In dialogo con Fabrizio dall'Aglio | Fino a quando esisterà la poesia

La Passigli Editori nasce a Firenze nel 1981 per iniziativa di Stefano Passigli, discendente di David Passigli che era stato, già nell'Ottocento, tipografo ed editore. In oltre trent’anni di attività ha pubblicato circa un migliaio di titoli, caratterizzandosi in primo luogo per le proposte nel campo della narrativa e della poesia. Con Fabrizio Dall'Aglio, curatore delle collane di poesia, abbiamo deciso di approfondire l’offerta poetica di Passigli, tra i capisaldi del Novecento che ospita e le prospettive coltivate sull’evoluzione di un «linguaggio artistico» da tutelare

Come nasce la collana di poesia di Passigli? e che ruolo ha la poesia all’interno della casa editrice?

La casa editrice non è nata pubblicando poesia. La casa editrice è nata nel 1981 e quindi fino al 1989 non ha pubblicato libri di poesia. Nell’ ’89 dopo un incontro tra Mario Luzi e Stefano Passigli, uniti da una lunga stima reciproca, si è pensato di iniziare questa collana di poesia. Quindi sono ormai trent’anni che esiste e che resiste, un buon record per una collana del genere. Era nata un po’ dall’incontro di esigenze non completamente identiche: nel senso che Luzi, che la dirigeva gratuitamente, senza nessun tornaconto personale, voleva pubblicare soprattutto gli autori italiani secondo lui meritevoli ma che non avevano trovato ancora uno sbocco editoriale degno di questo nome – magari anche autori stranieri, ma soprattutto gli italiani. Del resto, era circondato, direi assediato, da proposte di vari scrittori che lo andavano a trovare o gli spedivano le loro cose: il suo studio in via Bellariva era pieno, pieno zeppo di dattiloscritti. A questo proposito, mi piace sempre ricordare un episodio che mi raccontava Valerio Nardoni, il principale nostro traduttore di poesia dallo spagnolo, che negli ultimi anni di vita di Luzi era diventato un po’ il suo assistente: stavano tirando su, sistemando questi dattiloscritti e a un certo punto Luzi ne ha preso uno in mano, lo ha guardato e ha detto a Valerio: «Mah, non capisco perché vadano a capo». È rimasta un po’ una frase emblematica tra noi. 

Dicevo, Luzi mirava soprattutto a questo. Stefano Passigli invece, vedendo che ormai molta della grande poesia del Novecento straniero non era più in commercio, perché le grandi collane – tipo quelle di Lerici e di Nuova Accademia, o la “Fenice” di Guanda – non si trovavano praticamente più, se non in librerie di seconda mano, era a questo grande patrimonio poetico che voleva principalmente attingere. Va considerato che allora non c’era internet: oggi i libri vivono una vita ulteriore che prima non vivevano, o almeno era molto più nascosta. Oggi trovare un libro vecchio è spesso facilissimo, all’epoca bisognava armarsi di cuore e pazienza, e andarselo a cercare nelle librerie antiquarie.

Oggi è facile trovare i testi di un autore online per farsene un’idea, ma trovare un’edizione di un certo tipo non è così semplice. 

A volte è vero. Però se tu vai su siti tipo Abebooks, eBay ecc., trovi un mare di libri. Prima era impossibile questo. Io passavo le giornate a cercare i libri che mi interessavano tra un remainders e una libreria antiquaria. Lo so bene. Adesso non vado più nelle librerie antiquarie a cercare i libri, perché basta fare una ricerca su internet, si va a colpo sicuro, per così dire, e si ordina. È cambiato molto da allora. Allora un libro che era uscito dieci anni prima e non era più in commercio era come se fosse sparito; adesso un libro che ha dieci anni magari non lo trovi subito, ma se insisti con le ricerche su internet hai moltissime possibilità.

A questo punto mi piacerebbe sottoporti un pezzo da i Detective selvaggi di Bolaño, che parla proprio di lettori, critica e fortuna e sfortuna delle edizioni: “Per un po’ la Critica accompagna l’Opera, poi la Critica svanisce e sono i Lettori ad accompagnarla. Il viaggio può essere lungo o corto. Poi i Lettori muoiono uno per uno e l’Opera va avanti da sola, sebbene un’altra Critica e altri Lettori a poco a poco comincino ad accompagnarla sulla sua rotta. Poi la Critica muore di nuovo e i Lettori muoiono di nuovo e su questa pista di ossa l’Opera continua il suo viaggio verso la solitudine. Avvicinarsi a essa, navigare nella sua scia è segno inequivocabile di morte certa, ma un’altra Critica e altri Lettori le si avvicinano implacabili e instancabili e il tempo e la velocità li divorano. Alla fine l’Opera viaggia irrimediabilmente sola nell’Immensità. E un giorno l’Opera muore, come muoiono tutte le cose, come si estingueranno il sole e la Terra, e il Sistema Solare e la Galassia e la più recondita memoria degli uomini. Tutto quel che inizia come commedia finisce in tragedia”.

È giusto, ma il problema è ancora peggio oggi, secondo me, perché non c’è la critica che accompagna l’opera. Non so dire se è un periodo che passerà, ecc. ecc. Fatto sta che, contrariamente alle apparenze, per cui sembrerebbe che nessuno ormai è solo, visto che è costantemente collegato ad altri mattina e sera, in realtà in questo mare magno è come se affondasse e affogasse un po’ tutto. Forse anche per il fatto che viene meno un principio di autorità, o meglio di autorevolezza, in tutte le cose: un principio per cui pare che nessuno sia autorizzato a saperne di più di un altro, non fosse che per il fatto che ha vissuto di più, o che ha comunque letto di più (non dico che sia più intelligente, che ormai parrebbe un peccato di lesa maestà verso gli idioti); insomma, c’è una tale orizzontalità che equipara i giudizi a un computo statistico. Probabilmente, se io pubblico un libro di poesia e mi viene fatta una recensione sul Corriere della Sera, mettiamo da Roberto Galaverni, per dire, su La Lettura, è chiaro che a me fa molto piacere, ma è probabile che influisca meno sulla vendita del libro che non un blog seguito da tantissime persone, in cui un tale che ha letto sì e no cinque libri in tutta la sua vita e che non è in grado di articolare un vero giudizio estetico, raccomanda questo libro. 

Vero. Però quello che resta adesso, secondo me, è la passione nei confronti della poesia. 

Purtroppo la passione non è un metro di giudizio, come non lo è in politica d’altra parte. Il discorso è che… parto un po’ da lontano: Whitman diceva, mi pare, ma anche Paul Valéry, sostenevano che per esserci grande poesia ci vogliono grandi lettori di poesia. Ecco, il problema è quello, nel senso che oggi temo proprio non ci siano grandi lettori di poesia: non dico di numero, non alludo alla quantità, ma alla qualità della lettura. Il problema dei quantitativi interessa gli editori, non interessa i poeti, non interessa neppure i lettori. La poesia è una cosa, un’altra gli editori. Ho sempre sostenuto che editoria e letteratura sono due rette che vanno avanti in maniera più o meno parallela, spesso può capitare che si incrocino, ma non sempre. In questo senso più generale, la crisi del gusto è la crisi della letteratura, e oggi possiamo legittimamente chiederci se esiste ancora il gusto della poesia. Del resto, la piattezza con cui vengono presi per alta poesia dei testi spesso banali di canzoni, o goffe tiritere di performer, è un altro esempio di questo aspetto. 

In una tua intervista uscita l’anno scorso per Poesia del Nostro Tempo, dici: «fino a quando esisterà una lingua esisterà anche una poesia». Come si collega questo al discorso che stiamo facendo? 

La poesia è arte della lingua: questa è la sostanza della frase. Io non temo che la poesia possa defungere. Perché? perché la lingua esiste. In generale si possono attraversare periodi in cui la poesia ha più o meno attualità, importanza, ecc., o comunque periodi in cui questa importanza viene riconosciuta o periodi in cui non viene riconosciuta. Resta il fatto che la lingua esiste, e fino a quando esiste la lingua io non ho nessun timore che la poesia possa non esistere. Devo aggiungere però che provo sempre fastidio nei confronti di quei giudizi clamorosi e perentori del tipo: senza poesia non si vive, ecc. Moltissimi vivono senza poesia, quindi si può benissimo vivere, anzi. Però, detto questo, se uno mi chiede: “La poesia ci sarà?”, io rispondo: “Sì, la poesia ci sarà perché ci sarà la lingua”. Dopo di che, se non interesserà a nessuno è un altro discorso.

Quindi ci si lamenta della mancata popolarità della poesia per non lamentarsi della scarsa popolarità che hanno i poeti, rispetto per esempio a un cantautore o a un altro personaggio pubblico?

Da un certo punto di vista potremmo dire che, in questo, i poeti hanno la coda di paglia perché gran parte della grande poesia di fine Ottocento, Mallarmé in primis, ha fatto di tutto per separare i destini della poesia da quelli della “tribù”. E adesso non vorremo rimpiangere l’attenzione di questa cosiddetta tribù? D’altra parte, le stesse persone che amano De André o Guccini – per dire due cantautori con cui io stesso mi sono formato e che continuo ad amare – queste stesse persone sembrano in genere pressoché indifferenti ai poeti, soprattutto a quelli della loro epoca. Magari non completamente indifferenti: è probabile che abbiano amori, passioni anche letterarie, ma certamente senza il rapporto viscerale che li lega ai cantautori più amati. 

Qui entrano però anche in gioco fattori diversi: in primo luogo la poesia non è spettacolo, un concerto invece lo è. Inoltre, dovremmo chiederci che cosa è una canzone e in cosa si distingue da una poesia. E la risposta è banale ma è sempre bene tenerla presente: la canzone è un testo musicato e cantato, è musica. Il testo è importante, certo, ma resta imprescindibile dalla musica che lo accompagna, direi anzi che lo esprime; e la musica, lo sappiamo, è un linguaggio molto facile: voglio dire che la ricezione della musica è molto semplice, la lettura non lo è, non lo è mai. E questo è già un primo aspetto. 

L’altro aspetto è che una canzone deve consumarsi in tre/quattro minuti, quello che dura la sua esecuzione, così che il suo stesso testo mira ad arrivare in maniera più immediata a chi ascolta. Per la poesia non è la stessa cosa, anche quando viene letta ad alta voce, in pubblico. La lettura pubblica delle poesie è sempre un’esperienza importante – anche se spesso i poeti leggono da cani – perché è l’occasione per chi le scrive di far risuonare il testo per come è stato concepito. Qualsiasi poesia degna di questo nome possiede una propria partitura interna. Diciamo, tornando alla battuta di Mario Luzi, che deve capirsi anche “perché va a capo”. I testi delle canzoni hanno ovviamente molte cose in comune con le poesie, forme di metrica, di rime ecc. Tuttavia, sono forme pensate per adattarsi a convivere con una musica. Non a caso spesso le canzoni che amiamo di più non sono quelle con i testi più belli: è l’insieme a fare la differenza. E poi c’è l’interpretazione, il canto, la voce. 

Cosa può fare un editore di poesia? Perché voi percorrete una direzione invece che un’altra?

Noi – e qui ripeto quello che diceva Luzi – non possiamo far altro che difendere una certa idea di poesia. Non è che siamo dei censori. Oltretutto la collana di poesia della Passigli non ha una sua linea precisa, come poteva esserci a volte in certe collane più militanti, lo stesso Luzi non lo voleva. Noi del resto, veniamo tutti da un’epoca, il Novecento, che è stata un’epoca anche del tutto eclettica. È chiaro che io, con i miei limiti, ho cercato di seguire nelle scelte il solco tracciato da Luzi. Del resto, la collana era, pur se di poco, precedente al mio ingresso in casa editrice; e fino alla scomparsa di Luzi non mi sono mai permesso di sindacare su nessuna delle sue scelte, ci mancherebbe. A volte ci è capitato che ci proponessero dei testi, ad esempio, più vicini alla neoavanguardia, e in questi casi la prima cosa che abbiamo sempre detto è che obiettivamente non siamo noi gli editori più adatti per quelle proposte.

Se per un editore può essere così sconfortante pubblicare poesia, perché allora lo fa?

Occorre distinguere. Ci sono poeti che per una casa editrice come la nostra non sono così da disprezzare in quanto a vendite: Neruda sopra a tutti gli altri, ma anche Rilke, Kavafis, García Lorca, Salinas, Cvetaeva… Il problema è quando si esce dai nomi più noti e soprattutto se si pubblica la poesia contemporanea, e non solo quella italiana; in questo caso, in genere, i risultati sono sconfortanti. Ciò detto, Stefano Passigli, che è il fondatore e il titolare della casa editrice, non ha mai pensato di fare editoria come forma di investimento: fa editoria perché gli piace far l’editore. Certo, la prima cosa a cui deve pensare è come sopravvivere (che non è per niente facile), perché un qualsiasi progetto editoriale ha bisogno di tempo, e deve coinvolgere anche le reti di promozione e di distribuzione, deve convincere i librai. Non si tratta solo di fare libri che ci piacciono. 

A questo si aggiunga che un editore non nasce da zero, fa quello che può. Cioè io ho amici poeti, per esempio, che stimo molto e che pubblicherei volentieri, ma che giustamente già pubblicano con altre case editrici. Questo riguarda anche gli stranieri, e non solo i poeti di oggi. Mi è capitato più di una volta, per esempio al Salone di Torino, che un lettore mi chiedesse “come mai non avete fatto il Tale o il Talaltro?”, come se fosse il frutto solo di una nostra scelta. La risposta è in genere molto più banale. Io pubblicherei volentieri le poesie di Brodskij, ma è un autore che appartiene a un altro catalogo editoriale; o anche: di Pedro Salinas abbiamo pubblicato tutte le principali raccolte tranne la più famosa, La voz a ti debida, semplicemente perché quest’ultima faceva parte già da tempo del catalogo Einaudi, e i diritti per pubblicarla in una nuova traduzione non ce li hanno concessi, nonostante le mie reiterate richieste. 

Insomma, uno si muove anche e soprattutto a seconda delle possibilità che ha di muoversi. Quanto ai poeti italiani di oggi, tentiamo di fare libri che conservino e difendano un senso “forte” della poesia, almeno da un punto di vista culturale. Lo so che è un criterio molto vago e facilmente impugnabile. Ma in fondo è l’unico che mi pare di dover riconoscere. È chiaro che c’entra anche il mio gusto, ma da questo punto di vista sono il primo, scrivendo io stesso poesia, a rendermi conto di avere dei gusti molto, e in questo caso troppo, definiti. Ritengo dunque doveroso far pubblicare autori anche molto diversi da me, che io come gusto, in fondo, non seguo né amo, ma nei quali trovo comunque qualità. 

Come si riconosce questa qualità?

Senza troppa presunzione, naturalmente, ma la qualità di un libro di poesia si riconosce abbastanza velocemente, anche leggendo poche poesie. Un libro di poesia non è come un racconto, un romanzo. Un romanzo può essere scritto malissimo ma si può sempre tentare di migliorarlo: non dico che diventerà un capolavoro, questo no, però se all’origine c’è una buona idea, qualcosa si può anche arrivare a fare. Con un libro di poesia purtroppo no. Un libro di poesia è un libro irredimibile, è quello che è, o c’è o non c’è. Poi è chiaro che se qualcuno mi manda un libro di poesia e vedo qualcosa che non mi piace, o di più debole, glielo segnalo. Gli stessi poeti hanno bisogno di un lettore esterno, e a maggior ragione se “professionale” se vogliamo dire così, e spassionato. Gli autori si lasciano avvincere sempre troppo facilmente dalle loro cose.

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Come si spiega il successo di Neruda, che occupa uno spazio anche importante all’interno della vostra offerta di poesia?

Credo che a questo concorrano fattori diversi. Noi abbiamo cominciato a pubblicare Neruda quando di lui non si trovava quasi più niente in commercio. C’era ancora, naturalmente, la vecchia edizione del Canto General curata da Dario Puccini per l’editore SugarCo; ma la gran parte degli altri titoli, comprese le poesie d’amore che costituiscono il nostro maggiore successo, erano scomparsi. Mi pare di ricordare che avevamo iniziato con le raccolte Stravagario e Cento sonetti d’amore; e all’inizio le vendite non si discostavano molto dagli altri nostri titoli più fortunati. Poi è successo un fatto del tutto esterno e cioè il grande successo del film Il postino. Direi che è stato proprio questo film a rilanciare in Italia la popolarità di Neruda, che era rimasto, certo, un poeta popolare, ma un po’ in sordina, se vogliamo, rispetto agli anni della mia adolescenza, intendo gli anni ‘70. Allora, peraltro, il Neruda che poteva attrarci maggiormente era il Neruda più impegnato, il Neruda che moriva in circostanze anche misteriose poco dopo il golpe di Pinochet in Cile. Anche allora, naturalmente, le raccolte d’amore erano tra le più vendute, ma oggi la sproporzione tra le une e le altre è molto maggiore. L’effetto del film Il postino è stato di rilanciare in pieno Neruda come uno dei poeti più amati del Novecento, e in un certo senso, in sintonia con i tempi che viviamo, lo si è rilanciato soprattutto come poeta d’amore. Così, se prendiamo gli oltre trenta titoli che abbiamo in catalogo, le raccolte che abbiamo più e più volte ristampato sono Cento sonetti d’amore, Venti poesie d’amore e una canzone disperata e I versi del Capitano, quest’ultima la raccolta scritta a Capri, con le poesie d’amore ancora “clandestine” per la compagna Matilde Urrutia, non ancora divenuta la sua terza moglie.

In pratica Neruda è diventato un poeta principalmente d’amore perché a un certo punto è stato presentato così.

In parte perché è stato presentato così, ma soprattutto perché è cambiata la società. Va anche aggiunto che in genere la poesia d’amore raggiunge un pubblico più vasto di quello dei lettori di poesia in senso stretto, e dunque questo non riguarda soltanto Neruda. Per questa ragione nella nostra collana di poesia ci sono diverse antologie di poesie d’amore, da García Lorca a Pasternak, da Kavafis a Salinas, da Marina Cvetaeva a Pessoa, ecc. 

Si può creare il successo editoriale nella poesia?

Per la verità i numeri della poesia sono talmente risicati che credo che a nessun editore verrebbe l’uzzolo di cimentarsi in un’impresa del genere. Basta entrare in una libreria per vedere quanto spazio viene dedicato ai libri di poesia. E questo riguarda tutti i poeti, anche i più importanti. E comunque l’editoria è un’attività “impura”, nel senso che per far vendere un libro devi far leva non tanto sulla qualità del libro, ma su aspetti esterni alla qualità del libro. Cioè, per fare un esempio, a uno può piacere di più o di meno Alda Merini (Alda Merini adesso è uscita col Corriere della Sera”), beh, io credo che se Alda Merini non fosse stata la persona che era, e con tutti i problemi che ha avuto, nessuno avrebbe fatto un’operazione del genere. Come non viene fatta, per esempio, per Maria Luisa Spaziani, o per Fernanda Romagnoli, una poetessa di grande talento che in pochi oggi ricordano. Del resto, è ovvio che il declino del gusto letterario fa anche sì che gli aspetti esterni acquisiscano un’importanza sempre maggiore. 

Quindi non si vendono più “quadri” ma “cornici”.

Sì, perché il quadro non interessa più. Il problema esiste; ed è quello da cui siamo partiti. Quando citavo Whitman lo citavo in questo senso anche: è chiaro che una poesia tu la puoi amare, apprezzare senza essere un intenditore di poesia, certo però devi avere un gusto e non un dis-gusto: intendendo con dis-gusto un gusto sbagliato, in qualche modo “corrotto”. Se un certo tipo di ignoranza puoi pensare di correggerla fornendo gli strumenti per correggerla, una formazione sbagliata, o meglio una de-formazione, è molto più difficile da correggere. 

Ci si può però educare a esperienze estetiche diverse. Quando a volte trovo delle poesie che non apprezzo, mi dico che forse non sono educata io a capire questo tipo di estetica. Così come anche bisogna essere educati per apprezzare certa arte contemporanea.

Resto dell’idea che l’arte deve essere anche piacere per chi ne fruisce. Se non ne trai alcun piacere, il rischio è di condannarla all’insussistenza, di toglierle la sua ragione di essere. Credo che questo piacere scaturisca sempre anche da una forma di comprensione, magari intuitiva: per amare un quartetto di Mozart non c’è bisogno di essere dei conoscitori di musica classica, non c’è bisogno di saper leggere le partiture, ecc. Certo, è probabile che il piacere venga aumentato da una più grande cognizione e comprensione, ma non è in sé condizione necessaria. Se invece si sposta tutta l’idea dell’esperienza estetica sulla comprensione, si perde moltissimo, e alla fine si perde l’intera estetica.

In che senso lo intendi?

Nel senso che accennavo prima. L’arte, in generale, deve essere motivo di piacere estetico; se non riesce a questo compito, manca qualcosa. Ci si dovrebbe chiedere: “Perché se cerco un piacere come lettore leggo Leopardi e non leggo Sanguineti?”. Perché? Non sto parlando di ordine di grandezza, c’è qualcosa che in un caso funziona e in un altro non funziona. Prendo Sanguineti come esempio di un certo tipo di ideologia letteraria, ho sempre stimato il suo talento; peccato che non abbia prodotto quanto penso avrebbe potuto, se si fosse liberato dalle ossessioni del progressismo letterario. 

Ma faccio un altro esempio: perché stasera magari quando rientro mi metto ad ascoltare un concerto di Beethoven e non un’opera di Stockhausen? Perché condannare quell’idea di piacere agli artisti del passato? Una volta era di moda dare più o meno questa risposta: «D’accordo, adesso è così, ma poi cambierà, e in futuro si ascolterà Stockhausen con quello stesso piacere. Oggi non siamo pronti, ecc. ecc.». Ma sono balle, non è così. 

Perché pubblichi libri?

Perché pubblico libri? Io li pubblico per il piacere di farli leggere ad altri, questa credo che sia la ragione principale. Del resto, mi sono sempre considerato un lettore prestato all’editoria, non è che mi sia mai interessato tanto il mondo editoriale. Insomma, è un po’ come quando si legge una cosa bella e la si vuol fare leggere a un amico. Poi però questo non basta, perché la mia è una professione, e anche se fossi io l’editore in tutto e per tutto non potrei pubblicare solo quello che piace a me. Detto questo, ancora oggi quello che ritengo per me più soddisfacente nel mio lavoro è quando riesco a far pubblicare un libro che a me piace, magari tradotto come si deve da un bravo traduttore, e il più possibile corretto e pensato per quelli che potranno essere i suoi lettori.

Questo è qualcosa che hai imparato lavorando con Luzi? Qual è stata la lezione più importante che hai imparato?

La mia ammirazione per Luzi prescindeva dal fatto che di tanto in tanto ci capitava di discutere gli autori che avremmo voluto inserire nella collana di poesia. E poi sarebbe eccessivo dire che ho lavorato insieme a lui: in realtà lo andavo a trovare, e in quelle occasioni si parlava un po’ di tutto. A Luzi l’editoria in sé e per sé non interessava nulla. E onestamente non posso dire che, per quanto riguarda il mio lavoro, io abbia imparato da lui qualcosa di particolare. Secondo me quello che ho più imparato da Luzi è quello che ho più imparato da Romano Bilenchi, Oreste Macrí, Geno Pampaloni, insomma, le persone che più frequentavo a Firenze in quei miei primi anni fiorentini. Da loro c’era tutto da imparare, e soprattutto il senso di una diversa serietà, una diversa responsabilità nei confronti della letteratura. 

Mi è già capitato di ricordare come ho incontrato Luzi per la prima volta, a casa di Romano Bilenchi, erano amici davvero fraterni. La moglie di Bilenchi, Maria Ferrara, era patita per lo “scopone” e spesso, quando andavo a trovarli, eravamo solo noi tre, mancava cioè il quarto giocatore per fare le due coppie. E una sera, del tutto inaspettato, è arrivato Luzi. È stato così che l’ho conosciuto, sfidando lui e Romano, in coppia con Maria, a una partita di scopone. Che poi, per la cronaca, è terminata 1 a 1, con Bilenchi che si è rifiutato di fare la “bella”.

Se lo scopone era solo un gioco, la letteratura non lo era. E credo che da questo punto di vista quello era un mondo che si è perso quasi del tutto. Al di là delle loro grandi differenze, e non solo di carattere (Luzi era molto più riservato e taciturno rispetto a Bilenchi), questo aspetto li accomunava; e lo stesso per Oreste Macrí, una delle persone più colte e geniali che ho mai conosciuto; o per Geno Pampaloni, che era persona di grande simpatia e umanità, ma che aveva dei modi, almeno con me e almeno in apparenza, molto diversi, molto più “professionali”, anche nel senso che, passata la mezz’ora o poco più, ti congedava come se subito dopo avesse un’altra visita. Ormai si vedevano di rado, ma erano tutti grandi amici. Una delle ultime cose che ha scritto Bilenchi è stato proprio un ricordo del nonno di Pampaloni, uscito sul “Corriere della Sera”. Mi raccontava Bilenchi che dopo averlo letto sul giornale Pampaloni gli aveva telefonato per ringraziarlo, senza riuscire a trattenere la commozione. Insomma, direi che, anche se stava ormai scomparendo, ancora esisteva un mondo letterario degno di questo nome.

Intervista a cura di Francesca Sante

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