Gaia Giovagnoli | inediti da “Babajaga” in Babajaga e altri mostri

Davide Paone intervista la poetessa Gaia Giovagnoli (Rimini, 1991) per presentare alcuni suoi testi inediti dal poemetto Babajaga, contenuto in "Babajaga e altri mostri". Nell'articolo potete ascoltare la voce dell'autrice, che ha letto per noi le poesie qui proposte.

La tua seconda raccolta “Babajaga e altri mostri” (ancora inedita) da cui sono estratti i testi che proponiamo – è abitata da una selva di creature che continuano il lavoro iniziato in Teratophobia. Sono personaggi psicologizzati, ma mai monovalenti: la dicotomia bene-male si confonde in un’introspezione della vicenda narrata, la stessa Babajaga vive quasi una Bildungs (un processo di maturazione personale) nel corso del poemetto, che la porta da una connotazione prettamente negativa a una positiva e pacificata, direi rinnovata poeticamente. Tutti, infine, sono tratti dalla mitologia o dall’immaginario popolare. Qual è il ruolo del personaggio nella tua poesia e quale il valore della mitologia nel lavoro che stai portando avanti?

I personaggi sono i fonemi della narrazione: senza di loro mi sembra che la storia resti ferma su se stessa, in potenza, e di annodarla. Bloccando una storia si può arrivare ad alte vette di contemplazione, e non è che sia sbagliato farlo. In Babajaga però volevo davvero raccontare una storia: per questo ha avuto bisogno di personaggi che rifacessero vivo il mito, che gli dessero una carne su cui muoversi. Il mito e la fiaba permettono di tenere attivi in contemporanea più piani di significato: in questo caso un piano di realtà quotidiana e uno mitico-fiabesco. Babajaga è una strega: vive in una casa che corre su due zampe di gallina, ha delle bestie al suo comando, betulle e cani. Babajaga è anche una donna: vive in un appartamento, ci arriva con un ascensore (quando lo chiama sbaglia spesso il piano, gli sembra che la casa cambi indirizzo), ha piante da annaffiare, stanze vuote. Il personaggio Babajaga ha quindi due forme che si incontrano e coesistono. Entrambe si affacciano su un abbandono: come nella classica storia con Vassilissa, che fa da serva alla strega e poi riesce a scappare, anche qui qualcuno è entrato nella casa-gallina e l’ha vissuta, ne ha addomesticato la bestialità e, come nella classica storia con Vassilissa, alla fine ha deciso di scappare. Diverse versioni della fiaba mettono in scena questa fuga e l’inseguimento della mostruosa Babajaga. Io ci ho visto anche altro: la disperazione di una strega che ama come può, ma con tutta se stessa – bestiale com’è – e un abbandono crudele, irrimediabile. Per questo in Babajaga ho usato il mito: per guardare una donna e vedere la strega, per tenere in filigrana una narrazione che è già assimilata (perché popolare) e spostarla ogni tanto per vederne il rovescio, la quotidianità. Una scorciatoia semantica. Cos’è Babajaga; chi sarebbe. 

Nell’elaborazione ritmica della tua poesia c’è una tensione alla tradizione – io ci ho visto molto di Pascoli e del primo Palazzeschi, per esempio. Che rapporto hai con la tradizione metrico-ritmica del Novecento? E con quella precedente?

In Babajaga è forte soprattutto il modello pascoliano. Pascoli è stato essenziale – e me ne rendo conto del tutto solo a posteriori – sia per le soluzioni ritmiche sia per una certa tensione al folklore e al grottesco (non a caso l’esergo del libro è tratto dalla sua poesia sulla Befana). Se questo è vero, non posso però parlare di un vero e proprio rapporto consapevole con la tradizione, sia novecentesca che precedente. Avendo studiato greco e latino, parte della cadenza della prosa ritmica classica mi è diventata naturale (l’esametro forse tra tutte), ma non faccio un lavoro coscientemente metrico. Il verso si è mosso verso un altro fuoco, ed è il motivo per cui non posso dirmi del tutto in continuità con una tradizione. Nel verso di Babajaga è il ritmo il concetto cardine: il ritmo come schema prevedibile e quasi incantatorio, al limite dello sgradevole, una traccia acustica in movimento. La suggestione maggiore ha a che fare con le preghiere, le filastrocche, le nenie. Grazie all’assuefazione che dà l’ascolto e la lettura della cantilena ho voluto giocare con le cesure, con le imperfezioni e le sbavature, con il cambio di tono, sperimentando la conseguenza perturbante che ha la stonatura di una cadenza regolare: quel senso di vertigine, di invasione o di sacrilegio. 

Babajaga è una favola di elaborazione del lutto: la dimensione fiabesca consente lo straniamento del dolore – dunque permette di superarlo nella ricostruzione poetica; il percorso avviene attraverso una sorta di labirinto. Il mondo fantasmatico creato intorno a Babajaga non cade mai nella tristezza della mancanza e della morte, declinandosi piuttosto come la quête di una pacificazione che non giunge ma è pur sempre esperienza vitale. Per te la poesia è una pulsione vitale che deve attraversare l’esperienza della morte oppure è uno strumento comunicativo dell’esperienza (tertium datur ovviamente)?

Tramite la poesia si costruisce l’esperienza – non solo della morte: prima di una costruzione narrativa ciò che avviene, il fatto in sé, non è messo in relazione a nulla. Il fatto spoglio, senza discorsi addosso, è molto magmatico e non ha davvero tratti o implicazioni. Resta un buco nero insondabile. Dal momento in cui viene incluso in una narrazione, questa lo metterà in dialettica con altro. Il fatto inizia così a formarsi un profilo, inizia a esistere. La poesia fa questo, e lo fa soprattutto con l’esperienza della morte. Solo tramite questo particolare tipo di lavoro narrativo si è in grado non di superarla, non di lavarla via, ma di rendere la morte un qualcosa di visibile, di riconoscibile. Ci si può dialogare. Interessante per far capire cosa intendo è l’esperienza di Renato Rosaldo, un antropologo che ha studiato negli anni ’80 nelle Filippine una popolazione di cacciatori di teste, gli Ilongot. È il 1981 e insieme alla moglie Michelle Rosaldo, pure lei antropologa, è arrivato nel villaggio di Mungayang dove stanzieranno il loro campo di ricerca nei mesi a venire. Ma mentre lei è in perlustrazione, cade da un dirupo e perde la vita. Rosaldo parlerà di questa morte solo trent’anni dopo, nel 2013, in un libro di poesie: “The Day of Shelley’s Death”. Dopo più di trent’anni era maturo il tempo non per guarire dalla morte dalla moglie, ma per renderla evento effettivo. La morte di Shelley è un fatto che è deflagrato trascinando con sé tutti coloro che vi hanno assistito: lui, i figli piccoli, una missionaria, un soldato, un taxista. La morte di Shelley diventa osservabile solo nel testo che Rosaldo elabora: prima era un baratro zitto, non era possibile nominarlo, perché un nome non ce l’aveva ancora. Con la scrittura Rosaldo battezza quella voragine, ce lo fa osservare, in certo senso la attraversa. Con Babajaga la scrittura della morte diventa anche incanto della morte: nel senso che con il ritmo si cerca l’incantamento di questo tema incandescente, che scalcia in tutte le direzioni. Nella vita non sembra che possa essere avvicinato, o domato. Nel testo sì. Il testo ci prova. Le formule magico-rituali e le filastrocche cantano i mostri in modi concilianti, ripetitivi e prevedibili. Così facendo scavano nel gorgo ma lo legano, lo rendono meno spaventoso e lo controllano. In Babajaga ho voluto giocare con questa funzione incantatoria, che ha radici profonde e che molto ha a che fare con le nenie delle prefiche, le cadenze dei balli popolari, le ninnananne. Tutte mirano a un punto: fermare un buco nero, l’unico che l’uomo vive nella sua totalità schiacciante e senza appello, renderlo vivo e visibile ma stregato dal canto. Provarci.

La narrazione di Babajaga tende verso una ricerca di ciò che non è mai presente nel discorso: trovi giusto definire la tua poesia (o la poesia in generale) come la ricerca di una parte del sé perennemente assente?

Babajaga esiste e si muove attorno a un’assenza: un qualcuno che se ne è andato e non parla, ma crea conseguenze sulla donna-strega e nel mondo che la circonda. Anche le persone vengono ammantate di quell’assenza e le danno una voce, tutto si fa medium di un morto. Io credo che ciò che fa da motore alla poesia non sia tanto quel qualcosa di sé che non c’è, ma la crudeltà di qualcosa che è fuori di noi e che ci sfugge. Qualcuno che apre la porta e non torna, e non tornerà. È fuori di sé il problema: tutto ciò su cui non abbiamo potere; l’idea di essere nella vita ma esserci solo come figura, mentre succede qualcosa di grosso o irrimediabile appena un po’ più in là di noi, appena un po’ oltre. La scrittura tende a dire sempre un po’ di più di quell’oltre, si sporge dalla finestra. 

La forte componente narrativa di queste poesie, la stessa forma del poemetto e la presenza di immagini attinte dalla fiaba e dal folklore, fanno pensare che avresti potuto scegliere anche la prosa per raccontare i tuoi personaggi e le tue storie. Perché invece hai affidato la tua voce al verso?

La poesia mi sembrava più adatta a creare un effetto grottesco e perturbante. Le formule magiche e i canti funebri sono fatti di versi, e Babajaga voleva avere la stessa anima elegiaca e rituale. La prosa avrebbe richiesto una costruzione della frase più distesa (a meno di non creare una prosa molto densa, portata al suo limite) e avevo paura disperdesse quello che per me era importante tanto quanto il contenuto della storia: la forma cadenzata, il canto di rabbia.

Intervista a cura di Davide Paone

Inediti da “Babajaga”, in Babajaga e altri mostri

 

La casa gallina

Segui il solco delle unghie
vedi il raschio delle zampe
Senza becco e senza ali
raspa a terra e corre in cerchio
La casa della strega
sta su zampe di gallina:
ha le gambe di una bestia
che dà vita rannicchiata
– degenere casa
coi piedi di crollo
che ha oscillato nei passi
e non si è fatta ferma
che ha schiuso chi è entrato
con il caldo di piuma
casa di muri sudati
casa di muri in corsa
casa guscio che matura
chi entra e non ritorna

*

Spinge il piano sette
in ascensore;
ritira il polso;
si butta poi sul quadro
di controllo;
alt e un colpo;
un volo del fegato
non pronto;
schiaccia il terzo
che è quello giusto
Da quando ha avuto
due numeri a mente
si scorda le soste
Insegue una casa
che scappa tra i piani
e le sballa la conta:
se gratta per rientrare
sbaglia porta

*

I cani

Babajaga riposa
sul collo dei cani
I suoi lupi sono mostri
con la gola a dirupo
con il fango che fa guscio
di cancrena
– Non toglievano la mano
sulla testa
i palmi che pestavano di gioia
alla carezza
la schiena tutta scatti di coda
Al ritorno sbigottivano
e urinavano a terra

*

Dice: quella si è ammalata
e non ricresce
– le annaffiava le piante
quando lei non c’era:
[lo ha spiegato così
all’amica
in un pomeriggio di caffè]
Dice: ma si infittisce
quella magra;
e l’altra laggiù
ha rifiorito
L’amica asseconda
– serve un po’ la mano
o ti muoiono tutte
La veranda sbatte
per la corrente;
il vaso grande si torce
per il colpo di vento;
cade un po’ di terra
sul pavimento

Gaia Giovagnoli

Gaia Giovagnoli

Gaia Giovagnoli (Rimini, 1992) è laureata in Lettere Moderne e in Antropologia Culturale presso l’Alma Mater Studiorum di Bologna. Tra il 2015 e il 2018 è stata ospite di festival letterari nazionali come “Parco Poesia” e “Poié”; è stata menzionata al Premio Violani Landi nel 2015 e risultata finalista nel 2018; nel 2017 è stata finalista al “Certamen Isotteo” di Rimini ed ha vinto il “Certamen” organizzato dal Centro di poesia contemporanea dell’Università di Bologna. Suoi testi e interventi sono apparsi su diversi blog, tra cui “Interno Poesia”, “Poetarum Silva”, “Poesia 2.0”, “Midnight Magazine”, “Centro di Ricerca PENS: Poesia Contemporanea e Nuove Scritture”, “Mille Splendidi Libri” e “Atelier”. Nel 2018 ha pubblicato la sua prima raccolta, Teratophobia , per ‘Round Midnight edizioni.

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