Il «teatro fuori quadro» | Una nota di lettura su Posti a sedere di Luciano Mazziotta (Valigie Rosse, 2019)

Luciano Mazziotta (Palermo, 1984) vive a Bologna e insegna Letteratura italiana nei licei. Dopo Città biografiche (2009), nel 2014 è uscito il suo secondo libro di poesie Previsioni e lapsus (Zona). In questa nota di lettura Francesca Mazzotta presenta l'ultima raccolta del poeta, intitolata "posti a sedere" (Valigie Rosse, 2019)

I “posti a sedere” di Luciano Mazziotta me li sono immaginati, di primo acchito e piuttosto banalmente, come le sedie di una platea deserta, abbandonate, in attesa d’essere occupate da corpi, oppure, appena sgravate del loro peso. Ma ascoltando l’autore dal vivo in occasione della sua presentazione fiorentina, è stata da lui suggerita una decodificazione alternativa di questo titolo lucido, tra il teatrale e il fotografico: se si intende il lessema «posti» come participio passato del verbo “porre”, si ottiene immediatamente una direttrice più salda lungo cui instradarsi nella decifrazione del soggetto plurale letteralmente effigiato dall’autore, da diversissime angolature e con esiti di potente straniamento. “Posti a sedere”, quindi, prevalentemente come soggetti, “personae collocate”, calate su un piano-zero della rappresentazione da un deus ex machina, posizionate piuttosto arbitrariamente su un palco, a mettersi in scena, a recitare una parte o svolgere la rituale gestualità quotidiana. L’io in questo libro non compare, neanche timidamente – al soggetto, sempre plurale (loro, loro due, noi, a fronteggiarsi fino a mescersi, con un’incursione di un tertium nelle vesti di testimone che ricorre un paio di volte) è impressa un’andatura sinusoidale che coincide con una messa a fuoco sempre più nitida dall’esterno (gli ospiti, soggetto con cui si apre il testo-preambolo fuori dalla cornice delle sette sezioni) di una griglia ideale che immagino come una ragnatela, al suo punto focale, il suo fulcro, il ragno che la intesse (pertanto il libro si chiude col Trittico del Balaustium Murorum – il ragnetto rosso -, seconda e ultima parte della sezione finale, Piano sequenza).

 

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È un libro, quello di Luciano Mazziotta, anti-relazionale, intenzionato a proferire una precisa denuncia, quella contro l’incomunicabilità, o quantomeno, teso a dichiararne lo statuto incontrovertibile. La compatibilità intra-soggettiva e intra-oggettiva è fasulla (non solo la relazione umana, quindi, ma anche la reciprocità tra gli oggetti, che comunque discende da un disegno psichico), vacua, è un trauma cui si può tentare di sopperire estemporaneamente diluendolo nel caffè, ruotando il cucchiaino fino a sommergerlo dentro la tazza, come l’autore suggerisce nel testo d’apertura di quella che è secondo me la sezione più riuscita, Fanno spazio. Le relazioni messe a fuoco in questo libro somigliano così ai segmenti paralleli e mai comunicanti di una ragnatela che attende di essere lacerata, ed è in effetti sempre sul-punto-di, in attesa di uno scompiglio che fratturi il presunto ordine di vite inscenate come marionette, geometricamente ubicate, “poste” in un sussistere statico, omeostatico, in un equilibrio fragilissimo e solo apparente (una «calma narrativa», com’è definita nel quarto testo della sezione Fanno spazio). Si avverte come una colpa originaria, una verità dolorosa che preme per essere rivelata, ma resta occulta, inespressa: così trapela dallo stesso testo succitato di Fanno spazio, nei versi «finché dal fondo affiora una scusa sulla schiuma / o spesso una domanda che almeno uno dei due / si pone a mente alzando lo sguardo all’orologio. / sono istanti in cui ci ritiriamo dalla scena» – come se l’apice del fallimento comunicativo derivasse da una rinuncia a captare e dare spago a quella domanda interna, l’input fàtico; si veda altresì la settima poesia della medesima sezione, dove Luciano Mazziotta scrive «[…] se c’è traccia volontaria del misfatto / che almeno uno dei due vorrebbe rivelare»; vorrebbe, ma alla fine non può, o forse non è dato che possa, dal momento che a connotare l’individuo è un’inconsistenza intrinseca, che si percepisce come tragica nonostante lo stile metricamente pacato, a metronomo, dell’autore, innestato su un ritmo in cui si orecchia, preciso, l’esametro classico. Sotto il disincanto di scenografo del poeta, esplicito fin dalla titolazione delle sette sezioni (Questo posto, Di spalle, Fanno spazio, Una data, Case Museo, Stillstand, Piano sequenza – titoli che assurgono a indici di un’inquadrata fissità) pulsa una cocente agitazione, una forte spinta all’annichilimento mossa dalla coscienza di un’ineliminabile nullità etico-esistenziale.

Non solo il luogo, che in questo libro è emblematizzato dalla casa – coi suoi interni a tratti animati, solamente, da una deflagrazione apocalittica di ombre e insetti – risulta inabitabile, ma è aprioristicamente il tempo (lo ribadisce l’epigrafe di chiusura da P. Schultz), il tempo nell’interezza delle sue tre dimensioni, a non poter essere abitato dall’uomo – constatazione che scandisce la climax auto-definitoria e definitiva della prima sezione, Questo posto: «noi non siamo all’interno di un futuro», recita l’ultimo verso del terzo testo; «noi non siamo all’interno di un presente», il finale del sesto; «noi non siamo all’interno di un passato», simmetricamente, il verso conclusivo del nono testo della sezione. Il corridoio simbolico del testo d’apertura di Questo posto, così, immette il lettore in uno scenario spazio-temporale incolmabile, mai veramente suscettibile di un riempimento, d’essere marcato da una presenza autentica – è, quella dominante nella sezione, semmai, una presenza spettrale e ondivaga tra esterno e interno, perennemente interfacciati, è uno spasimo d’acqua piovana che giunge da fuori, portato da un «ombrello che sgocciola» oppure sotto forma di un «tonfo di pioggia»; traccia trasparente, un chicchessia che si divincola entro i confini di «uno spazio mai mondo e poco / esplorato ché si potrebbe aggirare chiunque / chiunque accaderci e niente spostare toccare».

Segue la sezione Di spalle, occupata da un unico testo che mi ha ricordato la poesia di Carver, per lo sdoppiamento del noi in un loro che riassume vite sporadiche e uguali di cui si è spettatori paralleli, barlumi di vite spiate dal palazzo dirimpetto, una scena da cui filtra la convinzione che l’esistere degli altri non può prescindere dal nostro sguardo frontale – anche se ciò che accade veramente, sostiene il poeta nell’ultimo verso, accade di spalle. E di spalle, effettivamente, si corona l’accadimento di un’epifania, più avanti nell’ultima poesia che chiude la semi-sezione La Cripta dei Cappuccini (interna a Case Museo): è la visione del corpicino morto di Rosalia Lombardi (1918-1920), la cui identità Luciano Mazziotta chiarisce nelle Note di chiusura, «si tratta della bambina mummificata a soli due anni e che ha mantenuto quasi integro il corpo nel corso del secolo»; una storia che si riconnette in cortocircuito alla domanda che chiude il terzo testo, di poco precedente, della sezione: «Sanno questi bambini che muoiono / anche i bambini?» e che pare riecheggiata, a mio avviso, dal caso della figlia piccola di Maria Fresu, anche se secondo un’antitesi spietata rispetto alla sorte del corpo. Nei versi finali della poesia dedicata a Rosalia Lombardi il poeta scrive pertanto «rassicura la sigla. r. l. fa salda la salma. / mentre noi le diamo le spalle [corsivo mio] verso l’uscita / anche se dopo le scale nessuno ci chiama».

Dalla lettura di questa sezione, eliotiana per la voce fuori-campo del primo testo e contrassegnata da una coloritura fosca e gotica, viene da chiedersi se secondo Luciano Mazziotta siano più morti i morti o i “posti a sedere”, giacché si deduce che a muovere l’istinto relazionale vivi/vivi e morti/vivi sia lo stesso sentimento di odio («PER FAVORE SILENZIO per favore i farfugli / i morti li odiano») che aveva retto la sezione incentrata sul rapporto biunivoco del due, Fanno spazio e che, di fatto, sorregge l’impalcatura dell’intera raccolta, assieme al filo conduttore del vano, dell’invano: «[…] allora perché / scrivere un trionfo se è trionfo del niente». Appartenente al Trionfo della Morte, semi-sezione dedicata al celebre affresco di Palazzo Abatellis a Palermo, è poi una dichiarazione di poetica e insieme rimando meta-testuale, «e tu continua a descrivere il tutto mancante / come se l’ecfrasi esplicita fosse una colpa. / perché non ci sono bambini e le frecce provengono / dal fuori che è il posto a sedere che abiti. / E forse a scagliarle sei tu»: Luciano contempla l’io solo nella forma di un io che interpella se stesso, in seconda persona, denudandosi come colui che, “posto a sedere” in una zona limitrofa al contingente ma da esso distaccata, una sorta di perimetro alla vita, reagisce scagliando frecce su di essa, come a volerla sollecitare. Eppure forse anche questo è un tentativo vano, giacché indossiamo l’abito anonimo degli «spettatori monocromi», come si dice nell’ultima sezione, Piano sequenza – e in quanto tali, pesa sul noi la condanna a confondersi in una miscela incolore a quell’ «identico qui come altrove / [dove] come altrove si recita il teatro fuori quadro».

Francesca Mazzotta

Luciano Mazziotta

Luciano Mazziotta

Luciano Mazziotta è nato a Palermo nel 1984. Specializzato in Scienze dell’antichità con una tesi sui rapporti tra filosofia e medicina in Galeno e Platone, ha vissuto tra Palermo, Amburgo, Berlino e Bologna. Attualmente vive a Bologna, e insegna lingua e letteratura italiana nei licei. Nel 2009 è uscita la sua prima silloge di poesie Città biografiche (editrice Zona) e nel 2014 Previsioni e lapsus, (Zona – Collana Level 48). Sue poesie e prose sono state pubblicate sui blog “Nazione Indiana”, “La dimora del tempo sospeso” e “Poetarum silva” di cui è anche redattore. Altri testi sono presenti sulle riviste Poeti e poesia (nr. 21), nel Registro di poesia #5 (D’if), in Semicerchio – Rivista di poesia comparata, su Argo (XVIII), e, da ultimo, nel numero XVIII di Ulisse. Poetiche per il XXI secolo. Il suo ultimo libro di poesie è Posti a sedere (Valigie Rosse 2019).

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