Confessioni di un italiano | Guarire dalla psicosi da coronavirus

Una breve riflessione di Francesco Ottonello (fondatore del progetto MediumPoesia) sul protrarsi dell'emergenza COVID-19 in Italia e all'estero.

In questi giorni più che mai precari, di instabilità che volge in schizofrenia, di ansie personali che si rivoltano in panico generale, sarebbe opportuno sì ritirarsi, ma per riporsi a sé, placare la logorrea. Non è saggio, né bello, né utile riparare in un logos che alimenta lo sfogo di sé stesso. Per questo, senza tante altre troppe superflue, o peggio, nocive parole, vorrei condividere il mio invito a un ritiro sereno dalla psicosi da coronavirus. E, come si suole dire, facendo di necessità virtù, suggerirei di non urlare prematuramente all’irreparabile, non fare riverberare inquietudini sterili, becere, non esplodere in uno sbigottimento vuoto. Pertanto, in un mondo di “disagi” ben più vasti e complessi, facciamo sì, noi che non siamo le vittime del mondo, di essere degni di questa porzione di spazio e di tempo, e di trovare, dunque, il nostro “agio” interiore, per una possibilità di rilancio. Per questo, il mio slancio parte così, con la condivisione di queste parole tratte da Le confessioni di un italiano di Ippolito Nievo (scritto negli anni caldi 1857-58, poco prima dell’Unità di Italia e edito postumo nel 1867), parole di un ottuagenario…

«Al limitare della tomba, già omai solo nel mondo, abbandonato cosí dagli amici che dai nemici, senza timori e senza speranze che non siano eterne, libero per l’età da quelle passioni che sovente pur troppo deviarono dal retto sentiero i miei giudizi, e dalle caduche lusinghe della mia non temeraria ambizione, un solo frutto raccolsi della mia vita, la pace dell’animo. In questa vivo contento, in questa mi affido; questa io addito ai miei fratelli piú giovani come il piú invidiabile tesoro, e l’unico scudo per difendersi contro gli adescamenti dei falsi amici, le frodi dei vili e le soperchierie dei potenti. Un’altra asseveranza deggio io fare, alla quale la voce d’un ottuagenario sarà forse per dare alcuna autorità; e questa è, che la vita fu da me sperimentata un bene; ove l’umiltà ci consenta di considerare noi stessi come artefici infinitesimali della vita mondiale, e la rettitudine dell’animo ci avvezzi a riputare il bene di molti altri superiore di gran lunga al bene di noi soli. La mia esistenza temporale, come uomo, tocca omai al suo termine; contento del bene che operai, e sicuro di aver riparato per quanto stette in me al male commesso, non ho altra speranza ed altra fede senonché essa sbocchi e si confonda oggimai nel gran mare dell’essere. La pace di cui godo ora, è come quel golfo misterioso in fondo al quale l’ardito navigatore trova un passaggio per l’oceano infinitamente calmo dell’eternità. Ma il pensiero, prima di tuffarsi in quel tempo che non avrà piú differenza di tempi, si slancia ancora una volta nel futuro degli uomini; e ad essi lega fidente le proprie colpe da espiare, le proprie speranze da raccogliere, i propri voti da compiere».

Francesco Ottonello

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Florilegio Invernale

In questo articolo si tenta di assemblare un brogliaccio di note e appunti o, per meglio dire, un abbozzo d’un florilegio invernale che tenga conto di tre recenti uscite Marcos Y Marcos, per la collana Le ali. Nella consueta scrutatio al lumino – si perdoni il termine mutuato dall’esegesi biblica – dei libri, precedente la stesura dell’articolo, è come se avessi ravvisato in loro una terra comune, senza promesse, forse gravida d’esilii e pellegrinaggi. Entrano in una geometria serrata, tracciata dall’occhio che disserra e analizza, con il cesello unisce, per costituire, tra luminescenze e oblii, una costellazione di lingua e senso legata alla perdita. Proprio l’apertura del Satyricon di Petronio è contrassegnata da uno stelo ferito, da un corpo marchiato: “haec vulnera pro libertate pubblica excepi, hunc oculos pro vobis impendi”. “Queste mie ferite le ho subite per la libertà della repubblica, questo mio occhio l’ho perduto per voi”.

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