Stefano Bottero | Le sette domande di MediumPoesia

1. Tra i libri usciti nel primo ventennio degli anni 2000, ne trovi 5 che per te siano fondamentali?

In ordine sparso –
di Domenico Brancale, Per diverse ragioni (Passigli, 2018); di Vito Bonito, La vita inferiore (Donzelli, 2004); di Antonella Anedda, Historiae (Einaudi, 2018); di Biancamaria Frabotta, La materia prima (Mondadori, 2018); di Guido Mazzoni, La pura superficie (Donzelli, 2017).

2. Se io incontro un poeta, possibilmente, non lo riconosco subito. C’è un modo per riconoscere un poeta? Nella tua esperienza, il fatto di scrivere poesia si riflette nella vita quotidiana?

Non sono d’accordo con la premessa alla domanda. Credo che i poeti, gli artisti, si riconoscano. Il quotidiano appartiene ad ognuno in modo diverso, questo è certo, ma è in esso che il nostro essere individuale emerge con più chiarezza. Poeta è una parola pericolosa, esiste all’esatta metà tra la vita pratica e la vita interiore. Il poeta non scrive se non è poeta, non è poeta se non scrive. È difficile perfino scegliere il verbo da accostarle: essere poeta, fare il poeta? Le persone a cui questa parola appartiene davvero non lo celano né lo mistificano. Né potrebbero, d’altronde, come non si mistificano i feticismi o il colore degli occhi.

3. Come è il tuo rapporto, in quanto autore, con i lettori e con i colleghi? Senti di fare parte di una comunità, a cui aderisci?

Alle persone che leggono le mie poesie sono grato, sempre. I versi che scrivo non sono più io, sono oltre me. Leggerli significa donare loro momenti di vita e di tempo. Di tutto ciò, a me resta di interiorizzare l’aver ricevuto uno sguardo, una cura, per interposta persona.
Sarebbe sbagliato dire che sento di avere “colleghi”. Conosco diversi poeti di cui adoro l’opera, alcuni dei quali sono miei amici. La gratitudine connota pesantemente anche il mio rapporto con loro, prima ancora dell’affetto. Sono grato a chi vive – direbbe un poeta a me caro – nella parola, accettando il compromesso di una vita incrinata. È il compromesso dei santi, e la santità non è mai solo per sé stessi.
Ad ogni modo, certo, la ‘società letteraria’ esiste da sempre e così anche oggi. Farne parte – se poi davvero se ne fa mai parte – è per me un atto politico, oltre che privato. Finché sarò in grado, insisterò.

4. Ci sono delle tradizioni poetiche in altra lingua, che conosci o ti affascinano particolarmente?

In questo periodo sono vicino alla poesia americana contemporanea.

5. Nel tuo processo di scrittura, ti capita di raccogliere stimoli da altre forme artistiche o da discipline scientifiche?

Credo di aver interiorizzato un rifiuto viscerale per le discipline scientifiche. La scienza moderna si fonda quando un gruppo di intellettuali decide di sradicale il principio della sacerdotalità dall’erudizione, rendendola accessibile a chiunque. Questa fondazione originale è oggi venuta meno, la complessità delle forme scientifiche le rende ormai inaccessibili ai più. In questo senso non credo esistano differenze tra uno scienziato del ventunesimo secolo e un iniziato ai riti eleusini dell’antichità.  Questo per dire che, no, non raccolgo stimoli da materiali scientifici perché mi rimangono inesplicabili. Da altre forme artistiche, al contrario, sempre. Non credo di aver mai scritto qualcosa scevra di connessioni con altre opere letterarie, figurative, cinematografiche, musicali.

6. Che rapporto hai con la rima?

Se ne ho uno, è casuale. Cerco più spesso il silenzio che la musicalità. Le coincidenze di suono sono giorni di pioggia – bellissimi, ma indeterminati.

7. Ci sono 3 poeti delle nuove generazioni che ritieni particolarmente preminenti e/o a cui pensi sarebbe interessante porre queste domande?

Sacha Piersanti, Ilaria Palomba, Costantino Turchi.

Infine ti chiediamo di selezionare dai 2 ai 5 testi, esemplificativi della direzione più recente assunta dalla tua poesia, provenienti dal tuo ultimo libro e/o inediti (e se possibile fornirci delle audio-letture dei testi).

Quattro poesie da Poesie di ieri
Oèdipus, 2019

Fammi venire senza toccarmi
delicata di gelsomino,
d’ansia e di debole sussulto
dei numeri della mitologia universale
di lavatrici, di templi.

Voglio per me solo il riposo e la debolezza
e le tue mani sul viso,
che il corpo dia il senso inafferrabile
                                          di specchi
l’uno davanti all’altro.

Ma corteggia il lamento del non avrei mai creduto
e impara a memoria ogni verso
ogni particolare,
ogni addormentarmi
sul tuo corpo di candido difetto,
di confusione mentale.

*

Nasceresti in ogni timida richiesta
che porta al pianto,
negli effimeri sogni d’ogni sorta
come tutte le cose che durano in eterno
                  e devono separarsi dal resto.

Vagando tra cose che non esistono né in te né in me
giacciono in rovina i tagli per cui non soffri affatto
tanto rapidi sono stati inferti
dai nostri mesi.

*

Te ne vai
nella routine del tuo male immenso
incustodita.

*

Contrappeso della mia solitudine
i miei incubi d‘autostrada.
il desiderio di dimenticarti,
                  domani
di non dimenticarti.

Sei l’intimità della mia dissociazione,

così scivoli dietro di me come la notte
che mi adagia un nastro sulle palpebre
e lo tira da dietro.

*

Una poesia da «L’age d’or», Anno I, Ottobre 2020

A Mario Benedetti

È già molto dal punto di vista della relazione
avere più di un quarto d’ora per guardarti
vestire
inalare l’eterno in aerosol di complessi,
                               l’inverno di Nimis –
la responsabilità morale dei nostri sogni.

Non hai bisogno della voce
non distrarti. ti scongiuro.
A poco a poco scompariamo da quando siamo nati
e qualcosa in me si spezza ogni santa volta
che scrivo hai scritto hai detto “hai abitato abbastanza
il corpo

Stefano Bottero

foto di copertina: Dino Ignani




Alessio Paiano | Le sette domande di MediumPoesia

1. Tra i libri usciti nel primo ventennio degli anni 2000, ne trovi 5 che per te siano fondamentali?

C’è solo un libro che reputo fondamentale, ed è ’l mal de’ fiori di Carmelo Bene (Bompiani, 2000), un poema incredibilmente tagliato fuori da qualsiasi discussione sulla poesia. Lo studio da anni, dai tempi universitari, e non mi è mai più capitato di entrare così tanto in un libro. Entro l’anno dovrei pubblicare la mia ricerca, spero possa servire a stimolare una certa curiosità per questo lunghissimo poema. Per il resto potrei nominare altri quattro poeti della mia generazione che credo abbiano scritto dei bei libri, ma dovrei collocarli a distanza siderale dal primo, quindi preferirei non farlo. Purtroppo parliamo di un’opera di livello assoluto che può essere associata solo ai grandi classici.

2. Se io incontro un poeta, possibilmente, non lo riconosco subito. C’è un modo per riconoscere un poeta? Nella tua esperienza, il fatto di scrivere poesia si riflette nella vita quotidiana?

L’unico effetto concreto che ha sulla mia vita sono gli sfottò degli amici, soprattutto di fronte agli sconosciuti. Diversamente non credo che scrivere libri di poesia faccia di un autore un poeta, se implichiamo un qualche giudizio di valore. Non ci sarebbe altrimenti alcuna differenza tra il giocatore di calcetto della domenica e Maradona, non è l’azione in sé a fare l’artista; si tratta di una questione complicata di cui potremmo discutere per un’intera giornata senza mai venirne a capo. È una domanda che mi imbarazza molto, implicherebbe un’autoinvestitura che mi ha sempre dato l’idea di un delirio. Molto spesso quando incontro un poeta lo riconosco da questo delirio.

3. Come è il tuo rapporto, in quanto autore, con i lettori e con i colleghi? Senti di fare parte di una comunità, a cui aderisci?

I lettori sono spesso altri poeti, quando non accade è un piacevole miracolo. Non credo di far parte di una comunità, ma di una rete di rapporti umani in cui si condivide il fare e leggere poesia. Ho coltivato alcune amicizie, si tratta di persone che frequenterei anche senza occupare il tempo con la poesia, perché reali, non ossessionate in maniera negativa. Queste cose non c’entrano nulla con la poesia ma con un sistema competitivo che disprezzo da anni, in vari campi. La competizione, i premi, le onorificenze, dipendono dalle altre persone. Ognuno di noi è invalutabile.

4. Ci sono delle tradizioni poetiche in altra lingua, che conosci o ti affascinano particolarmente?

Ho letto i primi libri dopo aver studiato The Waste Land di Eliot a scuola. Prima di allora non avevo mai avuto a che fare davvero con un libro, pensavo a tutt’altre cose. Ho vissuto un’adolescenza totalmente ignorante e di poco conto. Eliot e Joyce sono i primi autori che mi vengono in mente, mi hanno insegnato a leggere e restano i miei punti di riferimento. In generale gli autori inglesi di quell’epoca mi hanno fatto capire quanto la letteratura possa davvero parlare di noi, prima di allora non ne capivo l’importanza. Leggevo per la prima volta un linguaggio nuovo, vicino: in Italia abbiamo troppo a cuore la tradizione, anche oggi, tant’è che farne parte è l’ossessione dei giovani ribelli di cinquant’anni fa.  

5. Nel tuo processo di scrittura, ti capita di raccogliere stimoli da altre forme artistiche o da discipline scientifiche?

Cerco di interessarmi alle varie discipline umanistiche, come posso. Credo che qualsiasi cosa alimenti il nostro immaginario, che sia un dipinto, una canzone, un ragionamento filosofico, un’architettura in pietra.

6. Che rapporto hai con la rima?

La uso solo in maniera inconsapevole, può servire per creare ritmo, ma seguire uno schema prefissato mi fa venire subito la claustrofobia. In musica la usano soprattutto nei ritornelli per far memorizzare la canzone a chi la ascolta. La uso in questo senso, come messaggio subliminale acustico.

7. Ci sono 3 poeti delle nuove generazioni che ritieni particolarmente preminenti e/o a cui pensi sarebbe interessante porre queste domande?

Lorenzo di Palma, Gianluca Garrapa, Claudia di Palma. Tre persone che parlano poco ma che hanno tanto da dire.

Infine ti chiediamo di selezionare dai 2 ai 5 testi, esemplificativi della direzione più recente assunta dalla tua poesia, provenienti dal tuo ultimo libro e/o inediti 

da Memoriale del fiume, libro inedito.

I.

Guardate ancora il nostro fantoccio
nel girozigzagare dei ponti immuschiati
cercare legami tra le isolette
le terre molecolari che suonano un tra tra
di peduncoli zompettanti, tacchetti annoiati
che nascondono il segreto del nome:

e quale peccato sarebbe
ora che s’è scoperto criptogramma
trovarsi sepolto in un cumulo di vicoli.

II.

La città frantumata ha un lembo acuminato,
il pungiglione di un’ape, la punta della fiamma
di un vecchio santo, uno spiritello
che ti indica il trampolino di un abisso:

lì la città, antico relitto, s’impenna
e le correnti dei passati remoti
ti trafiggono con lacrime morte.

III.

Tu sei stata la terra amara da cui ci sdradicammo,
e ci trascinavamo insieme nelle valli che non sanno
la disseccata arsura dei tronchi rimasti appesi
ai bordi delle strade, quel confine di croci
che celebrava l’addio al tuo paese;

e ancora so i sentieri che ti abitano e a cui vorrei tornare
per vederti scomparire tra le chiome delle case.

IV.

Abbiamo perso il tempo
a vivere in una casa di attore
che ha fatto di tutto per noi e per i suoi amici,
che hanno distrutto la sua vita e la nostra vita.

E la nostra storia è stata fatta da noi,
e non si può dire niente della verità e del mondo
che ci circonda, di persone che non avremo mai
frequentato da soli;

per cui la verità è che non si può proprio
discutere di una cosa che si fa;
dire che siamo in due non è stato possibile.

V.

Così accade in uno dei tanti giorni
un tale comincia ad articolare
e disfa le trame, le cose

e dalle luci si ricompone
un volto che lo filano i fumi
e suoni e ponti, città circumnavigate
come una peste dovuta,

e dall’alto si vide nel nulla-corpicino,
un punto di costellazione che si sfuma.

Rimparare vorrebbe la voce
a vibrare nelle feste dell’amore
ma qui tutto si chiama e si distrugge.

testi di A.Paiano




Alessandro Grippa | Le sette domande di MediumPoesia

1. Tra i libri usciti nel primo ventennio degli anni 2000, ne trovi almeno 5 che per te siano fondamentali?

Credo che le fondamenta di una ricerca si gettino su un numero veramente ridotto di autori. Fiato e materia, sedimenti: nella propria voce di una voce altrui. Voce scelta o non scelta; accaduta e avvertita come prossima, da lì approfondita. Fondamentale per il mio sistema di pensiero poetico in tal senso è l’opera di Antonella Anedda. Un libro che risponda ai requisiti richiesti sarà allora Dal balcone del corpo, che fu per me la scoperta della sua poesia nel  2007.

2. Se incontro un poeta, possibilmente, non lo riconosco subito. C’è un modo per riconoscere un poeta? Nella tua esperienza, il fatto di scrivere poesia si riflette nella vita quotidiana?

We do not prove the existence of the poem. / It is something seen and known in lesser poems. Sono due versi di Wallace Stevens. A mio modo di vedere, applicabili non solo o non tanto alla poesia come risultato; ma anche, o soprattutto, ai poeti. Posta in questi termini la  questione mi sembra quasi velleitaria. Ironicamente potrei dire che riconosco un  poeta  quando mi trovo ad una lettura, lì dove è più facile: la poesia esposta, il poeta dichiarato. O forse semplicemente questa domanda tratta di qualcosa a cui non ho mai, o ancora, dato  peso; questo perché il riconoscimento (e la riconoscenza) non penso possano ridursi a un’occhiata. Piuttosto direi che sono una ginnastica; strade che si è scelto di percorrere, tempo di questi percorsi.

3. Come è il tuo rapporto, in quanto autore, con i lettori e con i colleghi?  Senti di fare parte di una comunità, a cui aderisci?

Anche sulla parola comunità vorrei fermarmi a riflettere. È un concetto molto esigente, che postula al suo interno connotazioni morali, o vero etiche. Preferirei utilizzare la parola consorzio: più netta, concentrata. Indirizzata nell’ordine dei legami tra i partecipanti e meno capiente, in termini di spazio e aspettativa che nel pensiero crea attorno a sé. Detto ciò, come in molti altri ambiti anche qui le possibilità di incontro sono molteplici e possono rivelarsi significative. Vorrei fare il nome di Cristiano Poletti, a cui sono vicino anche in termini  geografici e non solo umani. Penso anche a Dome Bulfaro, che per primo accolse la mia poesia, ai tempi del liceo. Infine non posso non nominare Carla Saracino: trovo singolare che una delle più limpide voci poetiche della mia generazione ancora non goda del consenso (di critica e pubblico) che meriterebbe.

4. Ci sono delle tradizioni poetiche in altra lingua, che conosci o ti affascinano particolarmente?

Da anni mi applico per migliorare le mie capacità di accesso alla poesia in due lingue ulteriori alla mia. A partire dalle quali tento traduzioni e studi. La prima è l’inglese, ça va sans dire. La seconda è il francese; un’abitudine dovuta ai miei viaggi in Africa, nel Togo, un paese suo malgrado francofono e di cui questa lingua è cadenza di conquistati. Più che con una tradizione, sono recentemente entrato in contatto con la scena poetica messicana, partecipando a un’antologia bilingue e instaurando un rapporto d’amicizia con  il  mio  traduttore, uno studente della UNAM di Città del Messico, e con Carlos Chavez, l’editore che ha intrapreso il progetto di mappare e tradurre nella sua lingua la poesia contemporanea italiana.

5. Nel tuo processo di scrittura, ti capita di raccogliere stimoli da altre forme artistiche o da discipline scientifiche?

I miei studi sono di natura accademica; ho frequentato Brera, a Milano, diplomandomi in Arti Visive. La scrittura è una pratica da sempre sovrapposta a questo mio gesto primario, indirizzato nel senso dell’immagine. Da qualche tempo inoltre scrivo anche, occasionalmente, d’arte.

6. Che rapporto hai con la rima?

C’è un’artista visiva, Mariacristina Cavagnoli, con cui ho recentemente collaborato curandone il testo critico per un’esposizione. Le ho chiesto che rapporto abbia con le sue matite. Ha sorriso. Credo che non possa esistere tecnica senza il proprio pudore, che in qualche modo    la muta. Potrei citare il Castiglione, la sua idea di sprezzatura, ma non è nemmeno questo. Restiamo nei pressi del concetto di pudore. Proprio perché la tecnica, e gli strumenti della tecnica, non sono mai dati per certo ma sempre da provare, consolidare. Temo che altrimenti  si rischi di incorrere nell’assolo, nella pura esibizione; dinamiche che non mi appartengono.

7. Ci sono 3 poeti delle nuove generazioni che ritieni particolarmente preminenti e/o a cui pensi sarebbe interessante porre queste domande?

Vorrei menzionare cinque poeti: Stefano Pini, Laura Di Corcia, Gaia Formenti, Damiano Sinfonico, Daniele Orso. Sarebbe interessante sottoporre loro queste domande.

I testi che seguono sono estratti dalla raccolta in lavorazione Revisioni, di prossima uscita con la casa editrice Delta 3 Edizioni.

– Inediti –

le immagini, hai detto

è stato apparire scomparire nelle forme il tempo. te stesso posto nella zona dove l’ombra avanza, tracciando senza fiato segni e voce dentro l’aria. credendo che la linea del passato fosse grande, scorgendo da cornici architettoniche paesaggi

*
le
immagini ti comprendono.

lo scrivi tenendo gli occhi chiusi; gli occhi di immagini vividi, arresi
come
globi, una santa lucia. le immagini ti comprendono. non le ami dove continuano, le detesti e ovunque collimano. lo scrivi tenendo
gli
occhi chiusi. da quel gesto trame, scie, una bava; una pausa inevitabile, meno: il foglio bianco
adesso
diventato nero memoria di cieco

* vanitas:

di bulbo di gemma si schiude la mente; sapiente
che i tulipani recisi si affiancano a teschi e clessidre, che l’erba
nasconde esanimi draghi e lo sguardo di santi persi nel cerchio del proprio spavento si affaccia su specchi come vedendosi dentro una nicchia; dietro quel vetro si sfiorano mani, non sfiorate dal vento.

i colori ci pensano. stancano gli occhi le fiamme dei fiori incolti, la terra; vedere in un’ocra quello che altri hanno infranto nel nero, vegliare la cenere, e ora in un brano di cielo l’azzurro seguito fin dentro lo stormo, brunito la notte dentro mille sogni, fissando lontano le ombre di alberi, pali, riguadagnare la posizione di ieri, domani; finalmente guardando laggiù dove non esistiamo

*

Kaufman Sugar Plum Metallic Scenic Striped Periwinkle

Scrivi pervinca per dire stasera cinque disegni di luce gli aerei passano, vanno. Un’aria, un refolo,
un senso di loro il clima lo spinge dagli alberi nell’atrio. Guardi, esiti.

Scrivi che esiste

solo per il cielo che sfinisce dai vetri lo sguardo di buio, per le complessità
del gelo che sfacciano l’asfalto, scrivi e anche questo
è pensiero

di un grigio micaceo, di un ferro, per costruire l’estate nell’inverno una volta di nuovo per dire
di questo cemento, di ghiere severe sul fondo. Scrivi.

Il silenzio involge e consola. Dividi
l’idea dalla cosa. Spingila fuori, allontanala dalle tue immagini, dalla memoria.

Scrivi pervinca, gli aerei, le ronde per strada. Scrivine. Liberale.

*

Autoritratto

[…] the precision the hand knows necessary to operate.

Robert Duncan

Ciò che vedi è tempo

ogni notte appare in sogno, ha il tuo volto e guarda te avanzare, prende decisioni nella luce fioca, nell’asperità

fra il corpo e il tavolo; lì, sempre di più, la camera, lo studio, avanti e indietro, come un animale.

Ciò che crei è forma

ogni volta aggiorna la tua storia, è domestica e selvaggia, una sorta di preghiera, o implorazione, tra te e te.

Puoi accostarti al fiume delle immagini, dove ogni parola credi prenda nutrimento, e pensare di esserti salvato. Pensarlo senza più compiacimento.

*

Le parole

La lingua si schiude sul prato.
Vuoi scriverla (è rugiada che brilla nel primo calore)
ma le parole non ti riconoscono.
Pensandole ti addormenti
da questa posizione nella valle stretta, leggera.

Stretta e leggera
la voce che afferma immagini viste nel sogno;
ruoti gli occhi dentro il tenero dell’ombra: è un giorno luminoso, scambi di formiche alle pareti, voci di parenti
al piano nobile si immischiano al sognato.

Ora che sei sveglio ti sorprendi di te sveglio allo specchio. Del noto
che esita tra le lenzuola, opaco
(è opaco il tintinnio che dalla gronda cade). Ti vedi andare alla finestra,
aprirla. Respirare.

Vorresti parlare al vuoto della finestra vorresti dire del vuoto
del prato, del cielo; dell’altezza del vento che spazza ciò che spazza.
Vorresti ma non hai
parole per quello che manca.

Alessandro Grippa




Francesca Mazzotta | Le sette domande di MediumPoesia

1. Tra i libri usciti nel primo ventennio degli anni 2000, ne trovi 5 che per te siano fondamentali?

5 è un bel numero. Fa parte della progressione di Fibonacci. Quindi cercherò di rispettarlo, anche se quell’aggettivo in chiusura mi mette a disagio. Mi risulta difficile, infatti, selezionare dei libri per me fondamentali editi in un periodo così vicino e circoscritto. Con questo non intendo dire che la domanda sia azzardata, anzi. Non lo è affatto, è una domanda “diagnostica” del tutto legittima. Forse faccio fatica perché le radici gettate da un libro hanno per me un’origine sempre piuttosto fuori dal tempo, misteriosa, che mi pare profano rendere commensurabile, datare. Non solo, ma per consolidarsi nella vita di un lettore e diventare fondamentali, credo, queste radici richiedono una sedimentazione lunga e paziente, un dialogo abbandonato e ripreso, che potrebbe anche durare una vita. È l’aura di un’opera-libro a renderla fondamentale per qualcuno. E certo l’opera va contestualizzata spazio-temporalmente, ma non è forse quella che ci fa dimenticare spazio e tempo a inscriversi in modo indelebile dentro di noi? 
Scelgo un romanzo, un saggio scientifico di taglio divulgativo, e tre libri di poesia, nell’ordine in cui mi hanno illuminato: La strada (2006) di Cormac McCarthy, Tiresia (2000-2001) di Giuliano Mesa, L’ordine del tempo (2017) di Carlo Rovelli, Le scimmie sono inavvertitamente uscite dalla gabbia (2004-2005) di Dario Voltolini, Vita Nova (anche se baro, perché è del 1999) di Louise Glück.

2. Se io incontro un poeta, possibilmente, non lo riconosco subito. C’è un modo per riconoscere un poeta? Nella tua esperienza, il fatto di scrivere poesia si riflette nella vita quotidiana? 

Riconosco un poeta quando, imbattendomi nella sua parola, constato che essa trascende i suoi limiti fonologico-lessicali e diventa altro, diventa, attraverso suono e immagine, un’esperienza. Incontro un poeta quando, imbattendomi nella sua parola, constato che essa trascende i suoi limiti fonologico-lessicali e diventa altro, diventa, attraverso suono e immagine, uno specchio in cui mi rifrango e mi assemblo.

Scrivere poesia si riflette molto nella mia vita quotidiana. Da essa parte e a essa torna, attraverso lo sguardo. Qualsiasi sia lo sguardo che chi scrive punta sulle cose, esso deve in tutti i casi, credo, essere accudito con costanza e dedizione, come una creatura di cui si ha a cuore il rigoglio, la vita. È un lavoro che non si ferma mai, prima di scrivere poesia, far sì che ogni giorno l’occhio non si adusi mai alla visione, ma ne scopra di continuo una screziatura ulteriore, prima trascurata.

3. Come è il tuo rapporto, in quanto autore, con i lettori e con i colleghi? Senti di fare parte di una comunità, a cui aderisci?

Con i colleghi, di simpatia. Con i lettori, di empatia.
Sento di far parte di una rete, alle cui maglie mi adatto.

4. Ci sono delle tradizioni poetiche in altra lingua, che conosci o ti affascinano particolarmente?

La letteratura greca, la poesia americana contemporanea.

5. Nel tuo processo di scrittura, ti capita di raccogliere stimoli da altre forme artistiche o da discipline scientifiche?

Molto spesso. In particolare in senso linguistico, e per lo più dalle discipline scientifiche: l’anatomia, la fisica e l’astronomia soprattutto. Sono lingue precise, chirurgiche, che spesso non ammettono sfumature semantiche. Sono molto affascinata dall’esattezza di alcuni loro esempi lessicali. Non di rado mi ritrovo ad attingerne per trasferirli in un campo di senso, l’intelaiatura dei versi, all’apparenza inospitale perché estraneo, eppure in grado di dotare quegli stessi termini di una temperatura e una gravità, per certe misteriose vie, in linea con l’originale. Per rendere un po’ meno astratto quanto intendo, sarebbe di sicuro agevole citare qualche esempio eloquente (ce ne sono tanti) della Neoavanguardia, ma in questo preciso istante mi risuona in mente uno dei più potenti incipit di Luzi: “Vola alta, parola, cresci in profondità / tocca nadir e zenith [corsivi miei] della tua significazione”. Quanti conoscano il significato delle due nozioni di astronomia, colgono subito la magia della loro trasposizione e rinascita: la metamorfosi connotativa che trasforma i due nomina, da precisi punti di intersezione di rette immaginarie ed emisferi celesti, in apici dove la parola si possa addentrare (“in profondità”) e inoltrare (“alta”), divenendo essa stessa cielo.

6. Che rapporto hai con la rima?
 
Provo per la rima, e in generale per il richiamo fonico, una devozione identica a quella che ho verso i ricordi che vorrei trattenere. Rime e ricordi hanno in comune la formularità e per questo si potrebbe azzardare che siano fatti della stessa materia. Se la rima è ciò che ritorna e ritornando si trattiene/ricorda, quando il ricordo affiora (e affinché ciò accada), esso deve per forza essere in rima con qualcosa di intrinseco e vitale. Cerco di spiegarmi meglio. La rima, per me, come il ricordo, è il perno più saldo attorno a cui il corpo (di parole, rispettivamente, e il corpo psichico) ruota e si evolve. Dettando il “ritornello”, sia rima sia ricordo orientano il flusso di impressioni (suoni, immagini, ma non solo), mentale e testuale. Di quel flusso sono i richiami, le certezze a cui nel modo più naturale la mente ritorna. Ciononostante, sarebbe meglio non abusare delle rime (risulterebbe persino anacronistico) – refrain che credo, piuttosto, andrebbero centellinati e risparmiati.

7. Ci sono 3 poeti delle nuove generazioni che ritieni particolarmente preminenti e/o a cui pensi sarebbe interessante porre queste domande?

Se devo sceglierne tre: Riccardo Frolloni, Gianluca Furnari e Linda Del Sarto.

Infine ti chiediamo di selezionare dai 2 ai 5 testi, esemplificativi della direzione più recente assunta dalla tua poesia, provenienti dal tuo ultimo libro e/o inediti

Propongo tre testi da Gli eroi sono partiti, in corso di pubblicazione per Passigli:

ESPIAZIONE

Per silenziare la sberla 
di bufera mannara che scrosta
gli stipiti delle porte, le fronde
del pensiero fragile, una vita
misera nascosta nel palmo

per scongiurarne la falcata 
oltre le terre già tetre per dune
di catrame, liquame di quelli 
che furono ghiacci

carcasse di orche pettinano i flutti.

L’espiazione la conoscono i sassi
ai piedi di queste montagne
pervase di luna, i cocci sul fondo
del sacco rifiuti tra uscio e deserto
 
ancora un felino arabesca alla notte.

ENEA

Ho raccolto dal fondale
un corallo senza nome
eppure familiare.

Non conosco l’algoritmo
che spalanca i portoni sotto chiave
che smuove
i mari stanchi, che commuove
i Tritoni.

Hai le mani fredde mentre
riavvolgi le cime
fai nodi stretti, indizi
della vita che avvinghi.

Svelami l’algebra dell’aria
che assapori quando scendi
nei paesi sommersi, la cifra
che al bivio ti illumina la via.

Sopra una chiglia sotto le stelle
siamo conchiglie nere
radunate in un palmo di mare.

Sotto le stelle sopra una chiglia siamo
trasparenze in una cruna siamo
ombre sulla randa, e la randa
un colombre che rifrange

l’ultima fronda della luna.

STANZE

Sapessi quanto ancora vorrei dirti 
parlarti senza il sonno nella gola 
come parla in un film di Ettore Scola 
il fruscio di lenzuola ubriache d’aria

*

feroce il progredire non risparmia 
nulla mai nessuno dal biancore
languido che angelica le nuche

guarda come crepita di papaveri
quel campo
sembrerebbe sconfinato eppure.

Immaginammo più maestosa 
la cascata il suo invisibile fragore
sugli occhi affamati come spugne
inermi nell’acquaio a fine estate

più longeva immaginammo la storia
dell’iride ammainata all’altra iride
la mano rampicante e l’altra mano
che ora spelliamo, in stanze separate.

Francesca Mazzotta




Giuseppina Biondo | Le sette domande di MediumPoesia

1. Tra i libri di poesia usciti nel primo ventennio degli anni 2000, ne trovi almeno 5 che per te siano fondamentali?

Proverò a condividere cinque opere alle quali tengo moltissimo. Queste mi hanno entusiasmata e sorpresa: Non finirò di scrivere sul mare di Giuseppe Conte; La carta delle arance di Pietro De Marchi; Cento poesie d’amore a Ladyhawke di Michele Mari; Biglietti con vista sulle crepe della storia di Alessandro Pertosa.

Quinto titolo, anche se si tratta di un’antologia – lasciatemela passare, essendo una pubblicazione di settembre 2019 –, L’ultimo spegne la luce di Nicanor Parra.

2. Se io incontro un poeta, possibilmente, non lo riconosco subito. C’è un modo per riconoscere un poeta? Nella tua esperienza, il fatto di scrivere poesia si riflette nella vita quotidiana?

Per me il poeta deve essere una persona sensibilissima e acuta, se debole è anche meglio. Perché se non si è disarmati, come si può cogliere l’essenza delle cose? Aggredendole? Non credo. Non al momento almeno. Si dovrebbe avere una debolezza tale che permetta di comprendere ciò che è puro, vero, contemporaneo, ciò che è possibile; e allora sì, che il poeta può mostrare un temperamento forte, dopo che le ha trovate queste cose, una forza che sappia difendere, più che attaccare. Un poeta può e dovrebbe essere anche irriverente, irrequieto, febbrile; uno di quelli che ama la vita e ne è spaventato sino alle ossa. Se una persona contiene moltitudini, ci sono ottime possibilità che sia un poeta.

E ci si accorge di queste anime complesse, se non si è accecati da antagonismi. In ogni caso penso che sia più semplice riconoscerli che chiamarli, i poeti. Se li incontri per strada con che appellativo ti ci rivolgi? Poeta Tizio, Poeta Caio? Maestro? I Maestri spesso rifiutano di essere chiamati tali. È un bel disagio.

Ho anche un aneddoto a tal proposito. Il 17 aprile 2018 – ricordo la data perché accadde esattamente un anno prima della mia laurea magistrale – incrociai il poeta Maurizio Cucchi a Sant’Ambrogio, a Milano. Lo riconobbi ma non seppi come chiamarlo in quel momento, e non lo chiamai. Quello stesso giorno, poche ore prima, avevo comprato il libro di Giuseppe Conte Poesie (1983-2015), lo avevo tra le mani, quando riconobbi Cucchi e non lo salutai.

Se questo episodio fosse una metafora, verrebbe da dire che riconoscere un poeta è semplice, chiamarlo, che se vogliamo, è come dire definirlo, sceglierlo, canonizzarlo, è più difficile.

Io sono totalmente assorbita dalla scrittura. Progetti, paturnie dei fallimenti: penso alla scrittura ogni giorno, che sia una scrittura poetica o prosastica, casuale, istintiva o progettuale. Fare poesia si riflette nella vita quotidiana, sì, nella misura in cui per esempio sto tante ore seduta a scrivere e rileggere, oppure quando devo alzarmi dal letto poco prima di prendere sonno per segnarmi un verso arrivato per caso (altrimenti il giorno dopo non me lo ricordo), o ancora quando vado a correre o a camminare per trovare idee; si riflette nel momento in cui ho bisogno di stare sola quando scrivo. La scrittura, non solo quella poetica, e le attività che le stanno attorno hanno anche ritardato la fine dei miei studi universitari. E una volta che entri in questa quotidianità si può anche faticare a uscirne. Ma dopotutto credo che dipenda più dalla persona che dall’essere uno scrittore.

3. Come è il tuo rapporto, in quanto autore, con i lettori e con i colleghi? Senti di fare parte di una comunità, a cui aderisci?

Sì, mi piace aggregare persone, poeti, artisti anche di settori diversi. Lo faccio anche con i miei libri, coinvolgendo autori, pittori, musicisti, affermati e non, italiani e stranieri. A Milano organizzo presentazioni e incontri di letteratura dal 2012, nel 2014 ho fondato #Recitationes. Da lì sono passati tanti volti, tante voci. C’è sempre un nucleo stabile, basato sull’amicizia, prima ancora che sull’interesse comune o su quello di affermazione, prevaricazione, perché, sì, c’è anche questo nel sistema della poesia, nelle sue tante comunità. Ma se fossi stata una persona competitiva, avrei studiato legge, non mi sarei dedicata alle lettere.

E qui mi allaccio ai lettori, che sono fonte di emozione, sono carburante e campanelli d’allarme: bisogna ascoltarli, rispondere loro e non inebriarsi di altro.

4. Ci sono delle tradizioni poetiche in altra lingua, che conosci o ti affascinano particolarmente?

Il verso e lo spirito di Whitman, l’irriverenza di Parra, la ritrattistica di Edgar Lee Masters, l’assenza di fronzoli, dettata dall’intensità del vissuto, vero, del greco Panagulis.

Ma la lista degli autori stranieri è numerosa, per me. Ci sono l’austriaco Peter Handke, le americane Maya Angelou e Rita Dove, la scozzese Carol Ann Duffy. E vogliamo dimenticare Prévert o Langston Hughes?

Ne amo tanti di poeti stranieri, anche molto diversi tra loro.

5. Nel tuo processo di scrittura, ti capita di raccogliere stimoli da altre forme artistiche o da discipline scientifiche?

Sì, mi capita spesso di raccogliere stimoli dalla pittura, anche dalle serie tv, dal cinema; e sono quasi sempre guidata dalla musica quando scrivo: se trovo un brano che mi ispira, lo riascolto in loop fino a che non smette di condurmi. Per quanto riguarda le discipline scientifiche, sinora mi sembra di no. Ma dopotutto di recente ho scritto una poesia sulla pec, la posta elettronica certificata: tutto può creare stimoli. Non escludo qualcosa di scientifico in futuro.

6. Che rapporto hai con la rima?

Ho sempre visto la rima come una cosa per filastrocche e brindisi. Ma se prendiamo Trilussa, non potrei che dirti che io amo le poesie di Trilussa. Per non parlare dei classici, come in Dante.

Quando posso, evito le rime, le cancello. Nella maggior parte dei casi ho bisogno che ci sia una certa distanza tra le parole che hanno la stessa terminazione. Altre volte, invece, sono perfette per il suono che creano. Insomma, devono forse solo arrivare al momento giusto, in base al contenuto, in base a ciò che vuoi dire, al significato che attribuisci al suono specifico che producono.

Però è davvero una visione soggettiva, di gusto personale. Non direi mai a nessuno di non usare le rime, che queste siano sbagliate o da evitare.

7. Ci sono 3 poeti delle nuove generazioni che ritieni a cui pensi sarebbe interessante porre queste domande?

Maria Borio, Gerardo Masuccio e Roberto Bernasconi. Tre poeti di età diversa, con stili e percorsi differenti: chi edito, chi inedito; chi più affermato, chi meno; ma senza dubbio tre poeti nell’animo, nella dedizione alle lettere e nell’umiltà dell’ascolto proprio e altrui.

Sono a tanto dal tagliarmi a zero i capelli

Sono a tanto dal tagliarmi a zero i capelli.
Vorrei capire questa lotta invisibile e imbastire
il tempo della pace o della guerra.

Mi accorgo della sfida, che se solo io radessi
la mia testa, subito potrebbero inaugurare
la ripartenza; come quando in attesa di un evento
tardiamo a voler svolgere un altro gesto,
ma alla fine compiamo il gesto
e l’evento atteso avviene.

(8 maggio 2020, Milano)

*

La denuncia tasse tari inviata via pec

“La denuncia tasse tari inviata via pec”
ha un suono troppo bello per non essere
il significante principale.

“La denuncia tasse tari inviata via pec”
è l’oggetto di una mail,
fa vedere quanto il suono arrivi casuale.

(30 maggio 2020, Milano)

La crema in viso la mattina e poi

La crema in viso la mattina e poi
la sera, prima di andare a dormire.
Non dimenticare la crema corpo 
e lo yoga per allungarti 
finché sei bambina. 
Avessi avuto queste indicazioni, 
le avrei eseguite da subito. Dico, 
peccato non averlo fatto prima. 

(10 giugno 2020, Milano)

*

Il senario risolve sempre tutto

Ora che scrivo in metrica mi sento
armata. Non potevo sapere anche
questo: che il metro è per gli assassini e i pii,
ugualmente per gli uni e per gli altri;
che il nemico, o l’amato, si attacca 
a distanza e con pochi metri. 
Ne bastano tre 
o cinque, direi. 
Il senario risolve sempre tutto. 

(8 giugno 2020, Milano)

ENDECASILLABO
ENDECASILLABO
ENDECASILLABO
NOVENARIO
SENARIO
ENDECASILLABO
ENDECASILLABO
ENDECASILLABO

ENDECASILLABO
ENDECASILLABO
DECASILLABO+TRISILLABO
DECASILLABO
DECASILLABO
NOVENARIO
SENARIO
SENARIO
ENDECASILLABO

Giuseppina Biondo




Nino Iacovella | Le sette domande di MediumPoesia

1. Tra i libri usciti nel primo ventennio degli anni 2000, ne trovi 5 che per te siano fondamentali?

Ci sto riflettendo. Non è facile. Sono un lettore infedele che si innamora sempre dell’ultimo libro letto. Tuttavia, dalla mia libreria ammiccano in particolare questi libri: “Le residenze invernali” di Antonella Anedda, “Umana gloria” di Mario Benedetti, “Macello” di Ivano Ferrari, “Poesia dal silenzio” di Tomas Tranströmer e un libro che sembrerebbe non doverci stare all’interno del perimetro della poesia, e che invece, a mio parere, c’è per la poetica del linguaggio: “Il tempo materiale” di Giorgio Vasta.

2. Se io incontro un poeta, possibilmente, non lo riconosco subito. C’è un modo per riconoscere un poeta? Nella tua esperienza, il fatto di scrivere poesia si riflette nella vita quotidiana?

Un poeta si distingue dall’amore assoluto che ha per la scrittura. Dall’importanza dei suoi silenzi rispetto a un mondo che vuole dire sempre e su tutto, dalla distanza che riesce a creare tra sé e l’opera scritta. Dal tenersi sempre in guardia dai tranelli narcisistici: è la poesia che viene prima del poeta, non il contrario.

Scrivere poesia non interferisce nella mia ordinaria vita quotidiana. Interferisce invece, significativamente, con i miei momenti di solitudine: in tale senso il tempo diviene creativo, produttivo in termini di scrittura.

3. Come è il tuo rapporto, in quanto autore, con i lettori e con i colleghi? Senti di fare parte di una comunità, a cui aderisci?

Non credo in una comunità della poesia. Credo invece nelle comunità autentiche dove la relazione si basa su corrispondenze di valori umani, affinità o legami di prossimità territoriale (chi mi conosce sa delle mie iniziative di poesia nel quartiere Corvetto a Milano). Questo non significa che non abbia amici poeti. Le amicizie più profonde, di “fratellanza”, le ho con altri autori con i quali condivido esperienze di scrittura e vita. Ma queste relazioni sono speciali, non banalizzabili in una comunità più ampia e spesso conflittuale, quella dei poeti, che non permette la distinzione di valore e sensibilità delle persone.

 

4. Ci sono delle tradizioni poetiche in altra lingua, che conosci o ti affascinano particolarmente?

Mi affascina la poesia sapienziale e mistica mediorientale. La declinazione moderna di questa tradizione poetica in parte s’incarna in Adonis, ma i grandi poeti mistici persiani e turchi, ad esempio, mi attirano in particolar modo.

5. Nel tuo processo di scrittura, ti capita di raccogliere stimoli da altre forme artistiche o da discipline scientifiche?

Assolutamente si. Anche perché non amo la poesia che attinge esclusivamente al proprio bagaglio letterario. Il rischio è di produrre una scrittura che diviene così una “ruminazione” settoriale colta, senza autenticità, dove spesso si scivola nell’epigonismo. Per questo la contaminazione, l’intersezione tra le arti, la connessione forte con la propria esperienza e il proprio sguardo sulla realtà a mio avviso sono indispensabili. Amo la pittura e la fotografia. La componente dell’immagine, nella mia scrittura, è fondativa del verso. Più del suono.

6. Che rapporto hai con la rima?

Conflittuale. Ritengo la rima un arcaismo. Cerco sempre di evitarla. Ma questo non significa che io rinunci alla ricerca del suono delle parole. La mia poesia non è prosastica. Rimane fortemente legata all’insegnamento poundiano che indica nella compresenza della logopea, fanopea e melopea (significato, immagine e suono) l’insieme degli elementi costitutivi della poesia.

7. Ci sono 3 poeti delle nuove generazioni che ritieni particolarmente preminenti e/o a cui pensi sarebbe interessante porre queste domande?

Ci sono diversi giovani bravi poeti. Identificarne una terna farebbe torto alla validità della poesia di altri giovani autori esclusi. Lasciamoli lavorare piuttosto che fare graduatorie. Sperando che maturino sempre più le loro voci rimanendo fedeli all’unica stella polare di chi scrive in versi: la poesia.

da “La parte arida della pianura” inediti

Il bianco della pagina

Un albero al centro dell’inverno,
una pagina vuota tra la frattura dei rami

Chiama la nebbia uno stormo di pensieri
come la carta i segni di una parola

Scrivere l’onda sul mare, gettare l’ancora sul foglio,
arrivare sino al fondale di una preghiera

*

Madre della Violenza

                                                                   La donna del lago

La testa snodata, infinita del sogno
che nuota nell’acqua scura del lago

Ci si desta sempre quando lo scenario non coincide,
ma adesso non ci sono risvegli ad attendere
ed è un abisso il fondale delle notti

“L’amore è bello solo se è vero amore” scriveva Gabriella
come se le parole riemergessero a galla,
un colpo di pistola, la testa bucata nel sonno
un corpo alleggerito dalla morte che risale
con il pigiama, le mani legate, i piedi senza scarpe

Il sogno non distingue appieno la natura degli ostacoli
se tronco, pietra, corpi, come un pesce nuota
con occhi divisi e contrapposti
per guardare l’intero spazio, profondo
degli uomini che vanno a morire

Il sogno guarda, sgrana la catena che oscilla
come un’alga sul fondale, un cordone ombelicale
che arriva sino alla donna affiorata sul limbo dell’acqua,

Il corpo di lei era avvolto con un telone di plastica bianca,
legato in tre punti con cinghie da tapparella
appesantito da tre blocchi di cemento armato
ai quali il suo uomo l’aveva incatenata

Dicono che i circuiti neurali durante le notti
s’illuminano, arabeschi di luce, fuochi d’artificio
in un giorno di festa,
e qui la pietà è un filo che non si spezza

dalla nuca come un sogno che entra nel sogno,
il proiettile cambia sembianze, non è più un cuneo di piombo,
ma la macchia nera che vediamo quando si guarda in faccia il sole

ed è un attimo, quell’attimo di grazia
che oscura l’esplosione del colpo
e le nasconde l’arrivo della morte

*

Lande

Guardiamo il cielo aprirsi sul nostro tremore,
la nudità del paesaggio che chiama in rassegna
uccelli disorientati in uno spazio vuoto

Nel freddo siamo la carne che rimpolpa
le mascelle della terra

L’acqua del fiume in cerca della foce
scivola nell’ordine della natura,
l’unica direzione che la pianura sa dare

***

da “La linea Gustav”, Il Leggio Editore, 2019

Vorrei cambiare nome agli inverni
tenendo più stretto il ricordo del freddo
il gelo nelle dita dei soldati

Veder sparare ancora i tedeschi
a denti serrati dall’alto del muraglione
con occhi che spezzano a vivo
la coda inerme degli sfollati

E cercarvi lì, tra i vecchi a coprire le madri,
le madri come rifugi per sagome minute
(tra il seno e la spalla, insenature
come porti per piccole teste
spaurite nella burrasca)

Sul paese come un’ombra la linea Gustav,
tracciato d’inchiostro sulle rovine,
il confine tra chi si butta a terra
prima o dopo lo sparo

***

Con l’alito delle bestie e il tepore
della paura, la guerra respira ancora
in quel ricovero, non si è spostata
di un giorno da quelle catene,
le mani chiuse dal freddo,
i muri ceduti delle case

Per questo tornerò a leccare la parte
vuota del bicchiere, unico superstite
di un tempo rovesciato sul tavolo,
che saprà di quel vino che macchia a fondo
e mostra il rosso dall’interno della giacca

Riconosco ancora i ganci del soffitto:
erano sempre stati lì per seccare la carne
o le altre cose buone da mangiare

Ma tu chiami
come se non ci fosse voce ad avvicinarsi,
fai poggiare un passo in più nel vuoto
sino a toccarmi

Rimango solo ad ascoltarti
e si chiude il cerchio attorno al buio:
la parte ruvida della corda che ti veste
mi sfiora, e ti sento quasi cadere dal soffitto
prima del silenzio definitivo
monocorde del cappio

Nino Iacovella




Iuri Lombardi | Le sette domande di MediumPoesia

1. Tra i libri usciti nel primo ventennio degli anni 2000, ne trovi almeno 5 che per te siano fondamentali?

I miei libri di poesia che amo di più, tanto da portarmi a considerarli miei, sono relativi ai classici più che a autori contemporanei. Ad ogni modo, al di là di una logica antistoricista, anticrociana, posso affermare che vi è una generazione di poeti contemporanei molto validi (anche di scrittori) e se dovessi scegliere un titolo che sintetizza il meglio e che secondo me ha inciso sulla poesia contemporanea è sicuramente Creatura breve e L’estate del mondo di Gabriele Galloni.

2. Se incontro un poeta, possibilmente, non lo riconosco subito. C’è un modo per riconoscere un poeta? Nella tua esperienza, il fatto di scrivere poesia si riflette nella vita quotidiana?

La poesia è una assentazione dal mondo, una dimenticanza, una epochè – vale a dire, una messa tra parentesi. La poesia proprio per questa sua caratteristica intrinseca che ha – risponde solo a proprie  regole, a un proprio codice interiore-  non risponde alle leggi della definita società comune. La poesia è, per fortuna, libertaria nel senso che non è una merce è invece qualcosa che ha a che fare con il perpetuo, scavalca i tempi e i contesti, le regole del gioco. Non si lascia intrappolare da criteri  criminali di potere: in sostanza credo sia qualcosa che Don Milani definiva come ribellione: “ubbidire non è più una virtù”.

Per quanto concerne il poeta, direi che a differenza della poesia è un uomo, quindi fisicamente fatto da essere umano, ha tratti somatici, un pensiero, due gambe e due braccia, una voce. Ma ha, come uomo, una propria storia, un presente da vivere, una ragnatela di affetti senza la quale non può esistere.

3. Come è il tuo rapporto, in quanto autore, con i lettori e con i colleghi?  Senti di fare parte di una comunità, a cui aderisci?

Con i colleghi buono, ho molto rispetto dei colleghi. Con i lettori non saprei, il lettore è il pubblico che non conosco e che è comodamente seduto in platea da un teatro a fari spenti dal quale mi esibisco.

Tendenzialmente, per mia natura, sono un solista ma credo da sempre che nulla si può fare da soli: serve sempre l’altro. Da questo punto di vista, mi sento parte della comunità letteraria italiana.

4. Ci sono delle tradizioni poetiche in altra lingua, che conosci o ti affascinano particolarmente?

Direi tutta la poesia dialettale, il più delle volte non traducibile nella lingua italiana o nazionale. Il dialetto è infatti, almeno credo, importante perché libera lo scrittore dal proprio senso di territorietà politica. Presenta delle componenti che la lingua di stato, quella nazionale, non contempla; è molto più colorito, sensibile alla parola singola. D’altronde il dialetto per essere scritto necessita di una propria codificazione linguistica in quanto da secoli e per millenni è legato a una tradizione orale. Tenendo sempre presente che l’italiano è la lingua più bella proprio perché figlia della poesia: una lingua che nasce da un poeta, dunque noi abbiamo il privilegio di parlare una lingua di poesia.

5. Nel tuo processo di scrittura, ti capita di raccogliere stimoli da altre forme artistiche o da discipline scientifiche?

Assolutamente sì. L’arte della pittura, del cinema, del teatro, la letteratura stessa sono fonte dell’ispirazione, parte integrante dello stimolo a creare cose nuove. Ma la vita è quella che mi ispira di più: la vita è l’arte.

6. Che rapporto hai con la rima?

La rima nasce in tempi remoti per una questione legata al mnemonico, alla musicalità del verso e ancora per un aspetto di proprietà autoriale. Attraverso la rima molti autori è come se avessero sviluppato una sorta di acrostico, di firma ai versi. Oggi la rima, tranne in casi eccezionali, non ha più un valore stilistico, non ha più una valenza concreta ai fini estetici e musicali di un brano.

7. Ci sono 3 poeti delle nuove generazioni che ritieni particolarmente preminenti e/o a cui pensi sarebbe interessante porre queste domande?

Sì, uno era Galloni che purtroppo ci ha lasciati molto presto. Altri due sono Antonio Merola (i cui versi sono apparsi su riviste) e Mattia Tarantino.

Testi tratti da: Iuri Lombardi, Dizionario delle notti, Arcipelago Itaca, 2020

Un quanto di luce trafora il muro;
sul margine deserto s’appigliano
le stelle morte cariche di bisbigli;
già so sul ciglio dell’inizio il nome suo
il presagio misterioso e increspato
del viaggio immobile.

*

Albeggio a intermittenza al balcone
la controra recide gli spauracchi,
copre i corpi abbandonati dalla morte;
la sfida sta nell’incedere muto
di un passo di troppo sulla rupe
il sonno è miele nel nido della via
le case serrate sul nulla:
come Dio non ti sento da tempo

Iuri Lombardi




Massimo Del Prete | Le sette domande di MediumPoesia

1. Tra i libri usciti nel primo ventennio degli anni 2000, ne trovi almeno 5 che per te siano fondamentali?

Se mi è permesso un piccolo strappo rispetto al periodo temporale richiesto, vorrei citare Notti di pace occidentale di Antonella Anedda, uscito nel 1999 ma segnante per me in merito a un certo modo di pensare la costruzione linguistica delle immagini. Faccio seguire Mandate a dire all’imperatore di Pierluigi Cappello, La polvere nell’acqua di Mario De Santis, Il grande innocente di Gabriel Del Sarto e infine un’opera omnia, le Poesie di Milo De Angelis, i cui risultati sul mio fare poetico non sono ancora riuscito a metabolizzare.

2. Se incontro un poeta, possibilmente, non lo riconosco subito. C’è un modo per riconoscere un poeta? Nella tua esperienza, il fatto di scrivere poesia si riflette nella vita quotidiana?

Se una maniera esiste passa senza dubbio dal modo di interpretare la vita quotidiana. Credo che la poesia, prima ancora che la traduzione linguistica della coscienza, sia una modalità dell’esistenza, attraverso cui si riesce a trattenere qualcosa che un istante prima ha forma definita e quello dopo è fumo. Ha quindi a che fare con l’attenzione, con la capacità di non lasciar andare, di non perdere e di non perdersi tra le cose reali che il tempo dissipa. Forse quindi si può essere poeti anche senza scrivere una riga: questo potrebbe essere troppo radicale ma anche un modo interessante di affrontare la questione. Quando mi racconto o mi introduco ad altri, il fatto di scrivere poesia è forse l’ultima cosa che viene fuori, proprio perché usare carta e penna è il passo finale di un processo tutto interiore (per alcuni, certo, molto breve). In tal senso, quando il processo si compie, pensare poeticamente e avere la fortuna e la capacità di sviluppare una tecnica poetica significativa diventano azioni connaturate al vivere, mutuamente implicanti e non estirpabili, anche quando si attraversano lunghi periodi di silenzio: il pensiero non si addormenta mai davvero. Infine quindi ti direi che sì, vita e letteratura a un certo punto si fondono e non si separano più: a chi volesse lanciarsi in una ricerca alla cieca consiglierei di guardare a certi indizi: la tendenza alla sottrazione e al silenzio, un’attenzione speciale al tempo, alla memoria, ai loro resti.

3. Come è il tuo rapporto, in quanto autore, con i lettori e con i colleghi?  Senti di fare parte di una comunità, a cui aderisci?

Il rapporto coi miei lettori è improntato tutto a un unico sentimento: la gratitudine. A distanza di quasi tre anni ritengo ancora incredibile aver pubblicato un libro di poesia e non posso che sentirmi profondamente grato verso chi ha sostenuto un impegno materiale per possedere il mio libro e lo sforzo intellettuale che qualsiasi lettura richiede.

Con i colleghi il rapporto è vago e saltuario, ma questo riguarda me: la poesia come atto linguistico mi riguarda densamente, come dato caratterizzante, per periodi di tempo ristretti a cui seguono larghi vuoti in cui mi interesso e mi occupo di tutt’altro. Forse per questo resto ai margini di una comunità che pure è ristretta e non complessa da attraversare, da toccare. Talvolta mi sembra di non averne nemmeno davvero il titolo, di non tenere abbastanza in conto il valore della poesia. Credo in realtà che sia solo il mio carattere schivo, la mia tendenza a rifuggire la sfera pubblica anche in questo risicato settore – spesso fatta di inutili polemiche, premature santificazioni, in un gioco di bande contro bande che oscura totalmente il testo – e rifugiarmi in quella privata. Ho pochi interlocutori in questo senso ma tutti preziosi, veri punti di riferimento senza i quali, forse, la poesia mi sfuggirebbe dalle mani inspiegabilmente, proprio come è arrivata.

4. Ci sono delle tradizioni poetiche in altra lingua, che conosci o ti affascinano particolarmente?

Nonostante i miei studi di linguistica non ho un rapporto profondo o costante con le lingue diverse dall’italiano, se non per una questione puramente funzionale, o di studio strutturale: linguaggio e non lingua. Anche per questo le mie letture poetiche sono quasi esclusivamente in italiano. Se escludiamo le lingue del passato che ho potuto toccare in ambito accademico (provenzale o latino) ho avuto qualche contatto con la poesia spagnola e sudamericana e ho subito moltissimo il fascino di autori come William Carlos Williams, T. S. Eliot e Philip Larkin.

5. Nel tuo processo di scrittura, ti capita di raccogliere stimoli da altre forme artistiche o da discipline scientifiche?

Sì e sono convinto di aver realizzato forse i miei testi migliori proprio nel momento in cui ho provocato una collisione semantica tra sfere diverse della conoscenza. Sono molto affascinato dalla fotografia: ho la fortuna di conoscere vari professionisti, alcuni tra i membri della mia famiglia, ed è stato sempre normale per me confrontare attraverso loro due linguaggi diversi e complementari come la parola e l’immagine. Per questo mi piace partire dall’osservazione della fotografia per poi attuarne una traduzione linguistica: un processo che assorbe l’immagine, la nega ma la fa riaffiorare in un modo nuovo e imprevedibile dalla carta. Solo così i due linguaggi perdono la propria identità e ne assumono una che prima non esisteva: il tutto è più della somma delle parti, no?

In secondo luogo, hanno un certo peso i miei studi di ingegneria e la mia familiarità con la matematica e con la fisica: trovo che, oggi più che mai, le implicazioni prima epistemologiche e poi filosofiche tout court di un campo come la fisica quantistica costituiscano un pendant molto significante rispetto alla realtà umana e quotidiana, esulando naturalmente da banali romanticizzazioni della materia o da travisamenti in ottica para-religiosa. D’altro canto, la meccanica quantistica ha valore nell’infinitamente piccolo e per arrivare a quella scala bisogna scavare, scendere, cogliere i dettagli sotto la superficie. Detto in questi termini, le somiglianze immediate con l’atto poetico sono evidenti e tuttavia, anche al netto della poesia, prima di dischiudere un bagaglio di conoscenza umana oltre che scientifica, una tale disciplina dovrà diventare nei suoi concetti base appannaggio della cultura media. E questo, purtroppo, è ancora di là da venire.

6. Che rapporto hai con la rima?

Complesso o piuttosto molto ambiguo. All’inizio del mio apprendistato poetico ne ho subito il fascino, come molti prima di me immagino e, come dicevo prima, lo studio della poesia provenzale mi ha portato quasi a riverirla. In realtà ho smesso quasi subito di costruire il verso in funzione della rima e oggi preferisco ricercare figure di ritmo o artifici di versificazione diversi. Resta il fatto che, sia detto molto grossolanamente, la rima può considerarsi uno strumento poco caratteristico della nostra epoca nel senso che non costituisce più l’equazione che indentifica il testo poetico come tale. Nonostante questo, nonostante la sua “superfluità”, non condanno il suo uso come quello di tutti gli altri modi di chiusura formale a patto che costituiscano un surplus di significato, un’aggiunta al contenuto semantico del testo. Diversamente, oggi, la rima è affettazione.

7. Ci sono 3 poeti delle nuove generazioni che ritieni particolarmente preminenti e/o a cui pensi sarebbe interessante porre queste domande?

Valentina Colonna, Beatrice Cristalli, Michele Bordoni.

Infine ti chiediamo di selezionare dai 2 ai 5 testi, esemplificativi della direzione più recente assunta dalla tua poesia, provenienti dal tuo ultimo libro e/o inediti (e se possibile fornirci delle audio-letture dei testi).

Da ‘Soglie’ (Ladolfi, 2018)

Anticipazione

a A.

Anche tu non hai mai rotto il cerchio
dove tutto assume un nome
dove tutto si conosce, si somiglia.
Resterai con me, come chi s’è cercato in un
tutt’altro, custodirai questo sgabello
io e te di fronte, ancora per vent’anni
“mi lasceranno sola” già sapevi, col
ricordo che riflette alcune ciocche bianche,
troppi, troppi scatti oltre noi stessi.

Tardi. Ti do un appuntamento vago
stanco “una birra, sì, uno di questi giorni”
– ma tu che non sei salva, tu sai ridere

“puoi ancora opporre il bello alla miseria
confina fuori il tempo, il giorno è adesso”.

Abracadabra

‘Non puoi pensare il tempo prima
del Big Bang’ dissero in tv. Ebbero torto.
Sta lì l’ultima, l’estrema ritorsione
del gomitolo, del tempo che visse sé stesso,
prima, della parola che sapeva dire veramente
la parola che nel canto fece il mondo
lo esplose in un acuto e glissò le nostre

vite – continuammo noi ma poi
dimenticammo e i nomi si dispersero.

Oggi esistiamo nel dopo, nell’inverso del processo

in una vita che si è fatta letteratura
disfatta in virgole, grafemi, stanghette

senza autorità che fingono d’immaginarla
questa vita non più vissuta non ricordata
– come me e te, i nostri sogni che
non osammo dire né creare

e il loro canto breve in balìa
dei pronomi di un condizionale.

Dalla raccolta inedita ‘Primi giorni ad est’

Su una foto di Irving Penn

‘Girl drinking’ diceva la targhetta
come se bastasse per esporti in una sala
per estrarti dal tuo tempo e reiterarti
ancora e ancora in scatti che divergono
per un angolo di luce o per un buio
che si addensa tra le piume e nei capelli
indovinando i tuoi confini.

Si trattava di variare l’osservatorio sul reale
prendere di te il gesto, pretendere
dalla fissità degli occhi
un’altra conoscenza.

Era appena una speranza indagare
nel tuo volto tutto il bello
tutto il possibile che anche i numeri non sanno
ma il sogno mi ha travolto, troppe volte
ha disgregato il tuo contorno, troppe volte

l’ha ridato, messo in fila come tanti
negativi che di te tutto diranno
nascondendolo.

La tua lingua non ha suono né segno
nessuna tecnica può indurre la tua voce
ma non importa – perché ora so
che parlerai con me
se userò del verso il lume
ma specialmente l’ombra.

Ricordo di Caterina

I.

La zia del nonno sapeva fare i conti
a malapena, e nessuno voleva ricordarle
che la guerra era finita da decenni
nemmeno tu papà in un giorno
di vecchia primavera, portando
la tua sposa nel suo antro
di statue di santi e di madonne –
ma tutti si sbagliavano
la zia sgranava gli anni esattamente,
con la coscienza che ancona le restava
lei sapeva –
l’avreste visto dalla mano
che tremava irrefrenabile toccando
il ritratto giovane per sempre
di un marito come tanti, come tanti
disperso catturato e morto
soltanto in presunzione
“io l’aspetto” soffiava tra le labbra

e il nonsenso del sorriso impose
la pietà, la pelle d’oca.

II.

La memoria degli ultimi è la prima
a scomparire: ultimi come noi
uomini stanchi che cedono
alla disgrazia del tempo.
Scrivere e tramandare non si equivalgono
più: pensiamo di potere ma non possiamo
fissare la catena del ricordo
che si inanella a ritroso gettandosi
in un vuoto in una nebbia.

Anche noi cadremo in questa sorte
basterà un nipote e suo figlio bambino
a cui nessuno dirà il nostro nome –
questo
questo sarà sbiadire
aver vissuto per un altro mondo.




Antonio Faruolo | Le sette domande di MediumPoesia

1. Tra i libri usciti nel primo ventennio degli anni 2000, ne trovi almeno 5 che per te siano fondamentali?

Sono sincero: i libri di poesia che ho amato non appartengono alla contemporaneità. Tra le poesie uscite negli ultimi anni, mi sono state d’ispirazione quelle di Gabriele Galloni, Demetrio Marra, Dimitri Milleri, Francesco Ottonello e altri.

2. Se incontro un poeta, possibilmente, non lo riconosco subito. C’è un modo per riconoscere un poeta? Nella tua esperienza, il fatto di scrivere poesia si riflette nella vita quotidiana?

Sono dell’idea che ciascuno di noi nasconda dentro di sé un poeta. Scrivere una poesia, bella o brutta che sia, è spesso un gesto immediato, accessibile a chiunque. Basta davvero poco: eliminare le sovrastrutture mentali e lasciarsi attraversare dalla vita che ci scorre accanto. Questo è l’esercizio che pratico nella quotidianità per fare poesia.

3. Come è il tuo rapporto, in quanto autore, con i lettori e con i colleghi?  Senti di fare parte di una comunità, a cui aderisci?

Ho sempre praticato la poesia nell’intimità della mia “cameretta”. Dunque, per rispondere alla domanda, non faccio parte di nessuna comunità. Anche se mi piacerebbe tanto.

4. Ci sono delle tradizioni poetiche in altra lingua, che conosci o ti affascinano particolarmente?

Nessuna in particolare, anche se nell’ultimo periodo ho letto tanta poesia americana.

5. Nel tuo processo di scrittura, ti capita di raccogliere stimoli da altre forme artistiche o da discipline scientifiche?

Sempre. In particolare, i linguaggi delle discipline scientifiche esercitano su di me un certo fascino.

6. Che rapporto hai con la rima?

Pessimo. Non la utilizzo quasi mai: il canone estetico che ho scelto di seguire non la prevede.

7. Ci sono 3 poeti delle nuove generazioni che ritieni particolarmente preminenti e/o a cui pensi sarebbe interessante porre queste domande?

Gerardo Masuccio, Maria Borio, Giorgio Ghiotti.

Infine ti chiediamo di selezionare dai 2 ai 5 testi, esemplificativi della direzione più recente assunta dalla tua poesia, inediti o provenienti dal tuo ultimo libro.

sradicare dai prati a manciate
ciuffi d’erba  calpestata da greggi
in sosta sotto l’afa soffocante –
e nel frattempo l’eterno ritorno
dell’uguale, ciclo e riciclo quando
palingenesi e distruzione fanno
il verso agli hobby estivi, come questo
prendere delle lucertole il posto
e raccogliere e mimare sui sassi
le attese di una quercia ottuagenaria.

*

quel che resta della fine di luglio
boccheggia insieme all’unto dell’asfalto
che sale come da una friggitrice –

quel che resta alla fine di luglio
evapora insieme a parole stanche
come schiene curve sulla mietitura
di un tempo già al passato

*

Lì dove il cuore indugia, trovo te e nient’altro.
Quando sembra non esserci altro istante
che quest’istante.
Trovo te e nient’altro nell’angolo che adesso
scelgo per dare un posto alla speranza,
questo da cui guardo il mondo perdere
il senso della proporzione. Niente è più come
sempre è stato:
nelle torce che deformano il buio della sera,
perfino nel profilo buffo delle nuvole –
vedo che ci sei tu e nient’altro.

*

Lontani ricordi e più lontane paure
seppelliamo in paesaggi inondati dal sole
sferzati da vento maestrale
percorsi da qualche miglio di asfalto –
gli stessi paesaggi che da bovindi affacciati
sul vuoto ci piace biasimare quando della neve
non sentiamo l’odore.

Seppelliamo, dunque – ma ciò che dalle zolle smosse
si schiude sono caricature di volti

nella foschia del mattino, una folla
di gotici spauracchi che volentieri vedresti
laggiù,
inghiottiti nei tombini di una metropoli, relegati
al buio di mondi mai esistiti.

E allora chiudere gli occhi è un esercizio necessario
quando al buio nelle orbite diamo la forma di ciò
che può salvarci. È questo il silenzio sopra case
abbandonate,
i dedali delle strade e un’ombra mi sorride –
sui tetti tante tegole e il caldo fumante
di un camino quando fuori infuria la bufera.

Antonio Faruolo




Simone Biundo | Le sette domande di MediumPoesia

1. Tra i libri usciti nel primo ventennio degli anni 2000, ne trovi almeno 5 che per te siano fondamentali?

Ne cito nove. Sono libri su cui ho ragionato moltissimo, soprattutto per ragioni di stile. Alcuni mi hanno turbato profondamente per motivi che definirei umani. Li elenco in ordine cronologico.

Ritorno a Planaval di Stefano dal Bianco (2001)

Armi e mestieri di Giampiero Neri (2004)

Pasqua di neve di Enrico Testa (2008)

Tersa morte di Mario Benedetti (2013)

Argéman di Fabio Pusterla (2014)

Nuovi giorni di polvere di Yari Bernasconi (2015)

Osare dire di Cesare Viviani (2016)

Alfabetiere privato di Azzurra D’Agostino (2016)

Lingualuce di Damiano Sinfonico (2017)

2. Se incontro un poeta, possibilmente, non lo riconosco subito. C’è un modo per riconoscere un poeta? Nella tua esperienza, il fatto di scrivere poesia si riflette nella vita quotidiana?

Non credo ci sia un modo per riconoscere un poeta. Non solo, per me non ha alcuna importanza che questa persona scriva versi se non in quanto possono essere versi che mi interessano e su cui posso dialogare. Di una persona mi affascina la vitalità, l’intelligenza, l’immaginazione. Questi tre aspetti non necessariamente sono espressi da una persona che scrive poesie ma di certo sono parte della poesia.

Ci sono tante pratiche poetiche quanti sono coloro che le esercitano ma per me una poesia è poesia se è il risultato di un lavoro che, all’interno di una struttura ben definita e riconoscibile e attraverso gli strumenti adatti a ricostruire e decostruire il materiale linguistico, si assume la totale responsabilità della parola detta e non detta, della chiarezza e della ragione, dei processi logici ed espressivi e con questo intento prova ad additare all’invisibile. Probabilmente, per me, chi scrive con questa intenzione, fa poesia. Yves Bonnefoy ha scritto che per fare poesia è necessario avventurarsi nel discorso degli altri, negli uomini e nelle donne del proprio tempo, dove immaginario e vero si confondono. Poesia, quindi, come attenzione a sé stesso nell’altro e all’altro in sé stesso. A volte m’immagino la poesia come la ragnatela di un minuscolo ragno nero nell’angolo di un muro bianco. In ogni caso, per provare a scrivere ma non solo, ci vuole impegno umano. Un modello irraggiungibile è Primo Levi.

3. Come è il tuo rapporto, in quanto autore, con i lettori e con i colleghi?  Senti di fare parte di una comunità, a cui aderisci?

La comunità della poesia, in Italia, è piccola ed esiste. La bellezza di pubblicare un libro sta anche nelle relazioni che si creano, prima e dopo la lettura di un libro, che sia il proprio o di un altro. Ho la fortuna di aver allacciato delle conversazioni preziose.

4. Ci sono delle tradizioni poetiche in altra lingua, che conosci o ti affascinano particolarmente?

Se parliamo di tradizioni no. Mi piacerebbe tradurre e imparare di più. Gli unici autori che ho davvero studiato, anche per la conoscenza, sebbene imperfetta, della lingua, sono Mark Strand e Alejandra Pizarnik. Degli altri, complice una lingua per me inaccessibile, ho solo consumato le pagine. Tra questi ci sono il poeta polacco Zibgnev Herbert, il poeta olandese Cees Noteboom e il poeta tedesco Peter Handke e poi Paul Celan e Josif Brodskij. A proposito di traduzione, a dicembre per la casa editrice Festa mobile uscirà Approdi. Vivremo fino al mattino, un libretto che unisce poesia e fotografia con una mia selezione e traduzione, condotta insieme a Paola Fossa, delle poesie di Louis Brauquier, un poeta marsigliese che incentra la sua riflessione sul mare e sulla lontananza.

5. Nel tuo processo di scrittura, ti capita di raccogliere stimoli da altre forme artistiche o da discipline scientifiche?

Continuamente, se parliamo di discipline scientifiche, quasi mai se parliamo di altre forme artistiche non scritte. Pittura, musica, fotografia scultura sono forme di cui amo alcuni raggiungimenti e che in qualche caso studio ma che non entrano in modo palese nei miei testi. Faccio un esempio: l’architettura, la pittura e la scultura religiosa medievale mi appassionano. Se vado in giro e so che c’è una chiesa romanica, non posso non andare a visitarla e mi soffermo su ogni particolare. Poi vado a leggerne la storia e cerco di capire cosa è cambiato dalla fondazione ad oggi. Cerco di capire quanto è scomparso. Cosa è rimasto. È la dialettica tra sparizione e permanenza che più di tutto mi stimola.

Discorso diverso vale per le altre discipline. Filosofia ed ecologia del paesaggio sono al centro delle mie riflessioni, così come la botanica, la geografia e la storia. Sulla mia scrivania c’è ormai da alcuni anni il catalogo Alberi e arbusti in Italia di Ferrari e Medici. Non potrei scrivere o starne senza.

6. Che rapporto hai con la rima?

Da ascoltatore. Mi stupiscono le assonanze, le consonanze e le rime interne. La rima è una struttura misteriosa che ho timore di usare. A volte ho la sensazione che le associazioni che scatena siano difficili da sopportare.

7. Ci sono 3 poeti delle nuove generazioni che ritieni particolarmente preminenti e/o a cui pensi sarebbe interessante porre queste domande?

Maria Borio, Antonio Lanza e Francesco Terzago

Infine ti chiediamo di selezionare dai 2 ai 5 testi, esemplificativi della direzione più recente assunta dalla tua poesia, inediti o provenienti dal tuo ultimo libro.

Scelgo cinque testi da Le anime elementari, il mio unico e primo libro appena uscito a settembre per Interno Poesia.


simone biundo, le anime elementari

Croce di Creto

la prestazione dell’agricoltore
è staffetta al vento, all’incostanza
il muro, il secco e più lontano il mare
la febbre della terra, la neve che non scende
e l’albero che secca, l’erba tutta bruciata

vincono le piante bene armate
le più morbide anche d’estate

*

Monte Marsicano

Leggera è la farfalla
che abbiamo adottato
succhiava dalle nostre mani
arrotolava e srotolava
la spiritromba come nelle teche
del fiore, aveva il torace celeste
e le antenne striate, passava
su un dito e su un altro

il tuo pollice
non era mai stato
una casa per farfalle
il tuo palmo un giardino
leggera è la farfalla
che abbiamo lasciato
è stata per poco con noi
come si conviene a un’effimera

*

Ripenso spesso a Frattura vecchia.
È un paese abbandonato a 1100 metri, sotto al Monte Genzana.
C’è una piazza d’erba
un ruscello che spunta dalla terra
e le bocche scolpite di una fontana.
Nel 1901 dopo il terremoto
detto della Marsica
perse quasi tutti i suoi abitanti.
Ora il fico abita le finestre
dal tetto si sporge la rosa canina
e i rovi riempiono di more le strade.

Quel giorno che lo abbiamo
conosciuto abbiamo scoperto la durata.
La continuità delle foglie e del verde
la ripetizione delle parole e dei gesti
sta nell’anello che non ti ho regalato
nel fiatone per risalire il monte
negli ometti che abbiamo ricomposto assieme.

Ci siamo tornati altre volte
l’acqua gorgogliava tra i denti di leone
e il canto dei grilli durava fino al tramonto.
Qui si sentono molte voci e nessuna parla sopra alle altre.
Si alza il vento, un turbinio di polvere ci avviluppa.
Mi prendi per mano
e continuiamo il sentiero
riprendendo i segnali per il lago.
Ti sento la pelle e le ossa. Lo vendono a Scanno
quell’anello, è d’oro, fatto a mano, e costa molto.
Ti sta benissimo al dito.

*

Terrasanta

Tra il Vallone dei Vergini e dei Girolamini
nella salita del Rione Sanità, non a destra come indica
la voce ma a sinistra, Cimitero delle Fontanelle
enorme cavità.
Cammino tra gli ordinati, tibie, femori e crani
e poi umido e sudore, polvere e monete, denti e ragni.
I fiori sono finti, non sopravvivono veri
se si mettono sui morti. I lumini brillano, i rosari sono stinti.
40.000 persone
stipate in stato d’abbandono
moltiplicati per 4
metri di profondità
altri morti sminuzzati
sotto il calpestio. In una navata
non degli appestati o dei pezzentielli
è acefala la statua di San Vincenzo, il monacone.

Ci sono luoghi che si ricordano comunque
ma noi non c’entriamo proprio niente
è come starci appena nati
non conosciamo una parola
e le conosciamo tutte: Materdei. È detto
che esondarono in un giorno e che le acque
li abbiano lavati ma gli uomini, questi uomini di ossa
li abbiano nascosti sottoterra
ancora nel ventre che li ha espulsi
e sistemati Per Grazia Ricevuta nelle cave di tufo
scavate per i vivi, nel ticchettare delle gocce
che si aggrumano nel pianto e nel tempo.

Lì dentro
per quei casi che non sai
ho incontrato delle facce conosciute.
Stavano con Pluto, il loro cagnolino.
Anche loro volevano adottare.
L’avevano trovato e scelto, il figlio
e con cura e con lo straccio il cranio
gli avevano pulito e messo una monetina sulla testa.
Uno loro non l’avrebbero mai fatto
era qualcosa che c’entrava con i teschi
e con quella luce che illuminava la basilica.
C’entrava coi lucchetti, le teche, la fossa e la famiglia.
Si sono allontanati tra le ossa verso il fondo
ma prima ci siamo ripromessi di vederci
ancora al buio. Non sono rimasto lì a lungo
sentivo freddo, la gola mi pulsava
e non volevo fare coda
per la pizza da Starita. Avevo tanta fame.
E che vuoi fare, all’una, non mangiare?

*

La casa dei ciechi

1944

Ad Ussolo in Valle Maira
un pilone votivo affrescato
una borgata, una casetta e un letto
gli aghi caduti dai larici. Tra i pascoli
bianchi, in un mondo di ciechi, due ciechi.
È il giorno di Santo Stefano, il primo martire, il linciato.

L’esercito
non ha radar
o sonogramma, così
ci hanno chiuso qui dentro
per ascoltare le strade nel cielo
per ascoltare la guerra che ci corre
di sopra e avvertire la contraerea, il comando.

A terra, paglia, pietre e stoviglie. Nel respiro
le pecore, le capre, la carne. In alto
strepitano i bombardieri diretti
dalla Francia verso le città
dell’Italia.

Noi
non vediamo
e non vogliamo combattere
ma vogliamo volare
oltre la linea di confine
oltre la linea della schiena
e ci ascoltiamo piano
ci sfioriamo lenti
lungo la linea del collo
lungo le linee della mano
poi con coraggio e con timidezza
ci prendiamo per la gola e le scapole
e ci stringiamo ben sotto il petto
ci tocchiamo sotto i vestiti, dentro le anche e l’addome.
Scoprendo l’amore ascoltavamo il rombo nei cieli passare.

Simone Biundo