Patrizia Valduga | L’amore è osceno per esibizione, anche quando lo si copre di buio

In questa intervista a cura di Silvia Righi, la poetessa Patrizia Valduga presenta il suo ultimo testo "Belluno - andantino e grande fuga" pubblicato per Einaudi dopo un silenzio lungo sette anni. "Non so se queste quartine sono molto diverse dagli altri miei versi, ma so che non ho mai provato tanto piacere, non mi sono mai divertita tanto… Per usare le parole di Leopardi: ho avuto «l’animo in entusiasmo» per 10 giorni filati: una felicità nella disperazione, un’eccitazione nella calma… Mai stata così bene. Poi sono tornata normale". 

Pochi poeti sanno addensare negli stessi versi l’(auto)erotismo e la morte, il sarcasmo più feroce e la malinconia pura, creando un sé-personaggio in grado tanto di metterli a nudo quanto di nasconderli allo sguardo del lettore. Patrizia Valduga appartiene a questa schiera, la sua poesia è confessione in quartine di settenari ed endecasillabi. Come poetessa-traduttrice ha sempre avuto l’abilità di rivelarsi anche tramite le voci degli altri – in particolare quelle di Giovanni Raboni, Carlo Porta, Giovanni Prati, W. B. Yeats, John Donne, per costruire un elenco parzialissimo – e di assemblare il nucleo rovente della sua poesia grazie a un lavoro di intertestualità che accoglie gli echi della tradizione canonica e minore.

E questo ultimo libro, Belluno. Andantino e grande fuga (Einaudi – Fuori collana, 2019), non è realmente comprensibile se non si ha coscienza delle parole che sono state scritte prima: Patrizia Valduga rimescola i suoi archetipi, come carte su un tavolo da gioco, e firma un poemetto sul senso della perdita, dove la luna (rigorosamente impoetica!) accompagna l’io narrante in un viaggio intimo nei luoghi di Belluno. Tra fantasmi, critici letterari incompetenti e una lettera al sindaco Beppe Sala.


Nel saggio-epilogo che conclude il libro “Poesie erotiche, confessioni di una ladra di versi”(sarebbe sbagliato vedere in questo titolo un richiamo alle “Confessioni” di Sant’Agostino, autore a te caro?), scrivi che «più si conosce la poesia e più si trovano corrispondenze, coincidenze, echi e calchi; […] e la storia della poesia non è che la storia di queste ricorrenze» e dici di appartenere alla categoria degli «ectoparassiti», coloro che prelevano versi da altri poeti con rispetto, senza manomettere il testo. L’originalità in poesia, quindi, è solo un’illusione? Quali sono i poeti, italiani e stranieri, ai quali hai ‘rubato’ e che hai reso echi della tua poesia?

Alla prima domanda ti rispondo sì, sarebbe sbagliato: la mia conoscenza di Sant’Agostino è di seconda mano, è tutta nelle citazioni che ho trovato in Daniello Bartoli, Giacomo Lubrano, Paolo Segneri… E poi ci sono tante di quelle confessioni… Rousseau, Nievo, Musset, De Quincey… Se dicessi di essermi ispirata a Sant’Agostino mi sentirei presuntuosa. L’originalità… Mah… Ci sono grandi poeti che non sono per niente «originali», voglio dire che non hanno né forme nuove né temi nuovi. Forse l’originalità è fare del nuovo con il vecchio, è non assomigliare a nessun altro, e allora tutti i grandi sono «originali»… I poeti a cui ho rubato sono talmente tanti che faccio prima a dire a chi ho rubato di più: D’Annunzio, Pascoli e Raboni. 

Una curiosità: è vero che possiedi degli zibaldoni e anche una collezione di grandi poeti che leggono le loro poesie?

Vero. Ho sempre ricopiato i versi, le frasi, le parole che mi piacevano. Ma lo faccio sempre meno: vent’anni fa riempivo due quaderni all’anno, ormai ci metto dieci anni a riempierne uno. Nella mia collezione ci sono voci quasi introvabili: Holan, ad esempio, o Berryman. Ho anche una cassetta di poeti russi, ma non so più chi sono… Non ho scritto i nomi… Devo ricordarmi di chiederli a Attilio Steffanoni, l’artista amico di Raboni che mi ha prestato il 33 giri. Devo ricordarmene prima che muoia, lui o io… Sai che ho anche Baldacci che legge Giovanni Prati, Giovan Battista Strozzi e Chiara Matraini? Un unicum!

La critica sottolinea spesso la coesistenza di Eros e Thanatos all’interno della tua opera, io, tuttavia, preferisco chiederti di un altro binomio tematico, altrettanto fondamentale dal mio punto di vista, che tu stessa hai citato nell’autocommento a una tua poesia apparso su Nuovi Argomenti, cioè «osceno e sacro». Che significato ha per te la parola osceno? E cosa si può trovare di sacro nell’oscenità?

Domanda difficile! «Osceno e sacro l’amore delibera / stessa sede per sé e per gli escrementi». A parte l’«osceno e sacro», qui è tutto di Yeats: «but Love has pitched his mansion in / the place of excrement»… Proprio in quell’autocommento ho cercato di rispondere, cercando aiuto nei versi di Raboni, nell’uso che ha fatto della parola «osceno». E sono arrivata a questa conclusione provvisoria: l’amore diventa osceno per esibizione, quando ci si dimentica che è privato come una confessione, che non si può – con una parola oggi abusatissima – condividere; ma diventa osceno anche quando lo si vuole nascondere, coprire di buio, perché ci si dimentica che è naturale come gli escrementi. E poi è sacro perché ha bisogno di un altro essere umano, e ogni essere umano è sacro. Ma è tutto molto, molto più complicato di così…

Nella quarta di copertina di Poesie erotiche si legge una tua, a mio parere bellissima, dichiarazione sulla natura della poesia: “la poesia è come l’amore, è nostalgia d’invisibile: entrambi si prefiggono un po’ di perdita di coscienza, un qualche smantellamento di quell’equilibrio infelice che è la nostra identità. Hanno entrambi una funzione erogena e quindi ansiolitica”. Questa definizione di poesia è ancora valida per te o credi di averne trovata una migliore?

Mah. Dire che l’amore ha una funzione erogena mi sembra una scemenza o un’ovvietà o, meglio, una tautologia. Ma che ce l’abbia la poesia, sì, ne sono ancora convinta. Ci sono tantissimi versi che non parlano di erotismo, e che sono molto erotici. Vuoi un esempio? «Alla sabbia del tempo urna la mano / era, clessidra il cor mio palpitante, / l’ombra crescente d’ogni stelo vano / quasi ombra d’ago in tacito quadrante». È il D’Annunzio di Alcyone.

 Nel libro hai incluso anche due monologhi, le riscritture dell’Erodiade di Mallarmé e della Fedra di Racine (questa, peraltro, dedicata a Franca Nuti che ha interpretato anche Donna di dolori nell’allestimento di Luca Ronconi). Come mai hai scelto di dare, o meglio di ridare, voce proprio a questi due personaggi femminili?

No, no, io non ci pensavo per niente. Sono lavori che ho fatto su commissione. Li ho messi dentro per ingrossare il volume.



C’è un’opera o uno scritto che a posteriori ti sei pentita di non aver inserito in Poesie erotiche?

C’è una recensione di Raboni alle Cento quartine che è stata pubblicata nel 2005: l’aveva scritta solo per me, privatamente. Una mattina gli ho detto: «E, perché tu vivi con me, io non posso avere una recensione tua, una recensione dell’unica persona di cui mi importa il giudizio? Ti sembra giusto? Fa’ una recensione solo per me, privata, te ne prego!». E me l’ha fatta, bellissima: è uscita in La poesia che si fa. Avrei potuto usarla come introduzione, e molti non avrebbero avuto il coraggio di scrivere quello che hanno scritto.

A distanza di sette anni dalla pubblicazione del Libro delle Laudi (2012) è uscito, sempre per Einaudi, Belluno. Andantino e grande fuga. Come mai pubblicarlo nel Fuori Collana e non nella tradizionale collana di poesia? È un libro che per te rappresenta una distanza significativa rispetto alla tua precedente produzione?

È andata così: l’anno scorso era uscita a gennaio la traduzione di Porta, a settembre sarebbero uscite le Poesie erotiche. E cosa mi capita? Che in agosto a Belluno mi vengono fuori di getto 100 quartine… Non potevo proporle a Einaudi: avrei dovuto aspettare un bel po’. Allora ho pensato a un piccolo editore, con una foto in copertina per far colpo… Mauro Bersani era d’accordo, ma ha voluto leggerle, gli sono piaciute e le ha pubblicate fuori collana per poter mettere la foto in copertina. Gliene sono molto, molto grata: è una delle poche persone che stimo nel mondo dell’editoria.

Non so se queste quartine sono molto diverse dagli altri miei versi, ma so che non ho mai provato tanto piacere, non mi sono mai divertita tanto… Per usare le parole di Leopardi: ho avuto «l’animo in entusiasmo» per 10 giorni filati: una felicità nella disperazione, un’eccitazione nella calma… Mai stata così bene. Poi sono tornata normale. 

Nelle ultime quartine del libro ti appelli al sindaco Beppe Sala e al presidente della Repubblica Sergio Mattarella per una questione legata strettamente a Giovanni Raboni, addirittura nelle note hai inserito la lettera in cui tu e molti amici di Raboni rivolgete al sindaco una precisa richiesta. 

Sono 4 anni che penso a quel progetto. Il 20 maggio del 2015, passando davanti al Lazzaretto, verso sera, l’ho visto di colpo sotto un’altra luce: non più come il luogo simbolo della malattia, del dolore e dell’ingiustizia, ma come un centro vivo, vivissimo di benessere e di gioia, dedicato alla memoria di Raboni, con una stanza per l’archivio, una foresteria per gli studenti, un bar per incontri, presentazioni, dibattiti… Da allora lotto per questo sogno, e lotterò finché avrò vita. Milano è una grande città perché ha avuto delle grandi persone che l’hanno fatta grande; lotterò anche perché si prenda più a cuore la memoria di chi l’ha fatta grande.

Mi ha colpita, nel libro, l’uso che fai dei nomi propri: Giovanni Raboni, ad esempio, prende le sembianze del Johannes di Dreyer e del Don Giovanni di Mozart-Da Ponte. Perché questo gioco di specchi per descrivere un’assenza e come mai hai scelto proprio questi Giovanni?

Raboni amava moltissimo il Don Giovanni: il suo primo libro s’intitola Il catalogo è questo. E amava moltissimo Dreyer…Ah, devi rileggere quella poesia di Raboni che si intitola Le nozze. Senti questi versi: «Johannes fuit hic. Non / nel suo sguardo d’albino, / nella mano di cera che tocca la tua mano» e poi «In nessun luogo, mai, tanti Giovanni…».  Sono versi «ambientati» in un quadro famoso, i Coniugi Arnolfini (Giovanni lui e Giovanna lei) di Jan (Giovanni) van Eyck. Ha scritto che pensava da tanto tempo a quel quadro, e che quella poesia è nata dopo avermi conosciuto, perché gli ricordavo Giovanna. E a Belluno ci è venuto per me: Johannes fuit hic! Ma tutto questo mi viene in mente adesso, me lo fai venire in mente tu, e ti ringrazio ex imo corde. Mi rendo conto soltanto adesso che Giovanni è ancora più presente di quanto pensassi, e dovrei dire: Johannes est hic. 

“Sono a Belluno, Padova e Milano / i tre morti che mi tengono in vita”: in Belluno s’intesse un dialogo importante tra i vivi e i morti. Però la tua riflessione sulla risposta dell’umano di fronte alla morte e su uno stato di vita-non vita si può rintracciare in tutta la tua produzione, penso a Requiem, a Donna di dolori, a Corsia degli incurabili, solo per citare alcuni titoli. Si potrebbe dire che nella tua poesia vita e morte non siano concepite come separate ma interferiscano continuamente l’una con l’altra?

Hai ragione. Ho fatto parlare una morta sotterrata, poi una malata terminale… Ho rubato a Vladímir Holan questi versi: «Io so che il vivo è soltanto un errore / commesso nel censimento dei morti». Adesso che la morte si fa per me sempre più reale, quella «comunione dei vivi e dei morti» tanto cara a Raboni la sto facendo sempre più mia, e non voglio fare più tanta distinzione fra vivi e morti.

A quali poeti diresti di aver “rubato” per scrivere Belluno

A Belluno non avevo né «zibaldoni» né rimari. Potrei dire che ho rubato «a memoria». Da Ponte arrivava quando voleva: sentivo le sue parole forse come gli schizofrenici sentono le voci. Ma Da Ponte è come in superficie; in profondità c’è Raboni. La piazza di Belluno è citata 7 volte, e tra le ultime poesie che Raboni ha scritto ce n’è una intitolata “La piazza”: «Mi piace questa piazza. Più è deserta e più mi piace. Posso popolarla / di chi voglio, incontrarci, camminando, gli altrimenti introvabili». È la piazza di Belluno, è proprio lei. Avrei dovuto metterla in nota. Me ne sono dimenticata. E deve esserci una ragione… Nella prima parte la «popola» di suo padre, che siede fumando «a un tavolino del caffè», di sua madre che aspetta l’autobus di fronte al Teatro Comunale e «guarda i manifesti della stagione di prosa», di suo fratello che passa in macchina e gli «fa segno con la mano». Ma poi, dopo quelle sue tre «care anime», nella seconda parte fa comparire me a sedici anni: «Oppure ecco di colpo le tue gambe / meravigliose sui primi tacchi alti / della tua adolescenza». Ecco forse perché l’ho dimenticata: l’ho dimenticata per pudore. Ma non c’è solo la piazza. «O care, care anime, / papà, mamma, Giovanni!» e «O care, care anime, / no, non con voi, perdono!» non ti fanno pensare a «No, perdono, care / anime, perdono» di “Ogni terzo pensiero” o «Non bisogna, anime care, lamentarsi…» di “A tanto caro sangue” o «Ah stiamo qui, viviamo, / papà, mamma! Dove vivi vi amo» di “Quare tristis”? E quel verso sulla notte chiara, «la porterò con me a Porta Venezia», non ti fa pensare a «Porta Venezia è bella come un porto» di “Sull’acqua”?

In questo pometto c’è un’ironia davvero affilata che non risparmia né politici né autori né tantomeno critici letterari. Qual è, da questo punto di vista, la quartina migliore che pensi di essere riuscita a scrivere?

Quella che mi ha dato più piacere: «Non sono dilettanti allo sbaraglio: / ogni dilettantismo ora è in trionfo. / No, non con uno schianto, con un raglio / finirà il mondo… Oppure con un ronfo».

Oltre a Belluno, di recente è uscita la tua traduzione delle poesie di Carlo Porta (Einaudi, 2018) e anche il saggio Per sguardi e per parole (Il Mulino, 2018). Che cosa dobbiamo aspettarci in futuro da Patrizia Valduga?

Niente, proprio più niente. Mi vengono in mente le parole di Luigi Baldacci a proposito di un narratore. Ha detto testualmente: «Scaricò 4-5 libri, poi si è afflosciato». Ecco, è esattamente quello che ho fatto anch’io: mi sono afflosciata, ho finito, sono finita… Non aspettarti più niente.

A cura di Silvia Righi


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