Fabio Pusterla | Inediti da “Cenere, o terra”

Tre inediti di Fabio Pusterla estratti da "Cenere, o Terra", con una nota introduttiva di F.Ottonello e M. Milani, fondatori del progetto MediumPoesia e curatori della rassegna MediumPoesia: Poesia & Contemporaneo

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Questi tre inediti di Fabio Pusterla a livello tematico ruotano intorno a due poli, quello della morte e quello della vita, entrambi compresi nella cenere, elemento di lutto ma anche di fertilità. D’altronde è proprio la parola “cenere” a comporre il titolo – estrapolato dal verso dantesco cenere, o terra che secca si cavi (Purg. IX, v. 115) – della nuova silloge in uscita a settembre 2018: Cenere, o terra. Nelle tre poesie presentate cambiano i luoghi ed è costante l’intersecarsi tra le dimensioni temporali, sia quella passata che quella ipotetica ruotano infatti intorno al tempo presente del poeta che scrive e osserva animato da coscienza. Il poeta si interroga sul valore della memoria, che pare incerto, rimanendo aperto a cogliere oltre al «sentore di rosa selvatica» «anche il dolore, se fosse necessario». Il fare poetico di Fabio Pusterla è un restare in ascolto nel presente, evocando le voci del passato e della memoria che si sprigionano in quel momento, è fermarsi, sentire, riflettere alla ricerca del «senso» di cui non si sa dire. Pur trattando vicende private di sofferenza, questi versi sembrano orientati al carattere esistenziale e collettivo del messaggio: ciò che viene indagato è la possibilità di una «memoria viva del mondo» capace di trascendere la storia, passando di padre in figlio, di bocca in bocca (procedimento poetico che l’autore aveva già intrapreso in altre raccolte come Folla sommersa, ma già rintracciabile in Concessione all’inverno e Bocksten). 


La scrittura di Pusterla risulta qui estremamente comunicativa, con una tendenza alla narratività che lo fa accostare alla cosiddetta “linea lombarda” anceschiana. Gli interrogativi che il poeta si pone si mostrano anche attraverso la moltiplicazione della voce, che chiede ascolto nel suo essere respiro nel peso della terra, oltre la cenere e grazie alla cenere. Ciò che rimane è il «punto esatto» dell’adesso che si configura, nonostante la coscienza dell’effimero e l’amara memoria, come momento denso di tempi e di luoghi, di significati e stupore per il mistero di essere vivi, lo stesso per cui «pazze vibrano a stormi le libellule».  Dopo il buio della perdita – «i boschi neri di lontananza» in cui devono tornare i morti senza nome e le persone andate già come il padre – anche al poeta vivente non resta che tornare per abbandonare la «discendenza della cenere». Tuttavia, l’immancabile ritornare alla vita è connotato da una rinnovata consapevolezza che dà accesso ad una rinnovata dimensione, quella che è «nella musica pulsante dolceamara del presente».

Francesco Ottonello
Michele Milani


VERSO LO ZEBIO

E l’ingegno dell’uomo, e la libellula
Guido Gozzano

Dalla Croce di Sant’Antonio,
dentro i boschi del sangue e del muschio.
Di qui saliva una sera Rigoni
Stern piangendo Primo Levi d’affocata
simmetrica desolazione, sulla roccia spezzata
poggiando una mano smagrita o una lacrima.
Più su, al diradare dei pini,
si aprono le ferite e le voragini,
le dilaniate vite, i cimiteri. E l’Area Sacra:
a quale osceno dio? a quale irragione?
Vacche brucano cardi,
bambini in corsa innalzano contorti
frammenti di granata
ignari del passato e del futuro.
Ma prima, su una polla irta d’insetti,
pazze vibrano a stormi le libellule.

*

FANTASMI A UN CONCERTO DI TERRY BLUE

Fosse stato lì accanto nella notte,
davvero lì non solo proiezione
o fantasma, la mano già pronta
al pacchetto, all’accendino, come un tempo,
ma con l’aria di chi adesso arriva da molto lontano,
smagrito forse dagli eoni
traversati; fosse stato
lì davvero nelle tenebre corse dai fari
– la massicciata cupa le distanti
rotaie quei vecchi solchi
fangosi d’abbandono
reti spinate garitte in disuso,
mummie di fiori persi perse ombre –
suona bene però, avrebbe detto,
e sembra forte, contento di essere lì,
esattamente al suo posto, mi pare:

del nipote questo avrebbe detto,
del figlio di suo figlio cioè mio, per lui di là
ancora da venire, inconosciuto
neppure immaginabile alla morte
prematura, del nipote sul palco ora, nel cuore
dell’antico disastro per fortuna non suo,
o di un nuovo disastro anche più duro
solo suo e non più nostro, sweet pain
d’alberi in fiamme e piogge, diciottenne

e nuovo secolo millennio paesaggio dolore futuro,
con me già più simile all’altro, forse, lo scomparso
mio padre, più vicino almeno per età,
con me che senza forse avrei accettato
la sigaretta, il miracolo, la voce
arrochita, e avrei risposto
sì, suona bene e almeno un po’
ci riscatta. Magari
ne valeva la pena, cosa dici?

Cosa dire non so, avrebbe detto sardonico,
ma vieni qua, che accendo, e poi fumiamo,
Scemenza. Dopo sarebbe andato verso il buio,

sparendo oltre quell’acqua che nel nome
ricorda i bachi morti, verso i boschi
neri di lontananza. E anch’io sarei
tornato, nella musica
pulsante dolceamara del presente.

*

SOVRAPPOSIZIONI A BERLINO

Del senso, mi chiedevi da lontano: di che senso
avrebbe allora la cosa.
Ti rispondo che ho visto una ragazza
mettersi in posa da cubista su una stele
del Denkmal di Berlino, una pietra fra migliaia
per sei milioni di morti senza senso; un’altra si sgranchiva
le gambe flettendo bene anche il tronco e occhieggiando
caso mai fosse sfuggita ai passanti
l’evidenza dei seni.
Lì sotto puoi ascoltare i nomi e le storie
di tutti, se hai sei anni di tempo, e ancora mancheranno
i senza nome, i dispersi e l’infinita
discendenza negata della cenere,
senza storia né dove.
All’uscita vedi due che si rincorrono, gridano,
è quasi sera, un messaggio dice del padre di un amico
che è partito per sempre, il traffico
scorre veloce, tra lampi di selfie e risate, non piove.
Non so dirti del senso. L’ho cercato
a lungo senza trovarlo. Ora forse mi basta
il lampo giallo del ginko biloba,
un bagliore sull’acqua della Sprea
forse nel punto esatto di una raffica
e di un corpo sprofondato laggiù.
Un solo nome come un sasso nella mano
che tengo chiusa in tasca. Un sentore di rosa
selvatica. Anche
il dolore, se fosse necessario.
Anche quello, sì. Resto in ascolto, respiro.

Fabio Pusterla

Fabio Pusterla

Fabio Pusterla

Fabio Pusterla, nato a Mendrisio (Svizzera, Canton Ticino) nel 1957, laureato in Lettere Moderne con Maria Corti all'Università di Pavia, insegna al Liceo Cantonale di Lugano 1 e all'Università della Svizzera italiana a Lugano. È attivo come poeta, traduttore (soprattutto dal francese, ricordiamo le traduzioni da P. Jaccottet) e saggista. Ha esordito in poesia nel 1985 con Concessione all’inverno, a cui sono seguite negli anni numerose raccolte, un’auto-antologia uscita per Einaudi, Le terre emerse, raccoglie le sue poesie fino al 2010. Ha avuto numerosi riconoscimenti per la poesia (tra cui Premio Montale, Premio Schiller e Premio Dessì) ed è presente in molte antologie di poesia del secondo Novecento. Le sue ultime raccolte poetiche sono state Corpo stellare e Argéman, quest’anno uscirà la nuova silloge Cenere, o terra (Marcos y Marcos). Dirige la collana «Le ali» per Marcos y Marcos.

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l'altramerica, editoriale

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