Appello da Gaza alla cultura italiana: una voce per il poeta Haidar al-Ghazali

La mia voce, la vostra voce
e il mio sangue, se accresce la vostra rabbia,
ora è vostro.
Insegnate ai vostri figli
che il corpo della terra è uno

Haidar al-Ghazali

«Riportami alla mia giovinezza / per un momento» è la supplica che il poeta palestinese Haidar al-Ghazali, che proprio ieri ha compiuto 21 anni, affida alla lingua smarrita dell’infanzia, nel mezzo della devastazione di Gaza. In pochi versi – pronunciati quasi sottovoce, come chi parla al margine dell’irreparabile – ci ricorda che la guerra non uccide solo i corpi, ma spezza le biografie, cancella le città e deruba i giovani del tempo per crescere, studiare. Solo con i due occhi chiusi si può camminare per la propria terra martoriata.

لحظةً
أمشي في الشوارع
مغمضَ العينين
فلا أجلس الآن
أرثي مدينةً كاملة.

ʿidnī ilā ṣabāy
laḥẓatan
amshī fī al-shawāriʿ
mughmaḍa al-ʿaynayn
falā ajlisu al-ʾāna
arthī madīnat(an) kāmila.

Riportami alla mia giovinezza
per un momento
a camminare per le strade
con i due occhi chiusi
affinché non mi sieda adesso
a piangere un’intera città

[traduzione di Francesco Ottonello]

Di fronte a tutto quello che sta accadendo, denunciato dal report di Francesca Albanese per le Nazioni Unite, non è più possibile restare in silenzio. Chi ha una voce, la usi. Chi scrive, scriva. Chi insegna, insegni la giustizia.

Chi può creare opportunità concrete – borse di studio, residenze letterarie, progetti di accoglienza e formazione – lo faccia ora. Questo articolo chiama in causa voi, lettori, poeti, intellettuali, scrittori, accademici, e chiunque abbia una voce e il potere anche minimo di fare qualcosa.

Si tratta di difendere ciò che resta umano nell’umano: il diritto a un futuro, alla parola, alla dignità. Restiamo umani, anche quando intorno a noi l’umanità pare che si perda, come diceva Vittorio Arrigoni.

Riportiamo qui la traduzione dall’inglese delle parole che Haidar al-Ghazali mi ha indirizzato personalmente affinché venissero diffuse tra la comunità culturale italiana. Esse sono tratte da un vocale, che riproduciamo con il suo consenso, e da cui si possono sentire i rombi degli aerei che sorvolano Gaza, intervallando la sua voce…

Traduzione in italiano

Ciao amico mio, grazie per il tuo interesse. Apprezzo tutto ciò che stai cercando di fare. Sì, puoi pubblicare questo sul tuo sito web. Penso che possa essere utile.
Vorrei ottenere una borsa di studio per studiare all’estero. Sai, tutte le università di Gaza sono state distrutte — completamente rase al suolo — a causa del genocidio. Il mio percorso di apprendimento si è interrotto quando è cominciato questo genocidio. Perciò vorrei ricevere una borsa di studio per studiare all’estero. Suggerisco anche di cercare un programma di residenza letteraria. Io sarei disponibile e penso che potrebbe essere utile anche come possibilità di evacuazione da questo massacro.
Viviamo in una situazione orribile — nella carestia, nella fame. E non riesco a credere che io stia vivendo davvero tutto questo. Sai, la situazione è insostenibile. Ottenere una borsa di studio o una residenza letteraria sarebbe utile per avere una possibilità di fuggire da questo massacro.

Aidar al Ghazali

Trascrizione in inglese

Hello my friend, thank you for your interest. I appreciate everything you are trying to do. Yes, you can share this on your website. I think it will be useful.
I would like a scholarship to study abroad. You know, every university in Gaza has been destroyed — totally demolished — as a result of the genocide. My learning journey stopped when this genocide began. So I want to get a scholarship to study abroad. I also suggest that you search for a literary residency. I would be available, and I think it would be useful as a way to evacuate from this massacre.
We are living in a horrible situation — in famine, in starvation. And I can’t believe I am actually living through this. You know, the situation is unbearable. Getting a scholarship or a literary residency would be helpful to have a chance to evacuate from this massacre.

 

 

Infine presentiamo tre poesie tratte dal volume Il loro grido è la mia voce. Poesie da Gaza, edito da Fazi Editore nel 2025, curato da Antonio Bocchinfuso, Mario Soldaini e Leonardo Tosti, e che raccoglie versi scritti da dieci autori palestinesi tra ottobre e dicembre 2023. Proprio su questo libro concludiamo la stagione di MediumPoesia 2024–2025, con un articolo critico di Davide Pinna in uscita domani.

23/04/2023
L’alfabeto degli universi

L’alfabeto degli universi
Vieni che sistemiamo l’alfabeto degli universi.
Segnerò l’appuntamento sopra le tue colline
e il flauto testimonia
e l’alba testimonia
e le mie barche affondate testimonieranno
che ballerò con la notte invecchiata
e prepareremo universi di poesia,
o fiore di melograno.
Vieni che sistemiamo l’alfabeto degli universi.

Portami sotto le tue palpebre;
perché il mare mi soffoca nella sua vastità
e dormi sui palmi delle mie mani,
la poesia cola dalle tue curve strette come respiri
per gli annegati.

Io sono la fenice, stanca delle storie di cenere
tolgo la mia leggenda ogni notte alla porta di casa,
divento un corvo,
prigioniero del tuo chiarore.
Poni il tuo mantello sul mio petto
e divento un gabbiano di mare o una colomba.
Vieni che sistemiamo l’alfabeto degli universi.

O paese degli affaticati,
perché hai colto l’ultimo fiore del melograno?
Perché ci lasciamo disegnare gli universi sui muri delle barche?
Perché, o paese degli affaticati,
i nostri petti sotto il mare,
sotto i cortei?
Tornerò un giorno dicendo:
quello che non sanno gli annegati
è che se non avessero portato con loro
i loro grandi sogni
tutte le barche non sarebbero affondate.

24/10/2023

Stavo per mettere un boccone di lenticchie in bocca
quando un razzo si è avvicinato al nostro quartiere,
chiudendo la finestra del sole con un mucchio di terra.

E poiché sono un poeta,
sarei sicuramente morto.
Mio padre abbraccia i miei fratelli e mia madre
tra le sue braccia
in un angolo,
e io sto sotto le lastre di zinco e le schegge,
osservando questa scena
per scriverla.

Sono corso verso la strada,
come un bambino,
fino a quando il nostro vicino ha messo la mano di una bambina
sul marciapiede di fronte a me,
quindi non ho distolto lo sguardo,
così ho capito che ero cresciuto.

Tornai a casa,
la polvere del crimine aveva occupato tutto,
e sulla tavola da pranzo
cinque piatti
e quattro cucchiai
e sopra di me un soffitto bucato.

Non ho trovato il mio cucchiaio.

29/02/2024

La bambina il cui padre è stato ucciso
mentre portava un sacco di farina
sulla schiena
continuerà a gustare
il sangue di suo padre
in ogni pane.

25/04/2024

Oggi
i giovani liberi si sollevano nelle università
e lanciano la loro voce nel vento.
Oggi vediamo cuori sgozzati come i nostri
e piangono per le madri che non hanno trovato tempo
per piangere.
Oggi
i giovani liberi si sollevano nelle università
e non verrà promosso
chi non supererà l’esame di umanità.

Oggi il mondo mostra una certa giustizia,
una certa umanità,
il loro grido è la mia voce
e il loro sangue è il mio
bolle come la mano di una bambina amputata sulla terra.
Siamo un buon mondo,
governato da demoni bianchi
Perché non diventiamo un solo mondo?
Perché non cresciamo insieme?

La mia voce, la vostra voce
e il mio sangue, se accresce la vostra rabbia,
ora è vostro.
Insegnate ai vostri figli
che il corpo della terra è uno,
che i confini della terra sono un’invenzione
e chi non rifiuta di uccidere
sarà ucciso facilmente.
Fermate il fuoco sui nostri petti
fermate il fuoco
perché possiamo seminare
la nostra terra
e nutrirvi.

Haidar al-Ghazali (2004). Poeta di Gaza. Finché gli è stato possibile ha studiato Letteratura inglese e Traduzione. Oggi la sua università è rasa al suolo. Dall’inizio dell’offensiva israeliana racconta l’assedio in versi, scrivendo ogni giorno, come lui stesso dice, «versi che sanguinano». Negli ultimi mesi i suoi testi sono apparsi, anche in traduzione, su diverse riviste. La poesia “I giovani liberi” letta in tutto il mondo nella traduzione “The intifada of the free youth”, e rivolta ai giovani in protesta nelle università occupate, contiene il verso che dà il titolo a questa raccolta. Leggere quotidianamente i suoi diari in versi, cercando di mantenere il contatto nonostante le continue fughe, i lutti e gli sfollamenti ha costituito un lavoro impegnativo e doloroso. Questo libro viene pubblicato nella speranza che un giorno potremo finalmente attraversare il Mediterraneo, noi e il nostro coetaneo al-Ghazali, e parlare di poesia con un passaporto alla pari.

Biografia tratta da “Il loro grido è la mia voce. Poesie da Gaza”, cit., pp. 75-76.




Noterella sui maturati bacchettoni, noia e ipocrisia

Forse dovresti accorgerti di non essere più giovane quando “ragazzi” — uomini? se questo è un… — pressappoco della tua età iniziano a ripetere i soliti discorsi bacchettoni, parlando di generazioni di sfaccendati, sconsiderati, senza responsabilità. Per non parlare della magico-rituale locuzione: “ai miei tempi”.

A dire che “noi” (?!) fummo a nostra volta definiti “bamboccioni” (Padoa-Schioppa, Brunetta) e “choosy” (Fornero), circa tre lustri fa. E così via da sempre: già nelle fonti latine, i vecchi si lagnano degli ingrati giovani.
Per fortuna — penso — sono sempre stato fuori tempo e fuori da ogni tribù del Noi: un giovane-vecchio, anti-anagrafico, con amici ottantenni e diciottenni al contempo, in arcipelago.
E ho sempre trovato assurda la retorica della maturità perpetuata dagli adulti, uno strumento di indirizzamento costrittivo verso un modello, in fondo ‘potere’. Diranno per mantenere l’ordine, la pace…
Così sto sospeso e avviluppato nel ramo, tra maturità marce che frenano ma rivorrebbero l’acerbo, e acerbità già marce che sognano un altro maturo.

Come se alcuni casi isolati poi rappresentassero una “generazione”, divenendo il simbolo. Un simbolo del solito, noioso, inveterato depensiero: voi giovani, voi vecchi, o tempora, o mores, 60, 80, 100.
Che noia, che noia, nonnulla! Ma che facciano quello che vogliono con il proprio voto e con la propria pelle, ricordo…

[…]
Ole, quid ad te,
de cute quid faciant ille vel ille sua?
[…]
Dicere quindecies poteram, quod pertinet ad te:
sed quid agas ad me pertinet, Ole, nihil.

Olo, ma che importa a te
che fanno quello o quell’altro della propria pelle?
[…]
Quindici volte avrei potuto dirti quel che ti riguarda:
ma quel che fai, a me riguarda, Olo, un bel nulla.

Marziale, Epigrammi, 7.10 (traduzione mia).

E intanto, in un’altra costa del Mediterraneo, tra maturi e bimbi, prosegue lo sterminio.
Lì, silenzio.

“Chi sente il suono del razzo sopravvive.
Siamo ancora vivi fino a nuovo avviso.” [1]

Così ha scritto la poetessa e biochimica Heba Abu Nada (1991–2023), cinque giorni prima di morire, sotto i bombardamenti israeliani a Gaza.

Ancora, qui, 60, 80, 100.

 

 

[1] “Il loro grido è la mia voce. Poesie da Gaza”, a cura di Antonio Bocchinfuso, Mario Soldaini, Leonardo Tosti, traduzione dall’arabo di Nabil Bey Salameh, Fazi, Roma 2025,  p. 71.




Il Pasolini uscito alla maturità 2025 davvero non è pasoliniano?

Le persone che scrivono che il testo di Pier Paolo Pasolini (1922-1975) uscito per la maturità non è “pasoliniano” forse ignorano grossolanamente le sfaccettature della sua poetica. Esistono testi più rappresentativi, si dice. Ma perché? Forse perché alcuni hanno letto solo un certo Pasolini, o lo hanno letto solo in un certo modo. Pasolini è scandalo ma anche fragilità, ardore ma anche delicatezza, dagli esordi fino al cosiddetto “Pasolini apocalittico” degli anni Settanta.

Se Pasolini pubblica come ultima silloge Trasumanar e organizzar (1971), è poi anche con L’hobby del sonetto – ignorato dai più e mai uscito come libro autonomo – che si coglie la sua intima desolazione, il senso profondo di esclusione dal consorzio civile, dovuto primariamente alla sua omosessualità. Pasolini fu il primo poeta italiano moderno a esporsi pubblicamente in questo senso. E si scaglia contro la società borghese anche perché si sente rigettato da essa. Pensando alla vicenda amorosa con Ninetto Davoli, parla di un «patto reciproco» che non si può sancire legalmente e di invidia per lo «stupido anellino», simbolo dell’amore borghese a lui negato (al riguardo rimando a questo mio contributo).

Premesso ciò, concentriamoci sul testo proposto per la prima prova della maturità 2025 come traccia A, tratto dalla Appendice I a Dal diario (1943-1944). Sicuramente non è il Pasolini più noto delle Ceneri di Gramsci (1957), non è il polemista degli Scritti corsari (1973-1975), ma trovo piuttosto scorretto e ingiusto liquidarlo come un ‘Pasolini non pasoliniano’: un poeta ‘lirico’ innocuo da cameretta, con utilizzo del termine in senso deteriore e snobistico.

Il percorso poetico di Pasolini esordisce all’insegna del friulano e della rivisitazione anche in italiano della tradizione lirica classica e in particolare dei temi idillico-elegiaci. Ma come non cogliere la desolazione di chi osserva da una stanza chiusa “un medesimo mondo” che non cambia durante il Fascismo e la Seconda Guerra Mondiale, mentre il cuore muta e avviene il passaggio dall’adolescenza alla maturità? Stupenda e per nulla banale è l’immagine delle “mille lune” che “non son bastate a illudermi di un tempo / che veramente fosse mio”. Pasolini ha sempre ricercato ossessivamente quel tempo e – se si legge attentamente il testo – la chiave interpretativa è proprio nell’ossimoro, cifra stilistica di tutto Pasolini.

La luna – simbolo ricorrente nella tradizione lirica e che può indicare anche la speranza d’amore – si rinnova quando il poeta riscopre “il canto antico”, proprio nel momento in cui il “perfetto inganno”, quello perpetuato dalla società repressiva, che lo tiene chiuso in camera, sembra non potere più dare spazio alla speranza di un mutamento. C’è tutto Pasolini in nuce, anche nella sua splendida naïveté, nel suo ideale di trovare in un mondo pre-industriale, antico, una possibilità di salvezza a quella lancinante desolazione. E così il Pasolini che passa dall’adolescenza alla giovinezza attraversa tutta la tradizione lirica, da Saffo a Pascoli, cercando di rivitalizzarla.

Chi lo ha studiato davvero sa che l’autore di Casarsa già dagli esordi è vicinissimo alla lirica greca arcaica, a Leopardi e a Pascoli – non a caso due poeti non propriamente inquadrabili, anche sul piano ‘sessuale’, nel modello normato della loro epoca. In sintesi, se si ignora questo Pasolini, non si capisce l’altro Pasolini. In questo c’è l’altro, e viceversa, inscindibilmente.

Ma questo, in fondo, importa poco. Il testo proposto alla maturità permette molteplici collegamenti con i programmi affrontati, dalla letteratura italiana a quella classica, fino alla storia e alla filosofia. Il problema è forse che PPP nei programmi nemmeno compare e in nessuna veste era mai comparso alla maturità. Non lo conoscono i discenti, ma forse nemmeno i docenti.

Ricordo che non fu mai menzionato nel mio programma di liceo, come fosse un tabù, se non dalla docente di inglese, che era all’avanguardia. Lo studiai per conto mio e decisi di portarlo io all’esame, dato che mai sarebbe potuto ‘uscire’, intitolando la tesina: Pier Paolo Pasolini: teoria e critica della società. E infischiandomene delle logiche di punteggio.

Da allora ho proseguito gli studi pasoliniani, dalla tesi di laurea triennale fino ai contributi scientifici più recenti. E continuo a parlare nelle aule di Pasolini, autore frainteso e ancora oggi poco compreso, usato spesso come insegna ideologica o ridotto a propaganda, come è emerso dal numero speciale che ho curato per l’Ulisse nel 2024: Pasolini e il suo mito. Tradizione letteraria e metamorfosi intermediali.

Mi auguro quindi, al di là delle polemiche, che il suo tardivo ingresso alla ‘maturità’ sia un segnale per iniziare a studiarlo seriamente nelle scuole, insieme al vivo pullulare letterario del secondo Novecento, da Andrea Zanzotto a Vittorio Sereni, fino alla contemporaneità anni Duemila, di cui urge riappropriarsi.

Invece, si è tornati indietro, negli anni Sessanta/Settanta si studiavano i poeti e gli autori viventi, ora non solo sono ignorati i contemporanei, ma anche i loro predecessori novecenteschi vengono trattati frettolosamente, solo se ‘avanza’ tempo. E tempo non avanza quasi mai…

Appendice I, Dal diario (1943-1944)

Mi ritrovo in questa stanza

col volto di ragazzo, e adolescente,

e ora uomo. Ma intorno a me non muta

il silenzio e il biancore sopra i muri

e l’acque; annotta da millenni

un medesimo mondo. Ma è mutato

il cuore; e dopo poche notti è stinta

tutta quella luce che dal cielo

riarde la campagna, e mille lune

non son bastate a illudermi di un tempo

che veramente fosse mio. Un breve arco

segna in cielo la luna. Volgo il capo

e la vedo discesa, e ferma, come

inesistente nella stanca luce.

E così la rispecchia la campagna

scura e serena. Credo tutto esausto

di quel perfetto inganno: ed ecco pare

farsi nuova la luna, e – all’improvviso –

cantare quieti i grilli il canto antico.




Per i cento anni dall’uscita di “Ossi di seppia” – Franco Buffoni su Eugenio Montale e Boris Kniaseff

Il danzatore russo Boris Kniaseff venne ammirato da Eugenio Montale nel gennaio del 1923 mentre si esibiva sul palco del Teatro Verdi di Sestri Ponente. Pochi giorni dopo il poeta potette incontrarlo nell’atelier genovese dello scultore Francesco Messina, dove Kniaseff posava. 

Sin dall’apparizione di Ossi di seppia non poterono esserci dubbi sul fatto che il dedicatario “a K” della lirica “Ripenso al tuo sorriso” fosse di genere maschile: al quinto verso “o lontano” è un vocativo al maschile; al settimo gli aggettivi “vero” e “raminghi” sono declinati al maschile. Va dunque riconosciuto il coraggio del giovane Montale che dignitosamente evitò di falsificare il genere del dedicatario.

Il fatto poi che Montale tradusse personalmente in francese “Ripenso al tuo sorriso” affinché Kniaseff potesse leggerla, dimostra il profondo coinvolgimento emotivo del poeta venticinquenne nei confronti dello stupendo danzatore. Un legame cripticamente confermato da Montale trent’anni dopo, nel 1955, quando in un articolo sulla pagina culturale del “Corriere d’Informazione” intitolato “La fiera di Soročincy di Musorgskij e racconto d’inverno di Rossellini”, il poeta citaKniaseff come coreografo de “La fiera di Soročincy”.

Sorprende quindi l’involuzione successivamente subita da Montale. Noto è il suo odio per Pasolini: arrivò al punto di ingiungere al giovane Claudio Magris di non nominare mai Pasolini, né sul “Corriere” né altrove, indipendentemente dall’argomento. Di Pasolini non si doveva parlare, punto e basta. Giunse persino a rimproverare Mario Soldati per certi suoi racconti d’argomento “freudiano-sessuale”. E a non risparmiare il suo disprezzo – anche pubblico – per Palazzeschi in quanto omosessuale, perfino in un congresso fiorentino a lui dedicato, in cui fu invitato a parlare. 

Un altro autore su cui calò la sua potente mannaia fu Giovanni Testori, che praticava l’omosessualità e non lo nascondeva. L’ostracismo di Montale nei suoi confronti fu tale che per anni sul “Corriere” non solo Testori non potette pubblicare una riga, ma nemmeno apparvero recensioni ai suoi libri e al suo teatro. C’è un episodio illuminante ambientato nel foyer della Scala, che illustra la rottura definitiva tra i due. Testori vi si era recato con Alain, il suo giovane amico francese “considerato quasi un figlio, di grande bellezza”, come scrisse Camilla Cederna. Incrocia Montale e fa per presentarglielo. Montale gli volta le spalle e si allontana. “Ce n’est pas un poète, c’est une merde!”, grida Alain. Al riguardo ho scritto questi versi:

Aveva il sorriso di K
L’amico di Gianni Testori,
Proprio per ciò ne scansasti 
La mano. Guardando fuori.

Boris Kniaseff nel 1920, Studio Llaguno
Studio Llaguno ~ Le danseur Boris Kniaseff, ca. 1920. Épreuve argentique d’époque. | src Ader Auktionen
Un giovane Eugenio Montale in divisa

Eugenio Montale, da “Ossi di seppia” (1925)

 

a K.

 

Ripenso il tuo sorriso, ed è per me un’acqua limpida
scorta per avventura tra le petraie d’un greto,
esiguo specchio in cui guardi un’ellera i suoi corimbi;
e su tutto l’abbraccio d’un bianco cielo quieto.

Codesto è il mio ricordo; non saprei dire, o lontano,
se dal tuo volto s’esprime libera un’anima ingenua,
o vero tu sei dei raminghi che il male del mondo estenua
e recano il loro soffrire con sé come un talismano.

Ma questo posso dirti, che la tua pensata effigie
sommerge i crucci estrosi in un’ondata di calma,
e che il tuo aspetto s’insinua nella mia memoria grigia
schietto come la cima d’una giovinetta palma…




“Napoli Grande Signora” di Augusto De Luca

Questo mio progetto fotografico e questo mio testo rappresentano non solo un omaggio alla bellezza della mia città, ma anche una profonda esplorazione del suo spirito, un viaggio visivo attraverso una città sospesa nel tempo, rappresentata senza la presenza umana, solo attraverso le sue architetture, i suoi spazi e i giochi di luce che la attraversano. 

“Sono nato a Napoli, dove ho vissuto stabilmente fino a qualche anno fa. L’allontanamento mi ha fatto scoprire il grande segreto di questa città che, con i suoi abitanti, rappresenta un unicum straordinario. È lo scontro del FUOCO del Vesuvio con L’ACQUA del Golfo che governa le funzioni vitali di tutto l’universo partenopeo. Così nascono stimoli creativi e grandi passioni. Ed ecco venir fuori cento, mille Napoli. La Napoli di opere magiche quotidiane legate alle emozioni, alle angosce, alle paure di timbro infantile. La Napoli del mistero che ha per effetto di dare a ciascun accadimento, per quanto familiare e riconoscibile, un carattere di mai veduto e di coltivare, in tale spiazzamento, la più profonda e singolare delle seduzioni. 
Come dice un mio vecchio e caro amico, con un pizzico di amara ironia mista ad orgoglio: “Napoli è creatura inespugnabile e ruffiana, sempre in trance e sempre sveglia, divisa in eterno tra ambulanti e deambulanti, in una sorte di frenetico disordine cellulare, consumando le sue malattie alla vista di tutti e tanto chiassosamente da lambire il silenzio assoluto”. Napoli è un enigma che si offre fatalmente alla chiave onirica. Città surreale per eccellenza, con un santo che, nel surreale, brucia una particolare dedizione a quel popolo alchemico di cui è protettore. Il miracolo di San Gennaro non è un miracolo qualsiasi, è un evento unico al mondo, un prodigio che si ripete ogni anno perché non vadano a vuoto le invocazioni più perentorie e più fantasiose d’una massa di fedeli che dialoga a modo suo col trascendente. A differenza di altre città ogni elemento fondante è separato dal contesto urbano ed è incorniciato dall’ampio e luminoso golfo. Golfo e Vesuvio, insomma, fanno da sfondo placentare al Maschio Angioino, al Castel dell’Ovo, al Castel Sant’ Elmo, al Palazzo Reale. La particolare luce ed il particolare azzurro del cielo, contaminato solo da piccole e nitide nuvolette magrittiane, rendono l’atmosfera assolutamente surreale e gli stessi abitanti con il loro linguaggio icastico (a faccia toia è calamita e paccher – “la faccia tua è calamita di schiaffi”; a panza toia è fodero e curtiello – “la pancia tua è fodero di coltello”) mi ricordano le rappresentazioni di due artisti del ‘500 che io considero i precursori del surrealismo: Pieter Bruegel il vecchio e Hieronimus Bosh. Verità e finzione, realtà e immaginazione, sempre tutto esageratamente, eccessivo, contraddittorio, ma, sotto la Napoli del contrasto, della bella cartolina e del buio e tetro vicolo, è la città dal grande passato che mi incanta.
Quando sono a Napoli mi piace passeggiare alle 6 del mattino per via dei Tribunali. In questa strettissima via c’è un antico palazzo con un portico alto e nero sotto il quale, dopo aver chiuso gli occhi, aiutato da un particolare odore presente solo nei vicoli di Napoli, viaggio a ritroso nel tempo, come scrive Jean Paul Sartre: “Certe volte basta un selciato sconnesso, respirare un odore ed ecco che la città è lì, attorno a te”. È una sensazione meravigliosa rivedere immaginandoli quei posti popolati da personaggi con lunghe parrucche bianche, merletti e mantelli, ‘sentire’ gli zoccoli dei cavalli e le ruote dei carri sul selciato sconnesso. È così che entro in sintonia con l’anima della città. La Napoli che era tappa obbligatoria per gli uomini di cultura di tutta Europa. La Napoli che ha ispirato e influenzato artisti di ogni genere e che è ancora presente attorno a me… la Napoli Grande Signora”. 

Augusto De Luca



Augusto De Luca, (Napoli, 1 luglio 1955) è un fotografo e performer. Ha ritratto molti personaggi celebri.
Studi classici, laureato in giurisprudenza. È diventato fotografo professionista nella metà degli anni ’70. Si è dedicato alla fotografia tradizionale e alla sperimentazione utilizzando diversi materiali fotografici. Il suo stile è caratterizzato da un’attenzione particolare per le inquadrature e per le minime unità espressive dell’oggetto inquadrato. Immagini di netto realismo sono affiancate da altre nelle quali forme e segni correlandosi ricordano la lezione della metafisica. È conosciuto a livello internazionale, ha esposto in molte gallerie italiane ed estere. Le sue fotografie compaiono in collezioni pubbliche e private come quelle della International Polaroid Collection (USA), della Biblioteca Nazionale di Parigi, dell’Archivio Fotografico Comunale di Roma, della Galleria Nazionale delle Arti Estetiche della Cina (Pechino), del Museo de la Photographie di Charleroi (Belgio).




Radici Urbane | Concorso per poesie e racconti inediti

La parola scritta è la traduzione di una esperienza reale, di una visione o di un sogno. Attraverso la scrittura, creiamo il nostro ordine, la nostra filosofia del mondo, la nostra biografia. E non importa se ciò che si scrive si presta o meno a essere catalogato: la letteratura sfugge alle etichette e dà nuovi
significati alle cose. Secondo questa idea – che non contempla liniti a stili e temi – e nell’intento di dare voce agli autori emergenti offrendo uno spazio alle storie altrui, l’Associazione Requiem for a film APS, in collaborazione con Poetarum Silva, indice la Prima Edizione del Premio Nazionale Radici Urbane 2025. Che si tratti di una raccolta di versi o di un racconto, inviate i vostri testi inediti entro e non oltre il 1° aprile 2025 a radiciurbane.concorso@gmail.com seguendo le istruzioni che troverete nel bando riportato di seguito.

 

L’Associazione Requiem for a film APS
in collaborazione con Poetarum Silva
indice
la Prima Edizione del

Premio Nazionale – Radici Urbane 2025

Uno scrittore è una persona per cui scrivere è più difficile che per gli altri”

Thomas Mann

 

Finalità del Concorso

La parola premio potrebbe apparentemente richiamare a sé, correlata, quella di gara, e dunque concorso, sfida addirittura, in un’ottica che vede l’arte risucchiata dalla pura performance. Accantonate questi concetti e condividete con noi una storia inedita, un’idea, una visione: daremo vita alla parola scritta – sia essa una raccolta di versi o un racconto – per trasformarla in una pubblicazione e in un progetto più esteso, al di là della pagina per giungere sino allo schermo. Non ci sono limiti di genere e i temi sono liberi.

Il concorso è aperto e accessibile a tutti i cittadini, italiani e non, che abbiano compiuto il diciottesimo anno di età alla data di apertura delle iscrizioni.
Sono ammesse all’esame della Giuria solo opere inedite redatte in lingua italiana, a tema libero. Per inedite si intendono opere mai pubblicate da una regolare casa editrice, sprovviste di codice ISBN, non sono inoltre ammesse le opere già comparse online su blog e riviste e/o quelle che hanno partecipato ad altri concorsi e inserite in antologie. Le opere devono restare tali per tutta la durata del concorso fino alla sua naturale conclusione ovvero la proclamazione dei vincitori in occasione della cerimonia di premiazione.

 

Le sezioni

 

Sezione A: L’arte del racconto

Il testo non deve superare le diciottomila battute. Tema libero.

Sezione B: La Silloge del futuro

Dieci poesie inedite in lingua italiana. Tema libero.

 

Modalità d’invio

Si concorre inviando un’opera inedita in lingua italiana: racconto e/o silloge poetica. Gli elaborati dovranno essere inviati entro e non oltre il 01/04/2025.
È possibile partecipare e dunque inviare il proprio elaborato a più sezioni contemporaneamente. I testi vanno inviati esclusivamente via mail all’indirizzo radiciurbane.concorso@gmail.com seguendo le istruzioni riportate riportate di seguito.

L’email dovrà contenere:

  • L’opera in allegato
  • Una breve biografia dell’autore (max 600 parole)
  • I dati di contatto (nome, cognome, indirizzo, numero di telefono, email, social media). Il nome dell’autore non va indicato all’interno del file, pena la squalifica.

I relativi dati anagrafici (nome, cognome, data di nascita, indirizzo, recapito telefonico, email) vanno inseriti nel corpo della email, e non all’interno degli elaborati.

Il file deve essere inviato in formato docx, doc o pdf.

Formattazione del file racconto: carattere Times New Roman, corpo 12, interlinea singola, giustificato, margini di 2,5 centimetri. Inserire il numero di pagina in basso a destra. In alto, a bandiera sinistra, inserire il titolo dell’opera.

L’invio della mail contenente l’opera e i dati fiscali dell’autore, è da intendersi come volontà espressa dall’autore e sua accettazione di tutte le clausole sopraindicate.

La Giuria

La nostra Giuria è composta da un team scelto di autori e autrici, editor ed esperti del mondo editoriale e cinematografico che accompagneranno i vincitori in un eventuale percorso di editing propedeutico alla pubblicazione finale.

 

Sezione Racconto

Giulia Bocchio

Nata a Tortona nel 1991, è autrice e giornalista.
Ha studiato presso le Università di Caen e Genova. In poesia ha pubblicato le raccolte Harmattan Poetico (Ass. Talento) e Il vento del vanto (Genesi); nel 2016 il saggio L’Olimpo nero del sentire (Marsilio) e nel 2020 il romanzo La febbre dell’io (Il Ponte Vecchio). Suoi articoli e altri scritti sono usciti su L’Indiscreto, minima e moralia, Il Fatto Quotidiano, Nazione Indiana, Vernice e altre riviste e blog online. Scrive per Il Piccolo e dirige il collettivo artistico Poetarum Silva. Sue poesie sono state tradotte in lingua romena all’interno della raccolta Euroversuri.

Deborah D’Addetta

È nata in Puglia nel 1986, vive a Napoli. Fa parte del collettivo «Spaghetti Writers» per cui scrive racconti ed è redattrice, recensisce libri per «Critica Letteraria» ed è contributor di varie testate tra cui Italy Segreta, Mar dei Sargassi, City News – Napoli Today. Molti suoi racconti e scritti di natura saggistica sono stati pubblicati su riviste letterarie. Vince il premio letterario “L’Avvelenata con Blam” nel 2021.

Antonio Esposito

Antonio Esposito è nato a Napoli nel 1989. È editor di narrativa e co-dirige la rivista culturale Grado Zero. Suoi racconti e articoli sono apparsi su Minima&Moralia, In allarmata radura, Ostranenie, Rivista Blam!, Spaghetti Writers, K de Linkiesta, e altri.

Claudia Grande

Nata a Chieti nel 1990 lavora in Rai Pubblicità come copywriter e content creator. Suoi racconti sono stati pubblicati su diverse riviste, fra cui Frankenstein Magazine, L’Indiscreto, e L’Inquieto. Bim Bum Bam Ketamina, edito da Il Saggiatore, è il suo primo romanzo.

Federico Riccardo

È nato nel 1991 a Milano. Si è laureato in Scienze dei Beni Culturali presso l’Università degli Studi di Milano con una tesi sul teatro indiano. Lavora come ufficio stampa, consulente artistico, ghostwriter e redattore di articoli per il web. Scrive racconti da quando è bambino. Con la casa editrice Bookabook ha pubblicato il libro Il tempo è il binario di un tram cui è seguito Le vie di mezzo – Esercizi di immobilità. Nel 2022 è il turno della sua prima raccolta di poesie, dal titolo Amore e Griffonia. Nel 2023, per Edizioni Effetto ha pubblicato la raccolta di racconti Erotica Liquida, con Simone Sciamè. Ha fondato il magazine online Topsy Kretts, completamente incentrato sui racconti brevi contemporanei.

Simone Sciamé

È nato ad Alessandria nel 1993. Ha curato una rubrica di recensioni di libri per Radio Gold. Ha pubblicato la raccolta di racconti: Erotica liquida (Edizioni Effetto, 2023). Suoi racconti sono stati pubblicati su riviste letterarie come Grande Kalma, Gelo e Topsy Kretts, per la quale è editor e scout.

 

Sezione Poesia

Annachiara Atzei

Nata a Oristano nel 1979, vive e lavora a Cagliari. Scrive su Poetarum Silva, su Antas – Bimestrale di ambiente, storie e personaggi della cultura sarda e su Erbafoglio. È autrice della raccolta di poesie Inavvertita luce (Eretica edizioni, 2021) con postfazione di Orso Tosco. I suoi componimenti sono apparsi su Nazione Indiana, MediumPoesia, Poetarum Silva, Bottega della poesia, Poeti Oggi, Almapoesia e Mimimapoesia.

Giammarco di Biase

È nato a Foggia nel 1993. È giornalista e operatore culturale. Scrive di letteratura su magazine e collabora con il «Corriere del Mezzogiorno». Suoi inediti sono apparsi su «Avamposto Rivista di poesia» e «la Repubblica». È autore della raccolta S’aggrinza un astro (Edizioni Ensemble).

Roberto Cescon

È nato nel 1978 a Pordenone dove vive e insegna. Ha pubblicato Vicinolontano (Campanotto, 2000), Il polittico della memoria. Aspetti macrotestuall sulla poesia di Franco Buffoni (Pieraldo, 2005), Disabile chi? La vulnerabilità del corpo che tace (Mimesis, 2020) e Di tutti e di nessuno. Una poetica della specie? (Industria & Letteratura, 2022). Suoi racconti sono inseriti nell’antologia Scontrini (Baldini e Castoldi, 2004). Nel 2010 esce, per Samuele Editore, il volume di poesie La gravità della soglia. Seguono le raccolte La direzione delle cose (Ladolfi, 2014) e Distacco del vitreo (Amos Edizioni, 2018). Con Natura (Stampa, 2009) è stato uno dei finalisti della cinquina del Premio Strega Poesia 2024.

Francesca Matteoni

È folklorista e autrice di libri di poesia fra cui Artico (Crocetti, 2005), Acquabuia (Aragno, 2014), Ciò che il mondo separa (Marcos y Marcos, 2021), dei romanzi Tutti gli altri (Tunué, 2014) e Tundra e Peive (nottetempo, 2023), delle fiabe Io sarò il rovo. Fiabe di un paese silenzioso (effequ, 2021) e del saggio Dal Matto al Mondo. Viaggio poetico nei tarocchi (effequ, 2021). Ha all’attivo pubblicazioni accademiche in italiano e inglese, è curatrice e ideatrice di numerosi mazzi di tarocchi. Ha partecipato alle antologie La scommessa psichedelica (Quodlibet, 2020) e L’anno del fuoco segreto (Bompiani, 2023) ed è collaboratrice delle riviste «L’Indiscreto» e «Nazione Indiana», dove scrive di letteratura, ecologia, fiabe, tradizioni magiche.

Francesco Ottonello

È nato a Cagliari nel 1993. È poeta e saggista. Isola Aperta (2020) ha vinto il Premio Gozzano e il Premio Internazionale Città di Como nella categoria opera prima (motivazione di Milo De Angelis). È il primo autore sardo a essere incluso nei Quaderni italiani di poesia contemporanea con la raccolta Futuro remoto (2021, pref. Paolo Giovannetti). Le sue poesie sono state tradotte in inglese, portoghese, spagnolo, francese, greco e sono presenti in diversi volumi antologici e riviste. Come studioso si occupa di ricezione classica nella letteratura italiana, studi sull’eros e di genere, poesia contemporanea, Translation Studies, Island Studies. Ha pubblicato due monografie: Pasolini traduttore di Eschilo (2018) e Franco Buffoni un classico contemporaneo (Premio Forum Traiani Saggistica 2023). Nel 2024 ha conseguito il dottorato di ricerca presso l’Università di Bergamo con una ricerca incentrata sulla ricezione del mito di Ganimede. È redattore di “Testo a fronte” e dirige https://www.mediumpoesia.com.

 

Il giudizio della Giuria si intende come insindacabile e inappellabile.

 

Premi e riconoscimenti

 

Sezione A: I racconti vincitori saranno pubblicati su Poetarum Silva e Topsy Kretts secondo le modalità stabilite dalla Giuria votante.

Sezione B: I testi poetici selezionati dalla Giuria votante saranno pubblicati in esclusiva su Poetarum Silva accompagnati da un’intervista all’autore.

La partecipazione al concorso implica l’accettazione incondizionata del presente regolamento.

L’Associazione Requiem for a film si riserva il diritto di apportare modifiche al bando qualora se ne presentasse la necessità.

La Cerimonia di premiazione del concorso si terrà 21/06/2025.

I vincitori saranno avvisati via email e telefono entro il 01/06/2025.

Gli stessi dovranno essere presenti alla cerimonia di premiazione.
In caso di indisponibilità, sarà richiesto un video contributo di ringraziamento.

 

Informativa sulla Privacy

I dati personali forniti dai partecipanti saranno trattati in conformità al Regolamento UE 2016/679 (GDPR) e utilizzati esclusivamente per le finalità connesse al concorso.

Per ulteriori informazioni, contattare l’Associazione Requiem for a film APS all’indirizzo radiciurbane.concorso@gmail.com




La Generation ‘П’ di Viktor Pelevin: capitalismo e letteratura nella Russia post-sovietica

In Russia c’è stata una generazione fregiatasi del privilegio di traghettare il suo Paese verso le distese rigogliose del paradiso liberista, una generazione slanciata e dinoccolata, che già all’alba degli anni ’80, nella profonda steppa comunista, veniva sfiorata dal vento occidentale. Dieci anni più tardi ne verrà completamente travolta, svoltando l’incrocio, e si ritroverà a costeggiare decadenti palazzi di un’ideologia ormai usurata, fino ad allora ritenuta eterna.

All’insegna di questo clima si apre il romanzo di Viktor Pelevin Generation “П” (1999; tr. it. di K. Renna, T. Olear, Babylon, Mondadori 2000), con il simulacro del prodotto, la Pepsi (da cui Generation P); intenta a sgrassare via l’eternità dai piedistalli, mentre, alle sue spalle, il popolo consumava l’interramento dell’ideologia preesistente nella fenditura scavata dal coltro capitalista. Crebbe così una ricerca galoppante quasi in senso dogmatico del profitto, orbitante intorno ai moderni mezzi di comunicazione americani; il motto cedette il passo allo slogan, e venne insegnata la perizia nella ricerca di opportunità.

I cingoli della pubblicità irruppero quindi a Mosca e imposero agli acclamanti una scelta: soccombere o salire sul carro prosperoso del denaro facile. Il microsistema delineatosi, in cui cacciatori e prede si rincorrevano fino a venir fagocitati da chi, nella piramide sociale, giaceva sopra di loro, non consentiva al singolo individuo di emergere pienamente, se non sotto l’egida di una grande azienda nutrita dal sole della deregolamentazione economica.

Il protagonista Vavilen – che il narratore chiama sempre con il cognome Tatarskij – come tanti altri russi deve, dunque, incunearsi nella caotica realtà post-sovietica. Poeta alle prime armi, sfumato l’ingresso presso il dipartimento di poesia dell’Istituto letterario, studierà tecniche di traduzione delle lingue dei popoli dell’URSS. Dopo la caduta del regime, tra le alternative racimolate, emergerà dal setaccio l’impiego presso un chiosco di ceceni, in cui manifesterà fin da subito una scaltra maestria chiromantica unita ad un variopinto cinismo.

L’anti-stachanovismo che lo contraddistingue faciliterà l’incontro con un vecchio compagno di studi che, prendendo inaspettatamente la funzione di donatore fiabesco, rivestirà l’eroe postmoderno di allettanti scenari, intarsiando la sua curiosità.

Consacrato frettolosamente alla carriera del copywriter, sotto un pacco di Davidoff ritirerà il nullaosta per il nuovo impiego, su cui, con l’impacciataggine dell’ultimo arrivato, tenterà di scarabocchiare la propria poesia. Tatarskij si mostra desideroso nel vendere la propria sophia al miglior offerente; si cimenta, pertanto, nella creazione di slogan pubblicitari, capaci di sgusciare nella mente del cittadino russo e di immergerla nella stessa sensazione di vuoto che ricopriva a lutto la statua di Karl Marx in piazza Teatralnaya, sanabile unicamente attraverso l’acquisto del prodotto promosso. Pelevin assegna a Tatarskij una riflessività laboriosa e disciplinata, in grado di flettersi al repentino mutamento della dimensione temporale, dove l’immutabilità collettivista lascia presto il passo al presente elargito alla spicciolata, Davidoff dopo Davidoff.

A Pelevin non interessa descrivere l’universo consumistico in senso generale, affiora piuttosto la volontà di circoscrivere l’indagine all’impatto che esso produce nella società russa. La discrasia tra l’eterno diroccato e il concreto orizzonte quotidiano accompagna, dunque, costantemente il protagonista; a questa frattura si sovrappone l’eco del passato mitico, quello delle ziggurat e delle divinità babilonesi, un territorio lontano nello spazio e nel tempo in cui viene profetizzata la sorte del kosmos peleviniano.

Il legame sotteso fra questa realtà arcana, carica di timore reverenziale, e il variopinto quadro della Russia contemporanea – privo di ogni solennità – trascina con sé sagome sfocate, strappate alle dottrine occulte babilonesi in un’aura carica di misticismo orientale. Emerge, fra queste visioni folcloriche, il “mito delle tre grandi ere del cielo”, inserito nella narrazione metaletteraria – costruita dentro la lettura di una tesi dottorale in storia antica – al fine di esasperare le proprietà magico-rituali dell’ovolo magico. Bizarreries rimpinzate d’ironia (come il macinino ricoperto di lettere tibetane) e incastonate in piani narrativi deformi, tutti sorretti dall’elemento parodico; ebbene, l’intento è schernire fino a mistificare, smontare i ramificati scomparti in cui si dividono i diversi piani e riassemblarli distruggendo – o plasmando a seconda dei casi – la consequenzialità fra questi. Il tutto è convogliato all’interno di una cornice surrealista: Tatarskij è un surrealista-munifico, incapace di comprendere e governare le stranezze che va creando.

La parodia è presente fin dal principio della narrazione, quando la scelta della Pepsi da parte dei bambini sovietici degli anni ’70 appare coscienziosa e consapevole, a tal punto da venire equiparata all’elezione di Breznev. L’ironia post-moderna, adoperata non come espediente retorico momentaneo ma come legame strutturale nella costruzione del personaggio e dell’ambiente circostante, si mostra secondo Sophia Khagi quale elemento destabilizzante di ogni genere di discorso, confinando il soggetto a «effect of narration»[1].

In Babylon quest’ultimo si configura come un caso di auto-parodia; attraverso continui riferimenti biografici Vavilen ironizza sui lineamenti che va assumendo la Russia contemporanea. Lasciando che divampi la mancata conclusione di ogni processo, nulla appare stabile: la professione di copywriter, l’origine del proprio nome, l’eternità rappresentata dal mondo collettivista. L’autore, dunque, stando alla definizione fornita da Bachtin, aggira la risoluzione dei fenomeni attraverso «various forms of reduced laughter (irony)»[2].

Il veicolo della satira nel romanzo si presenta tramite il sovrabbondare di metafore, paradossi, aforismi, e talvolta prende le sembianze dello sperimentalismo linguistico. Si pensi ad esempio alla metafora che vede Darth Vader impersonificare il “comunista in carriera”, per cui la parodia contiene al suo interno un’ulteriore ironia, in un gioco geometrico sempre più raffinato:

Gli tornò in mente Darth Vader e il suo fischio asmatico: era rimasto impressionato da quanto sembrasse la perfetta metafora di un comunista in carriera; di sicuro da qualche parte sulla sua navicella spaziale erano nascosti anche un rene artificiale e due squadre di medici.

Come osservato da Irina Rodnianskaia[3], Pelevin si può configurare come un esteta, dal momento che, perseguendo una ricerca di criteri estetici – spesso radicati nel surreale –, non misconosce la figura di scrittore-stilista tanto cara a Vladimir Nabokov. Pelevin veste con cura i panni dello scrittore nabokoviano, diviene un esteta della risata. Se alla risata affida le chiavi dello sconvolgimento lungo tutta la narrazione, all’esteta affida l’onere di revolvere il suolo su cui verranno poi trasportati i protagonisti.

L’incertezza costituisce un altro tratto marcato della fisionomia caratteriale vavileniana, sia nella produzione degli slogans, spesso rammendati in un continuo labor limae comico-realista, sia nei legami sviluppati con le categorie sociali che transitano lungo la sua quotidianità (da Sergueï Morkovine ad Andrej Gireev). Da un lato, Pelevin porta all’esasperazione l’interdipendenza fra testo e immagine, come accade nella scrittura di Michel Butor, creando numerosi riquadri surrealisti e bizzarri; d’altro lato, restituisce all’oggetto la sua natura simbolica, come nel paragone tra la scelta della Pepsi e l’elezione di Breznev.

Viene quindi rafforzata l’indagine attorno all’oggetto, laddove in Butor prevale la mera descrizione fisica. Per Butor prima e per Pelevin poi «l’image et le texte se conjuguent pour produire un effet visuel singulier»[4], lo scopo che risalta è rendere insignificanti i singoli, lasciare che lo spazio divampi fagocitando il protagonista. L’eco marcusiano ristagna fra le pieghe del romanzo peleviniano; Vavilen si forma sotto gli insegnamenti di una falsa coscienza inquieta, lui stesso rappresenta l’eroe postmoderno, trait d’union tra la realtà esterna, autogovernata dalla mutazione consumistica, e la realtà interna, costituita dalla propria poesia repressa.

In conclusione, Generation “П” merita a buon ragione un posto alla tavola dei grandi classici contemporanei, non tanto per l’ironia post-moderna che pervade diversi piani temporali e nemmeno soltanto per la rielaborazione marcusiana della società russa, quanto soprattutto per l’originalità stilistica e per l’acutezza ‘avanguardista’ con cui l’autore ha prefigurato il mondo dell’immaginario digitale. Questa si evince in particolare dalla teoria dell’Homo Zapiens, non priva anche qui d’ironia ed esposta dallo stesso protagonista in un capitolo centrale del libro (il settimo). L’essere umano diventa per Tatarskij un essere-rimasuglio di continue scelte, anzi, di fluttuanti non-scelte, a causa di una forma coercitiva di zapping propugnata in primis dalla televisione. Si configura un umano schiavo di un primitivo algoritmo-consigliere che suggerisce prontamente lavoro, musica di tendenza, consigli per riscattarsi dalla propria mediocrità, hobby da poter rivendere durante la pausa pranzo in piena bolla speculativa.

La “dottrina peleviniana” si arresta qui alla televisione, regina indiscussa nel macrocosmo delle costrizioni pubblicitarie nella Russia neocapitalista, tuttavia si trasla con incredibile facilità al nuovo codice binario di (non-)scelte, patologia di quello che potremmo definire “Homo social media-Zapiens”: un individuo cinto da non-libertà, comodo nell’impossibilità di emanciparsi a discapito dell’universo pubblicitario-consumistico. Tatarskij può bene rappresentare, difatti, anche l’uomo digitale-contemporaneo, strenuo sostenitore della sua ineguaglianza, conseguenza della privazione di libertà operata dai moderni mezzi di comunicazione. Quest’ineguaglianza – per riprendere il pensiero di Berdajev[5] – si mostra come base di ogni struttura e armonia cosmica, giustificazione dell’esistenza stessa della persona umana e la fonte di ogni moto creativo nel mondo, come movimento vitale intriso di parodia: lo zapping peleviniano. 

Ma lo zapping coercitivo, quello in cui il televisore si trasforma in un telecomando per lo spettatore, non costituisce solo uno dei metodi per organizzare una sequenza di immagini, quanto il fondamento stesso della diffusione radiotelevisiva, la modalità principale con cui agisce sulla coscienza la sfera informativo-pubblicitaria. Perciò d’ora in avanti il soggetto di secondo tipo verrà indicato come Homo Zapiens o HZ.

 

Note:


[1] Sophia Khagi, Pelevin and Unfreedom. Poetics, Politics, Metaphysics, Northwestern University Press, Evanston (Illinois) 2021, p. 182  

[2] Mikhail Mikhailovich Bachtin, Speech Genres and Other Late Essays, edited by Caryl Emerson e Michael Holquist, translation by Vern W. McGee, University of Texas Press, Austin 1990, p. 149.

[3] Irina Rodnianskaia, Somel’e Pelevin. I sogliadatai, «Novyi mir», n. 10, 2012. Link da inserire => https://magazines.gorky.media/novyi_mi/2012/10/somele-pelevin-i-soglyadatai.html

[4] Marie Chamonard, Michel Butor et ses artistes: livres manuscrits,tesi di laurea, Sorbonne Université 2000.  Link da inserire => http://theses.enc.sorbonne.fr/2000/chamonard

[5] Nikolaj Aleksandrovič Berdajev, Filosofija neravenstva, AST-Chranitel’, Moskva 2006, p. 61 (I ed., Berlin 1923). Cfr. Giacomo Foni, Filosofia dell’ineguaglianza di Nikolaj Berdjaev, Tesi di Dottorato, Università degli Studi di Bologna 2011/2012.




“Il cavallo di Torino” di Béla Tarr

Il cavallo di Torino [A torinói ló, 2011] di Béla Tarr

A Torino, il 3 gennaio 1889, Friedrich Nietzsche esce dalla porta del numero 6 di via Carlo Alberto, forse per fare due passi, forse per andare all’ufficio postale a prendere la sua posta. Non lontano da lui, o invero molto distante da lui, un cocchiere sta avendo difficoltà con il suo cavallo testardo. Nonostante le sue sollecitazioni, il cavallo rifiuta di muoversi. Al che il cocchiere – Giuseppe? Carlo? Ettore? – perde la pazienza e lo prende a frustate. Nietzsche raggiunge la folla e ciò mette fine alla brutale scena del cocchiere, che a quel punto sta schiumando di rabbia. Il robusto e assai baffuto Nietzsche salta improvvisamente alla carrozza e getta le braccia attorno al collo del cavallo singhiozzando. Il suo vicino lo porta in casa dove egli giace immobile, in silenzio per due giorni su un divano finché non mormora le ultime obbligatorie parole: “Mutter, ich bin dumm.” (“Madre, sono pazzo.”) e vive per altri dieci anni, mansueto e demente, tra le cure della madre e delle sorelle.
Del cavallo… non sappiamo nulla.

Il vento non smette di soffiare. È principio e fine, è il principio della fine, e la fine è una fine assoluta, l’apocalisse. Il vento scompiglia la logica, ribalta i ruoli, i deboli si prendono cura dei forti, i poveri sopravvivono ai ricchi, la campagna resiste quando la città è già stata spazzata via. Le cose iniziano gradualmente a scomparire, il cavallo smette di mangiare, l’acqua nel pozzo scompare, la luce, infine, si spegne. Nel mentre il vento è protagonista di questo film senza parole se non parole assurde o semplici, semplicissime, che non dicono oltre ciò che dicono, perché non c’è nient’altro da dire. La figlia legge alcuni passi tratti da un libro misterioso regalatole dagli zingari nel quale si narra di preti che chiudono per sempre le chiese, ché la gente è ormai irrimediabilmente peccatrice. Ma quali possono essere le parole della fine? Quale l’artifizio più vero? Come non rendere anche la fine una menzogna? Forse proprio questo vento, questo scivolare lento nel niente, di quando la parola non è più capace di dire.

– Perché non sei andato in città? – Il vento l’ha spazzata via. – Come mai? – È andata in rovina. – Perché mai sarebbe andata in rovina? – Perché tutto è in rovina, tutto si è degradato, ma potrei dire che loro hanno rovinato e degradato tutto. 

Mangiano le patate bollite e le sbucciano con le mani, il vecchio con una sola mano, che l’altra non funziona più. Sembra più umano il cavallo che questi due umani devastati, traina con tutte le sue forze il carro del padrone e il timone sembra perforare la telecamera. La donna esce a riempire i secchi e sui capelli volano via da tutte le parti, nel cielo bianco sono una ragnatela impazzita. Sono scene lunghissime, troppo lunghe, il mondo ci mette tanto, troppo tempo a crepare; sono scene devastanti, con la sola forza delle immagini, senza narrazione, senza costruzione. Ma sono chiaramente innaturali, non parlano della natura, non sono scene mimetiche, sono artifizio. La caratteristica principale di questo artifizio è la sottrazione, far parlare le cose per sottrazione, nella loro assenza; far parlare le cose della loro assenza, del loro scomparire inesorabile: il primo giorno i tarli smettono di rosicchiare la casa; il secondo giorno il cavallo decide di non mettersi in marcia; il terzo giorno il cavallo smette di mangiare; il quarto giorno scompare l’acqua dal pozzo; il quinto, sul mondo cala l’oscurità; il senso giorno anche il vento cessa di erodere le cose circostanti – forse, semplicemente, perché non c’è più niente da consumare.  

La vita è finita, e con sé anche il cinema stesso di Béla Tarr; «Con Il cavallo di Torino, sono arrivato ad un punto in cui il lavoro è completo, il linguaggio è finito»: non c’è più niente da dire, perché ha già detto tutto quello che poteva. Più ci avviciniamo alla conclusione, più il movimento dell’immagine cinematografica sembra venir meno, uno spegnimento progressivo dell’arte filmica, uno sguardo rivolto verso l’opera del suo stesso autore. Se dio in sette giorni ha creato il mondo, Béla Tarr in sei giorni lo ha distrutto, una Genesi ribaltata. Ma prima del nulla, ancora una volta, vediamo il riaffermarsi della ripetizione: la realtà sta cambiando, ma nessuna reazione avversa a quanto accaduto può fermare un processo che ormai è in corso, inarrestabile, e proprio in tal senso il cocchiere e la figlia non sembrano veramente scossi dal destino che li attende; le fondamenta della vita “precedente”, abitudinaria e misera, sono crollate ma padre e figlia non possono più cambiare il loro destino. E il destino è binario: due colori (bianco e nero), due suoni (musica e vento), due luoghi (dentro e fuori la casa), due personaggi (padre e figlia), due intrusioni (il vicino e gli zingari). L’unica cosa che non ha la sua ombra è il vento. Questo vento mi sembra così vicino al concetto di arte, al mio concetto di arte. Il cavallo di Torino è un film sul cinema, che resiste alla fine del mondo, che sopravvive alla vita, nonostante tutto, nonostante il vento.

***

Leggi altro dalla rubrica Nel buio – Un film, un poeta, curata da Luigi Fasciana. Articoli di:

  1. Umberto Fiori
  2. Vincenzo Frungillo
  3. Ida Travi
  4. Damiano Scaramella
  5. Laura Pugno
  6. Franco Buffoni
  7. Carlo Gregorio Bellinvia
  8. Maddalena Lotter



Apparizioni e varchi. Intorno a Il Signore degli anelli – Peter Jackson

“Quest’anello!” balbettò [Frodo]. “Com’è potuto finire in mano mia?”
“Ah!” disse Gandalf. “È una lunga storia. Risale agli Anni Neri, che ormai solo gli esperti della tradizione ricordano. Se ti dovessi raccontar tutta la storia, saremmo ancora seduti qui quando la primavera sarà diventata inverno”.

(J. R.R. Tolkien, Il Signore degli anelli

Anni fa ho scoperto esserci un legame tra ciò che di misterioso si cela dietro gli alberi millenari della foresta di Fangorn e ciò che personalmente amo indagare occupandomi di poesia.
Mi riferisco al fascino dell’occultamento volontario di dettagli narrativi, in virtù del quale il significato di un testo – anche e forse soprattutto poetico – acquisisce una maggiore potenza.
L’immaginario fantasy produce, per necessità, un linguaggio che è votato ad una continua omissione di particolari.
Possiamo forse ammettere che l’universo fantasy è esso stesso una gigantesca omissione, in quanto in esso è di fatto omessa una cosa piuttosto importante: la realtà.
Più in generale, come è evidente, in un’opera nascondere qualcosa alla vista del suo fruitore significa dare spazio alla sua immaginazione e in qualche modo amplificare la portata del messaggio complessivo.
È così che il Nulla de La storia infinita di Ende non trova una vera e propria definizione, se non nel progressivo inghiottimento del mondo di Fantàsia; e proprio in questo continuo “sfuggire semantico” risiede la sua forza (per questo ci fa paura).
È così che ne Il Signore degli anelli la descrizione dettagliata della terra di Mordor si fa attendere: quanto è più vasto il Male (o il Bene) se lo posso solo immaginare?
Nel film La compagnia dell’anello, primo della trilogia magistralmente diretta da Peter Jackson nei primi anni Duemila, possiamo solo intravedere la torre nera di Barad-dûr – per esempio nella breve sequenza in cui Gollum viene torturato dagli orchi e rivela il nome “Baggins”- e dunque solo intuire quel paesaggio di dolore e morte. Per questa capacità di togliere alla vista, Jackson è riuscito, a mio modo di vedere, a fare onore al romanzo e a coglierne uno degli aspetti costitutivi.
Ancora. C’è evidentemente qualcosa di importante nel bosco di Lothlórien, come tra i neri corridoi di Moria, ma a noi è dato guardarne solo un assaggio: raggiungeremo la reggia di Galadriel, conosceremo il Balrog, demone del mondo antico, ma nel disvelarsi di queste due incredibili creature noi subito intuiamo che c’è dell’altro, che non vedremo in questo film, che non leggeremo in questo libro. E di questa intuizione si nutre il lettore/spettatore.
Nei film de Il Signore degli anelli ci sarà sempre dell’altro: un mondo industrioso e metallico, nei crepacci fondi che circondano la torre di Isengard, che a noi è dato solo sorvolare con l’inquadratura della cinepresa. Così ci sarà concesso immaginare all’infinito gli orchi che lavorano il ferro, che si strangolano fra loro, che usano le imponenti armi elaborate dalla torva mente di Saruman.
Quella de Il Signore degli anelli di Jackson, fedele alla tensione epica di Tolkien, è sempre una visione echeggiante, che rimanda a tutto ciò che non è nel film (e va detto che a questo effetto ha contribuito anche la notevole musica composta da Howard Shore.). Il piacere che si trae dalla visione della trilogia è quello di essere rimandati sempre ad un luogo che non fa parte della narrazione principale, e che quindi non verrà indagato, in modo che possa riverberare.
Un esempio di quanto detto risiede in maniera emblematica in un fotogramma:


Questa ci sembra essere la città morta di Minas Morgul, ma noi ancora non conosciamo il suo nome. Stiamo guardando il primo film della triologia: La compagnia dell’anello.
I nove cavalieri neri (Nazgûl) sfrecciano in sella ai loro cavalli verso la Contea, avvertiti della presenza dell’anello. C’è in evidenza il grande portone della città morta, e poco più a sinistra vediamo anche una piccola rientranza, che non si saprà mai dove (e se) conduce, ma che ci fa immaginare: un antro nella città morta? Uno stanzino per le torture? L’ingresso secondario verso un dedalo di cunicoli oscuri? Una porticina murata costruita in un tempo ancora più remoto dell’Era di mezzo? Un varco verso dove?
Mostrare a noi stessi, all’infinito, le nostre paure più profonde e interpretarle. Non è forse questo il piacere della lettura – e della scrittura? Interrogare e praticare la scrittura per allungare la vista, per sporgersi sul varco della fantasia.
Un’opera ci sembrerà allora ben riuscita, quando svolge la stessa funzione amplificatrice di quella piccola rientranza misteriosa sulle verdastre mura di Minas Morgul. 

Note
1 La traduzione è di Ottavio Fatica.

***

Leggi altro dalla rubrica Nel buio – Un film, un poeta, curata da Luigi Fasciana. Articoli di:

  1. Umberto Fiori
  2. Vincenzo Frungillo
  3. Ida Travi
  4. Damiano Scaramella
  5. Laura Pugno
  6. Franco Buffoni
  7. Carlo Gregorio Bellinvia



Un poemetto omoerotico attribuibile a Torquato Tasso (Università di Cambridge, Queer & Trans philologies)

Non perdete l’opportunità di seguire il convegno internazionale Queer & Trans philologies presso l’Università di Cambridge oggi e domani. Domani, sabato 23 marzo, alle 11.45 (ora italiana), Francesco Ottonello presenterà un intervento intitolato “A homoerotic poem attributable to Torquato Tasso: Ganimede rapito” (“Un poemetto omoerotico attribuibile a Torquato Tasso: Ganimede rapito“), condividendo i risultati della sua ricerca condotta durante il dottorato su un manoscritto della Biblioteca Palatina di Parma, che finora non ha ricevuto un’adeguata attenzione critica e che potrebbe gettare nuova luce sulla figura di Torquato Tasso.
Presentiamo l’abstract ufficiale dell’intervento in inglese con la traduzione in italiano.

Abstract

In this paper, I aim to present a study on Ganimede rapito (“Abducted Ganymede”), a mythological poem comprising 50 hendecasyllabic octaves. This poem is known through a singular source, found within the Ms. Pal. 211 (Biblioteca Palatina, Parma). It features two distinct sections of varying handwriting and origins: the poem “Ganimede rapito” and a 17th-century satirical piece “Against lust” by Lorenzo Azzolino.
The manuscript attributes explicitly this poem to Torquato Tasso. Confirming its authorship could potentially shed new light in a queer perspective on the biography of one of Italy’s most celebrated literary figures.
In 1893, the poem was published for the first time in a limited run of sixty copies by Angelo Solerti. In doing so, the scholar raised questions about its attribution to Tasso. Yet, he left this attribution issue unresolved, and regrettably, it has received scant attention since.
Exploring the correspondence between Giosuè Carducci and Angelo Solerti, it becomes evident that Solerti’s judgment was significantly influenced by Carducci’s authoritative opinion. Nonetheless, Carducci’s perspective, while influential, ultimately led Solerti astray. Carducci described Ganimede rapito as an “apotheosis of pederasty”, subsequently arguing against attributing it to Torquato Tasso.
This poem undeniably belongs to the specific genre of Renaissance mythological poetry, inspired by Ovid’s Metamorphoses, and centered on erotic themes. This genre flourished in Italy during the 1530s to 1550s and counted major representatives such as Luigi Alamanni and Bernardo Tasso, the father of Torquato.
Supported by various pieces of evidence, it is plausible to attribute this poem to Torquato Tasso’s early adolescence, dating it to approximately 1557-1559. In conclusion, Tasso seems to have composed a mythological poem in the Ovidian tradition with Ganymede as the main character, a mythological figure that has long represented an icon of homoeroticism, both in Antiquity and the Middle Ages.
Ganimede rapito (“Abducted Ganymede”), a mythological poem comprising 50 hendecasyllabic octaves. This poem is known through a singular source, found within the Ms. Pal. 211 (Biblioteca Palatina, Parma). It features two distinct sections of varying handwriting and origins: the poem “Ganimede rapito” and a 17th-century satirical piece “Against lust” by Lorenzo Azzolino.
The manuscript attributes explicitly this poem to Torquato Tasso. Confirming its authorship could potentially shed new light in a queer perspective on the biography of one of Italy’s most celebrated literary figures.
In 1893, the poem was published for the first time in a limited run of sixty copies by Angelo Solerti. In doing so, the scholar raised questions about its attribution to Tasso. Yet, he left this attribution issue unresolved, and regrettably, it has received scant attention since.
Exploring the correspondence between Giosuè Carducci and Angelo Solerti, it becomes evident that Solerti’s judgment was significantly influenced by Carducci’s authoritative opinion. Nonetheless, Carducci’s perspective, while influential, ultimately led Solerti astray. Carducci described Ganimede rapito as an “apotheosis of pederasty”, subsequently arguing against attributing it to Torquato Tasso.
This poem undeniably belongs to the specific genre of Renaissance mythological poetry, inspired by Ovid’s Metamorphoses, and centered on erotic themes. This genre flourished in Italy during the 1530s to 1550s and counted major representatives such as Luigi Alamanni and Bernardo Tasso, the father of Torquato.
Supported by various pieces of evidence, it is plausible to attribute this poem to Torquato Tasso’s early adolescence, dating it to approximately 1557-1559. In conclusion, Tasso seems to have composed a mythological poem in the Ovidian tradition with Ganymede as the main character, a mythological figure that has long represented an icon of homoeroticism, both in Antiquity and the Middle Ages.

Abstract (traduzione in italiano)

Si presenta uno studio sul “Ganimede rapito”, un poemetto mitologico di 50 ottave di endecasillabi. Il poemetto è trasmesso da una singola fonte manoscritta, il Ms. Pal. 211 (Biblioteca Palatina, Parma), che presenta due sezioni di mano e provenienza diverse: il cinquecentesco “Ganimede rapito” e la satira seicentesca “Contro la lussuria” di Lorenzo Azzolino.
Il manoscritto reca un’attribuzione esplicita a Torquato Tasso. Confermare la sua paternità potrebbe potenzialmente gettare nuova luce in una prospettiva queer sulla biografia di uno degli autori più celebri della letteratura italiana.
Il poemetto è stato pubblicato per la prima volta nel 1893, in una tiratura di sole sessanta copie da Angelo Solerti. Lo studioso sollevò dubbi sulla sua attribuzione a Torquato Tasso, lasciando irrisolta la spinosa questione attributiva che finora ha ricevuto scarsa attenzione da parte degli studi.
Grazie a un’analisi della corrispondenza tra Giosuè Carducci e Angelo Solerti, si evince che il giudizio di Solerti fu significativamente influenzato dall’opinione autorevole di Carducci. Tuttavia la prospettiva carducciana trasse Solerti in inganno. Carducci descrisse il “Ganimede rapito” come una “apoteosi della pederastia”, argomentando per questo motivo contro l’attribuzione a Torquato.
Il poemetto appartiene innegabilmente allo specifico genere del poemetto mitologico rinascimentale ispirato alle Metamorfosi ovidiane e incentrato su temi amorosi. Questo genere fiorì in Italia durante gli anni 1530-1550 e tra i maggiori rappresentanti si possono annoverare Luigi Alamanni e lo stesso Bernardo Tasso, padre di Torquato.
Con il supporto di varie prove risulta plausibile attribuire questo poemetto alla prima adolescenza di Torquato Tasso, datandolo approssimativamente al 1557-1559. In conclusione, Tasso sembrerebbe aver composto un poemetto mitologico di ispirazione ovidiana con Ganimede come personaggio principale, una figura mitologica che nel corso dell’Antichità e del Medioevo aveva svolto il ruolo di icona dell’omoerotismo maschile.

Per il programma completo del convegno:

https://www.crassh.cam.ac.uk/events/39800/#programm

Per registrarsi e seguire il convegno online richiedere il link alla seguente email:

queertransphilologies@gmail.com

https://www.eventbrite.com/e/queer-trans-philologies-tickets-799960191467