivo venga tanto più negato quando affidato alla parola, qui intesa (e anche in questo diverso da Ungaretti) come divina, religiosamente connotata, ma privata di salvezza. Non c’è traccia di parola necessaria, e rigenerativa, né tantomeno di un logos erchomenos, sempre “a venire”, inesauribile[2]. Non è un caso che le due citazioni in latino («Ecce vexilla regis» e «flammis acribus addictis») provengano rispettivamente da un inno e una sequentia sacre[3], l’uno commemorante la Santa Croce[4], l’altra tratta dal Dies Irae, il giorno del Giudizio Universale. Si tratta dei momenti più salienti, e a tempo stesso apocalittici, della liturgia cristiana. Inoltre, la citazione di Prospero (protagonista della commedia shakespeariana La tempesta) nella prosa conclusiva di Diabàllo suggella in extremis la vacuità e la sterilità della parola divina. Senza scendere troppo nei dettagli della trama, Prospero incarna il ruolo di mago e legittimo duca di Milano che, per proseguire gli studi di magia e filosofia, affidò il trono al fratello Antonio. Quest’ultimo, spinto dalla brama di potere, lo usurpò con l’aiuto del re di Napoli Alonso, relegando il fratello (insieme a Miranda, sua figlia) in un’isola ignota del Mar Mediterraneo. Trattandosi di una commedia l’orizzonte di attesa è inscritto nel segno del lieto fine, con tanto di ritorno all’ordine di fatti e personaggi. Ed effettivamente, nella Tempesta il lieto fine si realizza: nel soliloquio finale, Prospero invoca una preghiera salvifica che lo liberi da ogni peccato e lo risparmi da una fine disperata («And my ending is despair, | Unless I be relieved by prayer, | Which pierces so that it assaults | Mercy itself and frees all faults»). Ma in Diabàllo «Prospero si è impiccato»: nessuna preghiera può redimere l’uomo, e come se ciò non bastasse, ogni qual volta “preghiera” e “benedizione” vengono nominate, Franceschetti sceglie sempre accostamenti altamente connotati per la portata atroce, cupa:

«Le piazze esplodono di benedizioni battaglie traffici».

[…]

«Chissà quale preghiera, quali intossicazioni. Con altra lingua cantando gloria al padre, proteggete i figli, la guerra era davvero necessaria».

Diabàllo è il racconto di un mondo stremato dal dolore e dal morbo, in cui la voce narrante riflette sulla tragicità escatologica a cui essa stessa e il suo interlocutore stanno andando incontro. Con fare stoico e rassegnato, Franceschetti dà voce ai proteiformi aspetti che il maligno assume nel mondo contemporaneo, sempre travalicando e trasbordando il contenuto fattuale degli eventi. Viene evocata la guerra, dapprima «solo immaginata», poi allusa col riferimento alla città ucraina di Odessa – richiamando il conflitto attualmente in atto tra la potenza russa e il corpo NATO – e infine universalizzata nella sua ineluttabilità storica e ontologica («la guerra era davvero necessaria»). Si chiama in causa il problema dei femminicidi attraverso la descrizione dello stupro, con annesso mattatoio, di «un’altra donna penetrata contro il muro con una mano al collo. E poi la corda stretta, la vergogna, la mandibola. La corsa in sala operatoria, i gas la carne marcia, i resti da occultare». C’è poi il richiamo alla crisi climatica («Haiti grida e affonda», «Venezia affonda un millimetro all’anno», «La California brucia»), ai traffici illeciti di sostanze stupefacenti («Un sudamericano e un negro, c’era solo la fabbrica e la puzza di stabbio, sì ma giravano i soldi veri, invece adesso»).

Quello che si offre davanti agli occhi di lettori e lettrici è un’panorama «di morte e persecuzione»[5], ancor più enfatizzato dalle «partiture visive» di Giuditta Chiaraluce che fanno da sotto(s)fondo al ritmo incalzante e battente della prosa di Franceschetti. Non c’è passaggio del testimone tra passato e presente, non c’è dialogo, non c’è contatto tra temporalità ed eternità, ma solo «quello che è stato e quello che resta. […] L’origine, la fine». Ogni possibilità di futuro è negata. Non c’è «congedo», salvazione, prospettiva che guardi e si muova al di là della soglia se non per annientare e combattere ancora («La soglia. Oltrepassare. […] la guerra era davvero necessaria». Un solo futuro (o uno dei pochi) è usato per descrivere il “tu” immaginario: «Sarai mano costretta all’arcolaio», ovvero mano che dipana le matasse di filo. Nel lessico tessile, però, c’è una distinzione tra arcolaio e aspo: quest’ultimo è lo strumento che dipana i fili per formare le matasse; l’arcolaio, invece, separa per disfarle.

***

Testi da Diabàllo di Emanuele Franceschetti

*

La California brucia, come il travertino e come le lucertole che bruciano al sole. Nessuna somiglianza tra le immagini. Le forme ti oltrepassano. Conserva la vergogna della faccia che ti guarda. La bocca che maciulla un peccatore che non c’è. La furia dei proiettili, la peste nel deserto. Il cane testimone, quattro pietre. Ecce vexilla regis nelle fosse, tra i palazzi, nel veleno degli uomini, flammis acribus addictis. Sei quello che hai tradito. Scomparirai in anticipo, prima della partenza. Sarai mano costretta all’arcolaio.

*

La soglia. Oltrepassare. Anche la mosca esiste, ruba, uccide. Scrivi come una lettera a nessuno e poi ritorna. Alla puntualità delle ossessioni, alle finzioni naturali, ai morti alle scritture. E poi colpisci. L’immagine è violenta, ma non conta. Dopo diranno che era inevitabile, saranno forti come un animale gigantesco. Nel duemilatrecento saranno ancora in tempo per la fine. Chissà quale preghiera, quali intossicazioni. Con altra lingua cantando gloria al padre, proteggete i figli, la guerra era davvero necessaria.

*

Prospero si è impiccato. Brucia restando immobile la foresta di Birnam. Crollano le fortezze. Madrigali dalle carceri. Neonati fuoriusciti dalla tana, e già l’orrore, e già corrono mostri tra i palazzi, e già gli uomini corrono al capestro. Nessuna profezia. Siete iene che trattengono il seme. E poi la meraviglia che scolora, l’esplosione, la scomparsa, il sonno nel minuscolo universo. L’origine, la fine. Si sono accorti della bestia che ti corre dietro. Sei solo nel congedo che aspettavi.

***

[1] G. Ungaretti, In memoria, in Il porto sepolto, Udine, Stamperia tipografica friulana, 1916. La raccolta fu poi rieditata dall’autore col titolo Allegria di naufragi (Firenze, Vallecchi, 1919) e nuovamente col titolo L’Allegria (Milano, Preda, 1931). Ora in C. Ossola (a cura di), Ungaretti. Vita d’un uomo. Tutte le poesie, Mondadori, Milano, 2009.

[2] A. Zanzotto, Filò [1976], in S. Dal Bianco, G.M. Villalta (a cura di), Andrea Zanzotto. Le poesie e prose scelte, Milano, Mondadori, 1999, pp. 542-543.

[3] Non dimentichiamo che Emanuele Franceschetti è un esperto di musica: oltre ad essere dottore di ricerca in Musicologia presso l’Università La Sapienza di Roma, è anche insegnante di Storia della Musica al conservatorio “L. Marenzio” di Brescia.

[4] L’autore, Venanzio Fortunato (530-607), compose questo inno a Poitiers in occasione dell’arrivo della reliquia della vera Croce.

[5] Così recita la citazione di C. Nooteboom scelta come esergo.




Nota di lettura a “Perché ancora” di Luciano Cecchinel, a cura di Giulio Medaglini. A seguire un’intervista all’autore.

Non conosco un altro libro di poesie, scritto negli ultimi vent’anni, capace, come Perché ancora / Pourquoi encore (2005), di presentificare la ferita storica inferta dal nazifascismo.
Scritta in vista del sessantesimo anniversario della Liberazione, la raccolta di Luciano Cecchinel compie quell’atto straordinario della nominazione. Se, come evidenziava Freud ne L’interpretazione dei sogni, pronunciare il nome del dormiente lo riporta allo stato cosciente, pronunciare il nome delle vittime della Storia, ha una duplice funzione: da un lato salva quelle singole vite dall’oblio, dall’altro desta le nostre coscienze, ci pone di fronte alle tragedie permettendoci di specchiarci in chi aveva un nome, come noi. È quello che manca alle tragedie contemporanee, che percepiamo attraverso le montagne numeriche dei morti, troppo alte perché si possa davvero scalare il significato di quelle cifre. Di questa alienazione, oggi rappresentata dalle fredde addizioni dei mass media, parlava anche Wislawa Szymborska che, in Campo di fame presso Jaslo (nella raccolta Sale del 1962) scrive: «non gli fu dato da mangiare, / morirono tutti di fame. Tutti? Quanti? […] Scrivi: non lo so» / La storia arrotonda gli scheletri allo zero. / Mille e uno fa sempre mille, / Quell’uno è come se non fosse mai esistito…».
I morti rimangono invisibili nella cripticità dei numeri che riflettono solo se stessi. Non si è erosa la realtà, forse aveva ragione Susan Sontag, si è eroso il suo senso. Ed è proprio questo che tenta di recuperare Cecchinel, affiancando al corpus testuale un apparato di note che svela dettagli e nomi dei soggetti di cui mette in versi le storie o, meglio, i momenti finali delle loro vite, le storture disumane subite. Il libro che tengo tra le mani, mentre scrivo questa breve nota – che vuole essere un semplice invito alla lettura – mi appare come una sindone, tanto sono visibili i segni dell’abominio. Penso, tra le molte poesie, a Speranze, dedicata al medico emiliano Mario Pasi, commissario della Brigata Mazzini, il quale: «Orribilmente massacrato, non cedette e fu portato all’impiccagione steso su una scala a pioli perché le ginocchia trapassate coi ferri di tortura non gli consentivano di camminare.» (p. 149)
Ogni testo di questo libro è un lenzuolo insanguinato, un grido inchiostrato nella pagina e il titolo, come osserva Martin Rueff nella prefazione della raccolta, non è una domanda, ma un’esigenza, «evoca l’emergenza e il problema» (p. 7).

Giulio Medaglini


Intervista all’autore

GM– Ciao Luciano, apprendendo, in questi giorni, del monologo di Antonio Scurati per il 25 aprile censurato dalla Rai, ho pensato al tuo libro e a una frase di Mandelstam riportata nella prefazione della raccolta da Martin Rueff: «Va bene, d’accordo: ma tutto questo appartiene a ieri. Ma io dico che questo ieri non è ancora venuto».
Come stai vivendo questo tempo? Credi che la nostra democrazia sia in pericolo?


LC- Malamente. Quasi non capacitandomi della tragicomica realtà di questi giorni, pencolo davanti alla televisione per ascoltare vari dibattiti politici, certo con un masochistico senso dell’orrido. Nel contempo mi si accresce dentro un senso di diffidenza e fastidio nell’affrontare le situazioni comunitarie, pensando a quanti alle ultime elezioni politiche hanno votato in un certo modo. Questo sentire mi era già presente nell’era berlusconiana ma adesso mi si è drasticamente acuito. Risultato: una paura della “gente”, termine volutamente usato nell’accezione di entità anonima, e quindi, con un disagio a comparire in pubblico, la tendenza a rinchiudermi in me stesso. Ma parteciperò certo a qualche cerimonia del 25 Aprile, che, dati i tempi, assicurerà di per sé una decisa selezione.

GM- Gramsci in Odio gli indifferenti scriveva: «chi vive veramente non può non essere cittadino e parteggiare. Indifferenza è abulia, è parassitismo, è vigliaccheria, non è vita. Perciò odio gli indifferenti».
Se penso al tuo libro, penso anche a questa frase.
Qual è stata la motivazione che ti ha portato a scriverlo?

LC- È stato, oltre che per rispondere a molte critiche indirizzate alla Resistenza, per commemorare molti caduti che erano un po’ dei morti di famiglia: erano stati compagni di lotta di mio padre e alcuni di loro quasi dei figli per mia nonna paterna che, vedova della prima guerra mondiale, era stata nei loro perigliosi movimenti loro protettrice. In loro memoria avevo partecipato fin da piccolo a numerose commemorazioni e non è stato certo impunemente che mi sono misurato con lo strazio dei loro genitori. Come purtroppo ben sappiamo, la memoria dei partigiani che hanno restituito onore all’Italia – come fa dire Fenoglio al partigiano Johnny di fronte all’obiezione che non sarebbero stati loro a poter vincere da soli la battaglia – è sempre stata ripresa, al di là di certa nociva agiografia di parte, prevalentemente in sordina, almeno rispetto ai fasti nazionalistici con cui veniva celebrata la grande guerra; e sempre più spesso, in tempi di montante revisionismo con punte oggi scopertamente revanchistiche, e, sulla scia purtroppo di forse inevitabili nefasti episodi, anche sofisticamente quanto iniquamente, vilipesa.
Certo parlare di tutto ciò dà una profonda e quasi irredimibile amarezza e fa riflettere con un senso di impotenza, anche in ordine ai limiti dimostrati tragicamente nel secolo trascorso da tutte le colonizzazioni politico-culturali, su quel pericolo che è la stessa natura umana.

 

Testi da Perché ancora / Pourquoi encore

Speranze 

A Mario Pasi (Montagna),
medico, lungamente torturato
e poi impiccato dai tedeschi.

Guardare oggi, così lontano,
entro i tuoi occhi
di adolescente – come scrutare
in un destino – una speranza
sconfinata.
Si sarebbe fatta
per dottori di strazio e terrore
l’invocazione ai compagni del veleno
per non dover di male ammattire,
parlare invece che urlare.

Per le ginocchia forate
ci fu una scala di legno
per portarti massacrato al tuo castagno
come per operazione necessaria,
disperata.

Confessioni


A Giovanni Morandin (Barba)
suicidatosi in combattimento dopo aver esaurito le munizioni.

Vivide braci nella cenere
ogni mattina quegli occhi fissavano:
era lui che senza scampo in sfracello
di bomba soccorrevole
da sé era voluto andarsene
per non rischiare ancora
il suo essere uomo,
fra lampi di lame, alcol e sale.
La sera con chiostre serrate
e bave nere
quegli occhi
avrebbero aspettato
in sfinito tremore,
braci braccate dalla cenere
dietro la grata di un confessionale
irremovibile.

Per questi sentieri 

Per questi sentieri
le voci di coloro che videro
il male così nero
che sentirono il bisogno
di essere migliori.
Voci di coloro
che non lottarono per la morte
ma per la libertà:
ridicono il senso, separano
il fuoco, il sangue.
Voci che insieme
si levano
incontenibili come luce
per un altro splendore
di quell’aprile.

Nota bibliografica
Luciano Cecchinel, Perché ancora / Pourquoi encore, traduzione di M. Rueff, note di Claude
Mouchard e Martin Rueff , Istituto per la Storia della Resistenza, Vittorio Veneto, 2005.
Susan Sontag, Sulla fotografia. Realtà e immagine nella nostra società, Einaudi, Torino, 2004.